LA SCUOLA FRA PROPAGANDA E TECNOBUROCRAZIA

La comunicazione, la propaganda e il ruolo del preside

L’opinione pubblica è stata sommersa dalla propaganda sia da parte dei fautori che dei denigratori della riforma. Ciò non aiuta il dibattito, rende anzi debole, se non irrilevante, ogni tentativo di aprire un vero, profondo, discorso pubblico sul futuro della formazione dei giovani italiani. Lasciamo da parte le giaculatorie sui professori (gli statali in genere) fannulloni da un lato e gli isterismi ideologici sul rischio di svendere la scuola italiana al capitalismo mondiale dall’altro. Prendiamo il caso specifico del ruolo del dirigente scolastico, il preside. L’opinione pubblica ha capito che il preside avrà il potere di licenziare un docente impreparato o fannullone. Questo è quello che è stato percepito dai cittadini italiani non direttamente interessati, complice la propaganda e una cattiva informazione da parte dei media. Giubilo fra la destra, i liberali estremisti, i neo riformisti ex comunisti convertiti al modernismo, al velocismo, alla meritocrazia. Scandalo fra i tardo comunisti, fra i cattolici buonisti, fra gli egalitaristi vecchi e nuovi, antipolitici di professione.

Ma i presidi hanno veramente questo potere? No. La riforma su questo punto è complicata e confusa, essenzialmente burocratica. Insomma, un colpo al cerchio ed uno alla botte. Il dirigente scolastico può scegliere di proporre un contratto triennale presso l’istituto che dirige ad alcuni docenti, ma solo ad una parte di quelli che rientrano nel cosiddetto organico dell’autonomia o del potenziamento. Sono docenti che i vecchi provveditorati (oggi USR) attribuiscono in una certa quantità alla scelta delle scuole oltre l’organico tradizionale. Non servono, in altre parole, a coprire le classi presenti in un istituto per svolgere la consueta attività didattica: dovrebbero essere utilizzati per attività che integrano o supportano il normale insegnamento, quello che costituisce il centro vitale di tutte le scuole di ogni ordine e grado. Potrebbero svolgere attività di recupero, o svolgere determinati programmi o azioni funzionali al piano triennale dell’offerta formativa. Ogni istituto scolastico ha un proprio organico dell’autonomia, la cui consistenza è attribuita dagli Uffici scolastici, del quale fanno parte sia docenti soprannumerari o trasferiti, sia i docenti neoassunti destinatari del contratto triennale. Si è anche verificato che molte scuole si siano visti arrivare docenti abilitati in discipline che non figurano affatto fra quelle contemplate nel piano di studi di quel tale indirizzo: professori di filosofia, ad esempio, si sono trovati a svolgere servizio in Istituti tecnici o professionali, con imbarazzo loro e del dirigente

Senza dilungarci su tanti altri aspetti, come, ad esempio, il probabile contenzioso che potrebbe aprirsi con quei docenti che, ritenendo la loro esclusione ingiusta dati i bandi pubblicati  e i curricula dei prescelti, impugneranno, come è loro diritto, le decisioni del dirigente, possiamo affermare con certezza che il potenziamento del ruolo del preside sarà marginale. Insomma nessuna svolta epocale. Forse una ulteriore burocratizzazione, paradossalmente, e il rischio di creare un clima di tensione, un malcontento generale che non fa bene a nessuna organizzazione (lo sanno bene le aziende più moderne ed avvertite), meno che mai al mondo della scuola dove le relazioni umane sono fondamentali. Toccherà ai dirigenti scolastici, probabilmente, saper gestire questa trasformazione delle relazioni umane oltre che professionali. Sapranno essere dei veri  leader o si trasformeranno in piccoli satrapi?

Certo, non vanno sottovalutate preoccupazioni più radicali, critiche più aspre ma certamente interessanti. Come quelle che sospettano che la riforma sottenda “una ragione, come ammonì poco prima di morire Giorgio Israel, di controllo politico-ideologico in modo da disporre di un ceto di dirigenti che faccia da cinghia di trasmissione dei precetti ministeriali. Basti pensare all’ultimo concorso per dirigenti. La batteria di quiz era composta da un gran numero di domande sbagliate e poi da una massa di domande che richiedevano da parte del candidato la conoscenza di una letteratura psico-pedagogica di tipo costruttivista. E perché mai per essere un buon dirigente debbo essere esperto e consenziente con certa letteratura e non altra? Qui viene messa in forse non solo la libertà d’insegnamento ma quella di pensare liberamente. Se poi un dirigente viene dotato anche del potere di assumere e controllare la carriera dei ‘suoi’ insegnanti siamo al regime.”

