Il Partito riformista tra ingenuità e temi nuovi.

Il dibattito sulla riorganizzazione del centrosinistra ha trovato, nella nostra regione, un momento alto di confronto, che va al di là della pur legittima tattica politica.

Se vogliamo andare alla radice della questione, io credo che si possa dire che si fronteggiano due posizioni, una tendente a privilegiare il ragionamento politico complesso attorno ai valori classici della politica, la seconda tendente a porre in primo piano le esigenze mediatiche, tipiche di una democrazia di massa, dominata dai messaggi semplici e diretti.

Chi mostra perplessità verso la semplificazione delle forze politiche del centrosinistra, o vi si oppone, sa che non è facile mettere assieme socialisti riformisti (come sembra vogliano diventare i democratici di sinistra), cattolici democratici, cattolici liberali e democratici liberali. E queste ragioni sono forti, perché basterebbe scendere dall’astratto terreno della geometria politologica al concreto delle passioni, delle sensibilità, dei programmi, per comprendere quanto sia faticoso un processo di unificazione. Penso, ad esempio, a temi quali la difesa della scuola pubblica, oppure al cosiddetto rigore finanziario, o a questioni quali quelle della ricerca e della sperimentazione in campo biomedico.

D’altro canto mi sembra evidente che chi sostiene la tesi prodiana ha in mente un altro tipo di problematica. Pensa, probabilmente, ad un elettorato che in questo momento sente forte e improcrastinabile la necessità di liberarsi del berlusconismo ed avverte, non senza una certa ingenuità, che l’unione fa la forza, per cui un partito unico del centrosinistra sarebbe in grado di battere abbastanza facilmente un centrodestra in crisi di idee, di coesione, di classe dirigente.

Anche se per formazione culturale e propensione politica mi sento più vicino alla prima posizione, quella che, lo ripeto, privilegia il ragionamento politico complesso, mi rendo conto che, per vincere le elezioni, c’è forse oggi necessità di parlare un linguaggio chiaro e semplice, talvolta quasi infantile come accade, purtroppo, nei momenti di crisi, allorché i cittadini sono quasi storditi dalla propaganda e dalla retorica in mancanza di un confronto alto di idee e passioni. Paradossalmente, e Berlusconi ne è un esempio sullo schieramento opposto, la posizione più politica è quella che appare la più impolitica. Cominciamo a vincere le elezioni, poi si vedrà se liberali di sinistra ed excomunisti, cattolici e laici, sapranno governare assieme.

Eppure il problema del governo non può essere del tutto sottovalutato, anche in un momento nel quale sta per cominciare una lunga ed aspra campagna elettorale che durerà, presumibilmente, per altri due, tre anni. E’ allora necessario che le forze politiche, e soprattutto gli uomini di cultura (alludo a quelli impegnati, e non delle finte anime belle) si provino a rintracciare quei motivi di unità forti e reali sui quali costruire un’alleanza di governo fra partiti, gruppi e movimenti molto diversi ma uniti in una comune sensibilità democratica. Ma anche in questo caso, se é doveroso che ciascuno guardi al proprio passato, è necessario saper guardare al futuro, preoccuparsi dei problemi nuovi che la storia ci propone, prefigurarne le soluzioni possibili.

E proprio a Napoli, per fare solo qualche esempio data la oggettiva mancanza di spazio, il movimento dei consumatori ha fatto sentire prepotentemente la sua voce, e sarebbe il caso che la politica si facesse carico di questa nuova insorgenza. Dai lontani Stati Uniti, arriva la conferma di una questione che i cosiddetti esperti hanno fino ad ora trattato con sufficienza, ossia che, in tempo di globalizzazione e di formidabile sviluppo tecnologico, non sempre la ripresa economica garantisce l’occupazione e la distribuzione della ricchezza. Il che, per il nostro Sud potrebbe significare il definitivo baratro.

Ci sarebbe da discutere dunque, e seriamente, per una sinistra riformista e liberale che voglia andare oltre la ormai sterile polemica fra statalismo e liberismo economico.

Ernesto Paolozzi

da “La Repubblica” del 3 ottobre 2003                                                                                                                                              Repubblica archivio