C’ERA UNA VOLTA L’INDUSTRIA CON LA SUA LETTERATURA

I l tema del lavoro è, naturalmente, drammaticamente centrale nel dibattito politico odierno. È perfino ovvio sottolinearlo. Nell’orizzonte della più stretta attualità si identifica con la ricerca del lavoro, col dramma della disoccupazione o con l’altro, più generale, della difesa dei diritti dei lavoratori. E anche chi, non banalmente, tematizza la questione della produttività come decisiva per la rinascita del paese, non la riduce al solo punto di vista dei lavoratori, che dovrebbero lavorare di più o meglio, ma la inquadra in un orizzonte complesso, che non trascura l’esigenza di una miglioree più efficace organizzazione del lavoro stesso nonché quella del clima nel quale esso si compie. Anche se oggi la questione dirimente è quella di fondare un nuovo patto per la produttività, mi sembra che, su tempi più lunghi, se usciremo dall’angolo della crisi, ci si potrà ispirare a un’idea nuova del lavoro tradizionalmente inteso, in una prospettiva di una liberazione dal lavoro. Nuovi liberali e nuovi socialisti potranno costruire una nuova civiltà del lavoro se si potrà, complice la tecnologia, lavorare meno e meglio, lavorare tutti. Una scommessa, un’utopia. Ma l’orizzonte utopico, quando non è pura astrazione, imposizione totalitaria di un punto di vista, coincide con gli ideali che migliorano la realtà.

In questa prospettiva, e non solo in questa, possiamo leggere il bel libro, Lamiere, la letteratura tra fabbrica e città, che si presenta oggi alle 16 nella sede della Cgil in via Torino. A presentare il volume, introdotto e curato da Gianmarco Pisa, saranno, oltre a chi scrive, Peppe Zollo, Maurizio De Giovanni, Pietro Marcenaro, Silvio Perrella e Paolo Giuliano. Come Silvio Perrella (fra gli autori del volume), non credo nell’esistenza di un vera e propria letteratura industriale, ma certamente esiste una letteratura che, in vario modo e con diversa sensibilità, ha rappresentato un mondo che partecipa del nostro immaginario al di là del vissuto sociale e politico. E come il mondo contadino muove da tempo in tutti noi un sentimento di commossa nostalgia, anche quello dell’industria comincia a rappresentarsi come ricordo e rimpianto. Il che la dice lunga sui mutamenti della storia, sui movimenti della coscienza e del sentire collettivo.

Risultano pertanto suggestive, oltre che, ovviamente, interessanti, le pagine dedicate ad Adriano Olivetti e al mondo culturale che si mosse con lui in una irripetibile esperienza: quel connubio fra fabbrica e cultura che segnò veramente e profondamente un’epoca. Figura grande e, pure, discussa (almeno nei giudizi politici dei critici contemporanei e posteriori) come mostrano i bellissimi saggi di Stefano Mollica, Gianmarco Pisa e Vincenzo Esposito. D’altro canto il rapporto che l’imprenditore di Ivrea tentò di costruire in maniera fondativa, per così dire, evitando giustapposizioni salottiere, ritorna nelle interessanti analisi di Peppe Zollo, Ugo Marani e Giovanni De Falco. Un Olivetti, insomma, amato e criticato sia dai comunisti che dai liberali i quali forse, per motivi diversi, non seppero individuare nella sua opera il modello per un possibile riformismo, una via italiana al riformismo. Complice, probabilmente, qualche ingenuità insita nell’impalcatura generale del suo pensiero.

Ma in un breve scritto nel quale non è possibile discutere dei tanti scrittori citati, da Bernari a Volponi, mi sembra particolarmente interessante segnalare la riflessioneprovocazione di Vincenzo Esposito ( L’excursus letterario dentro la parabola dell’industrialismo), che afferma che «il contributo letterario più notevole sul tema non è un romanzo ma un saggio di Marco Revelli, Oltre il Novecento ». Infatti, continua Esposito, «Marco Revelli può proseguire, spingendosi fino a un’analisi molto stimolante del lavoro e del rapporto tra produzione materiale e produzione intellettuale, sostenendo che il comunismo burocratico si configura come una tragedia storica perché tradisce il suo concetto originario che era ed è quello della liberazione del lavoro».

Ernesto Paolozzi

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