Il tema della valutazione dei docenti è infatti tema delicatissimo. Il dirigente sarà affiancato da un comitato di valutazione composto da docenti, genitori e studenti (alle superiori), nonché un membro esterno dell’USR. Il comitato elaborerà i criteri di valutazione e sarà sempre il dirigente ad assegnare i premi ai docenti.  Potrà scegliere i propri collaboratori, fino al 10% dell’intero collegio docenti. I collaboratori dovranno rientrare nel computo dell’organico dell’autonomia. Chiaro, no?

Si ricordi che la Carta della Scuola fascista del 1940 ridefiniva il preside come “capo dell’Istituto”, una figura monocratica che ora viene dotata di altri pesanti poteri. Non siamo al fascismo, ritengo e spero, ma certo la libertà di insegnamento qualche pericolo lo corre così come corriamo il rischio di imbatterci in una “dittatura” della mediocrità se non della stupidità.

Bulimia riformista

La riforma Gentile, in parte tributaria di quella proposta da Benedetto Croce, fu ritoccata da Belluzzo e Bottai negli anni Quaranta. Nella nostra repubblica la prima riforma di un certo peso è quella della cosiddetta scuola unificata del 1962. Si deve aspettare il 1974, con i Decreti delegati, per avere un’altra riforma che assorbiva, peraltro, gli umori del ’68 (burocratizzando il bisogno di partecipazione dei giovani), la radicale rivoluzione culturale che attraversò il mondo occidentale. Nel ventennio successivo si è intervenuti su particolari segmenti, soprattutto sulla scuola elementare, ma l’impianto generale del sistema della formazione rimase pressoché invariato. C’è chi si è spinto a dire che, sostanzialmente, la riforma Gentile rimaneva il punto di riferimento della scuola italiana pur in condizioni storiche così mutate e nonostante l’avversione costante per quella dimensione pedagogica che affondava le sue radici nella filosofia idealista e storicista, poi in parte fascistizzata. Se si guarda alla funzione svolta dai licei, questo giudizio non sembrerà troppo paradossale, considerata anche la difesa che ancor oggi, da destra e da sinistra, si fa di questo tipo di scuola.

Nella cosiddetta seconda repubblica il sistema dell’istruzione italiana ha dovuto affrontare, anche sotto la spinta europea, la riforma dell’autonomia targata centrosinistra, ministro Luigi Berlinguer. Era il 1997. E’ seguita la riforma del centrodestra, ministro Letizia Moratti, nel 2003. Nel 2006 Fioroni, ministro del governo di centrosinistra impone parziali ritocchi e ne abroga la parte che riguarda l’istruzione superiore ma nel 2008 un nuovo governo di centrodestra, ministro, Mariastella Gelmini, promulga una nuova riforma. Nel 2015 è la volta del governo Renzi. In meno di venti anni quattro riforme complessive più circolari, decreti, ritocchi. Una sorta di mania riformista che può schiantare qualunque organismo, qualsiasi istituzione. Il riformismo è un metodo politico rispettabile e auspicabile che consiste nel saper gradualmente modificare gli assetti politici ed istituzionali nel confronto con i mutamenti della storia: la classe dirigente italiana lo ha mortificato, in qualche momento reso farsesco. Una frenesia riformatrice che snatura se stessa perdendo il senso della gradualità, del buon senso, della phronesis. Oltretutto privo, sostanzialmente, di un’idea di società e di futuro, ispirato a idee altrui che poco e male interpretano la realtà italiana, le sue caratteristiche peculiari, la sua natura e tradizione.

La scuola ha retto a questi continui scossoni per una sorta di resistenza passiva, una capacità di adattamento, di depotenziamento delle tante banalizzazioni pedagogiche, delle continue complicazioni burocratiche, una resistenza silenziosa messa in atto da docenti e genitori in un tacito patto di sopravvivenza. Il timore è che, questa volta, la resistenza passiva a fin di bene si tramuti in un disimpegno di fatto, in una generale e profonda demotivazione.

L’algoritmo e l’assunzione dei docenti

L’assunzione di un così vasto numero di docenti strappati al precariato a vita non può che essere salutata come un evento molto positivo. Imposto, in verità, dall’Europa, a regime dovrebbe portare all’assunzione o alla regolarizzazione dei professori precari, di duecentomila insegnati. Eppure, si può dire che le maggiori proteste sono state suscitate proprio dal piano predisposto dal governo sul quale il presidente del consiglio fidava molto per accrescere il consenso elettorale. Perché? Probabilmente per le modalità con cui le assunzioni sono avvenute, in molti casi su quel potenziamento che non prevede la classica assegnazione delle classi ai docenti  ma soprattutto per l’aver affidato ad un algoritmo la cui natura è rimasta oscura, il destino di migliaia di insegnati non sempre giovanissimi, costretti ad allontanarsi dalle proprie famiglie per raggiungere sedi spesso disagiate mentre una più cauta e ragionata gestione avrebbe potuto evitare errori veri e propri nell’assegnazione delle sedi, ingiustizie di vario tipo che è difficile ricostruire in un breve scritto. Solo un errore, per così dire, tecnico?  Difficile dirlo.

Il nuovo modello di assunzione può creare un nuovo tipo di precariato, un precariato stabilizzato, nel senso che nuovi docenti, pur non perdendo il ruolo acquisito saranno legati da contratti triennali che potrebbero precipitarli nella condizione di dover cambiare scuola più volte nella loro carriera. Il che, con il passare del tempo, non gioverà alla qualità dell’insegnamento come ingenuamente si crede. Senza contare che in un sistema scolastico pubblico il dover ricontrattare ogni tre anni la propria posizione (e, con essa, anche il lavoro che si andrà a svolgere) può dipendere dalla gestione politica, se non umorale, della dirigenza, mentre in un sistema privato almeno si risponde al mercato, ossia all’utenza. Insomma, meglio rispondere ad alunni e famiglie che non a ministeri, uffici scolastici, a dirigenze.

Vorrei segnalare che il malcontento dei “nuovi” assunti si è saldato con quello dei docenti di ruolo, quelli ancora in gran parte garantiti e di molti presidi. Segno che i professori italiani non hanno gradito e non gradiscono l’atteggiamento generale del governo, la natura stessa dell’ennesima riforma. Il che, non ci stancheremo mai di dire, è un segnale che la politica dovrebbe cogliere, perché non si può governare la scuola senza il consenso, vorremmo dire, la passione dei professori.

 La madre di tutte le riforme: la rottamazione dell’attuale sistema di valutazione

Quali che siano le valutazioni sulla legge 107/15, quali che siano le questioni sindacali circa la condizione dei professori, temo che non si faranno passi avanti se non si comincerà a discutere seriamente, rigorosamente, dello sfondo culturale, potremmo dire ideologico, che è a fondamento delle riforme della scuola, tutte, di destra  o di sinistra, più o meno fallimentari che siano. A partire, naturalmente, dalla valutazione, dalle radici culturali, filosofiche, che hanno orientato i sistemi di valutazione nell’intero mondo occidentale.

Non è questa la sede per affrontare una discussione filosofica sui presupposti teoretici e ideologici che hanno orientato la ricerca pedagogica negli ultimi cinquanta anni. Ma possiamo limitarci a dire che ha trionfato un modello neopositivista, scientista, tecnocratico o come altro lo si voglia definire. Il mito che si possa arrivare ad una valutazione oggettiva, o abbastanza oggettiva, attraverso metodi di misurazione più o meno agguerriti, più o meno sagaci. Insomma, i test o quiz, come pure si dice con una qualche ironia. Eppure, non solo la filosofia, ma la stessa epistemologia hanno mostrato, già dalla metà del Novecento, come la pretesa oggettivistica, quantitativa, misurante o calcolante, sia essa stessa una posizione metafisica: si fonda, ad esempio, sull’idea di una oggettività esterna al soggetto, immutabile, che bisogna soltanto “scoprire”, mentre ciò che esiste veramente è la relazione soggetto-oggetto. Si ha quasi ritegno a dover citare ancora una volta un fisico nucleare, Heisenberg, che spiegò come anche l’esperimento più asettico che si possa immaginare è condizionato da chi compie l’esperimento, da chi, sostanzialmente, fa parte dell’esperimento.

Ma, ciò che è ancora più preoccupante, è che la tendenza tecnicistica e burocratica si è sovrapposta, assorbendole in modo confuso e approssimativo, alle culture di matrice deweyana, marxista e cattolico democratica. Anche per questo Giorgio Israel poté affermare, forse con enfasi eccessiva ma con sostanziale ragione: “È il trionfo della follia del ‘successo formativo garantito’. Chi abbia frequentato certi corridoi ministeriali sa che non è possibile scrivere in un documento ‘lo studente, al termine del corso, saprà risolvere un’equazione di secondo grado’: bisogna dire ‘sa risolvere’, all’indicativo presente… perché la scuola garantisce il successo per decreto. Oggi, gli insegnanti che vogliono fare il loro mestiere sono costretti a impiegare gran parte del loro tempo a compilare scartafacci ispirati a queste logiche demenziali. E, come se non bastasse, ora le scuole sono impegnate, anziché a insegnare, a compilare un pesante documento di autovalutazione (RAV, Rapporto di autovalutazione). Anche qui, se ancora avesse corso il buon senso, l’idea che le scuole impieghino una quota considerevole di tempo a darsi un voto rispondendo a decine di domande, potrebbe solo far parte di un libro di barzellette.”

Naturalmente non è mancata in questi anni un’opposizione autorevole ai metodi fondati sui test. Ricordo, fra i tanti quella di un nutrito gruppo di studiosi di tutto il mondo pubblicato dal The Guardian. “Ponendo l’enfasi, scrivono, su ristretti margini misurabili i rilievi OCSE-PISA trascurano aspetti impossibili da misurare, come gli obiettivi educativi di tipo fisico, morale, civico o lo sviluppo artistico, pertanto essi restringono pericolosamente l’immaginario collettivo su ciò che l’istruzione sia o debba essere.  Essendo l’OCSE un’organizzazione tesa allo sviluppo economico è ovviamente interessata a condizionare il ruolo dell’istruzione pubblica a favore della comunità economica. Tuttavia preparare i giovani esclusivamente con l’obiettivo di ottenere un posto di lavoro ben retribuito non è l’unico, e forse nemmeno il principale, fine a cui tende l’istruzione pubblica. Essa deve, al contrario, preparare i discenti a saper affrontare la libera partecipazione democratica dell’auto-governo, all’azione morale, e ad una vita di sviluppo, crescita e benessere personale.”

Nel nostro paese questo compito specifico di misurazione astratta lo compie l’Invalsi. All’inizio doveva essere un istituto che, con metodi statistici campionari doveva tentare di costruire un’immagine dello stato della scuola italiana. Si è trasformato in un istituto censuario cui è stato dato il potere addirittura di imporre una prova a quiz che interviene e altera il processo di valutazione facendo parte delle prove per l’uscita dalle scuole medie. Ciò ha avuto come conseguenza il dilagare della disastrosa prassi del “teaching to the test”, che mortifica la valenza formativa dell’apprendimento e che è ormai largamente criticata all’estero da chi l’ha sperimentata prima di noi.

Naturalmente di fronte alla realtà, alla storia sempre nuova ed imprevedibile, anche i responsabili dei vari enti hanno riconosciuto che la valutazione non è un metro assoluto, stabilito una volta per tutte, ma è piuttosto uno strumento di misura che non solo  cambia con le circostanze ma ha a che fare con la previsione, con la scommessa sul futuro di chi viene valutato. In un documento dell’Invalsi a proposito del quadro di riferimento si legge “il Quadro di Riferimento è un work in progress, che accompagna lo sviluppo del sistema di valutazione e che in parte precede, in parte segue la progettazione e la messa a punto degli strumenti di cui esso si avvale”. Bene, ma a me sembra un tardivo riconoscimento della relatività di metodi valutativi che spesso possono essere non solo inutili ma addirittura nocivi. Gli strumenti di valutazione devono essere anch’essi oggetto di valutazione e non solo da un punto di vista tecnico, ma da quello  della loro efficacia. Il che ci rimanda all’infinito. Chi e come valuterà chi deve valutare chi deve essere valutato?

A questo punto sarebbe stato più semplice riproporre, aggiornato, il sistema di valutazione affidato ad ispettori terzi e a sistemi colloquiali e, soprattutto, concedere fiducia ad un organismo, la scuola e le università, che si autoregolano e che sono sottoposte quotidianamente al giudizio di alunni, genitori e degli stessi docenti. Chi di noi non sa perfettamente chi sono i professori bravi dei nostri figli o nipoti?

Ma non si riesce a far diventare queste considerazioni discorso pubblico, avvelenati dalla propaganda o comunicazione che dir si voglia. “I professori non vogliono farsi valutare perché sono dei fannulloni”, dicono alcuni e altri rispondono:  “col pretesto della valutazione volete reprimere la libertà di insegnamento, la libertà di opinione”. Così non faremo passi avanti e il sistema dell’istruzione si sgretolerà lentamente ma inesorabilmente. Edgar Morin citava sin dal titolo di un suo fortunato libretto un aforisma di Montaigne: “Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena.” Noi possiamo dire che, grazie ai metodi di valutazione che circolano nelle scuole e nelle università, rischieremo di avere della teste ben piene: di sciocchezze.

(Di Ernesto Paolozzi per “La voce delle voci”  del 26 novembre 2016 e per la rivista “AS Finanza & Consumo” dicembre 2016)