Francesco Compagna

Francesco Compagna

Sono passati venti anni dalla scomparsa di Francesco Compagna. Un tempo politico lungo di per sé, lunghissimo se si guarda al tumultuoso mutamento avvenuto negli ultimi dieci anni nell’economia mondiale e nella politica italiana in particolare. Viene spontaneo chiedersi, dunque, se la sua eredità sia ancora vitale, se sia possibile, per chi abbia inteso il suo metodo, interpretare con quello strumento la realtà di oggi.

Innanzitutto: la questione meridionale è veramente consegnata alla storia? A noi sembra vero il contrario. Il Mezzogiorno ha fatto passi da gigante ma, nel complesso, non è riuscito ad accorciare il divario con le aree sviluppate del Nord Italia e dell’Europa. La mancanza, addirittura, di acqua in tante province meridionali è la scandalosa, empirica, prova dell’esistenza di una questione meridionale ancora lontana dall’essere risolta. Ma c’è di più. Il problema del Mezzogiorno d’Italia si ripropone oggi più di allora a livello europeo (ma Compagna aveva già chiara la questione) giacché l’integrazione economica e l’allargamento ad Est dei confini europei sollevano, nella sostanza, le questioni che sempre emergono in simili situazioni storiche. Il federalismo e l’autonomismo, condizioni necessarie perché l’integrazione e l’unificazione non siano soffocanti ed autoritarie, sono delicati strumenti, che devono servire per realizzare fini chiari, precisi, condivisi. Possono rappresentare garanzie (per usare una parola cara a Vittorio de Caprariis, Mario Pannunzio e allo stesso Compagna) per i più deboli e per gli svantaggiati, ma possono tramutarsi in strumenti di ulteriore, radicale, discriminazione. Qual è la nostra idea di federalismo, cosa significa per noi autonomismo?

La questione meridionale, dunque, si sposta, cambia connotati, ma rimane in piedi. Ciò che è preoccupante è la diffusa inconsapevolezza dei problemi sul tappeto. In questi anni si è nuovamente equiparata la questione meridionale alla questione morale, dimenticando la lezione di Francesco Compagna, di Guido Cortese e di altri rigorosi studiosi. Il risultato è stato quello di equivocare il senso della grande tradizione del meridionalismo risalente a Giustino Fortunato (maestro ideale, con Croce, di Compagna), assimilandola ad un rivendicazionismo straccione e scomposto. Si sono riproposti tutti i vecchi luoghi comuni, si è allentata la tensione politica e civile e sul Mezzogiorno si è abbattuta una coltre di silenzio. Così, da più parti e al di là degli schieramenti ideologici, si è affrontata la questione meridionale come un problema fra gli altri, i meno urgenti, appuntati sull’agenda politica, da fronteggiare con provvedimenti tesi a tamponare emergenze e crisi.

Eppure nel 1963 Francesco Compagna, distaccandosi a questo riguardo dalla stessa tradizione classica del meridionalismo, ammoniva che l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno aveva senso perché era ormai chiaro che “la ‘inferiorità’ del Mezzogiorno non è un dato di fatto permanente e immodificabile, nei confronti del quale sarebbe possibile solo un’azione che si proponga di alleviarne le conseguenze, ma non un’azione che si proponga di eliminarne le cause”.

Lo studioso intendeva dire che lo strumento essenziale dell’incentivo deve essere utilizzato, e funziona, all’interno di un quadro complessivo di politica generale, perché da solo non è risolutivo e può divenire perfino dannoso. Che senso aveva, negli anni Settanta, proporre aiuti per gli investimenti nel Sud se la politica inflattiva distruggeva il risparmio, condizione preliminare per ogni strategia di investimento? Che senso ha, possiamo dire oggi, invocare fondi europei se l’Europa pone vincoli rigidi, e troppo spesso astratti, tali da soffocare la già fievole spontaneità del mercato delle aree deboli?

Ma la dimenticanza dell’eredità meridionalista di Compagna è forse ancor più grave sul piano storiografico. Si è tornati in una sorta di revisionismo, da bar dello sport della storia, ad esaltare la dominazione borbonica e, più in generale, quella tradizione politica meridionale che, da Masaniello, simbolo di tutti i simboli, al comandante Achille Lauro, identifica la nostra peggiore tradizione politica, quella plebea, quella populista e paternalista.

L’attuale destra ha saputo ben sfruttare questa condizione di crisi della nostra cultura politica, e siamo arrivati al punto che gran parte del Mezzogiorno d’Italia ha votato in favore di una maggioranza di governo fortemente condizionata dal partito più antimeridionalista che l’Italia abbia conosciuto, la Lega Nord di Umberto Bossi. Ma anche la sinistra ha le sue colpe. Perché, nel fondamentale tentativo di recuperare la tradizione liberale e democratica, e di abbandonare i vecchi schemi ideologici, ha certamente esagerato, come spesso accade ai neofiti, abbracciando senza mezzi termini il liberismo di moda e, con ciò, condannando perfino quei liberaldemocratici, come Compagna, che, pure, avevano chiaro che lo Stato dovesse affrontare la decadenza del Mezzogiorno onde evitare che ricadesse nella secolare barbarie politica.

Il Mezzogiorno oggi, checché se ne dica, attraversa, con l’eccezione della sola Campania, il periodo peggiore della storia repubblicana, e fa quasi piacere pensare che Francesco Compagna non sia qui ad assistere a questo tragico spettacolo.

Compagna non fu particolarmente amato dalla sinistra storica. La sua rivista, “Nord e Sud”, nacque per combattere il laburismo ma anche per fronteggiare “Cronache Meridionali”. La battaglia fu aspra e severa, ma mai volgare o pretestuosa. E, con l’andar degli anni, il grande meridionalista comprese lo sforzo compiuto dai comunisti nell’opera di civilizzazione sociale del Sud d’Italia.

Ripercorrere questo processo è significativo, non solo per comprendere la biografia intellettuale e politica di Francesco Compagna ma, mai come in questo caso, per mettere in chiaro i problemi che nascono oggi, nel momento in cui il sistema maggioritario impostosi nei fatti costringe forze politiche e culturali a volte molto diverse a costruire un progetto comune di società per fronteggiare i conservatori, quando non i reazionari populisti.

Nel lontano 1954, nell’ Editoriale del primo numero di “Nord e Sud”, si affermava inequivocabilmente: “Liberazione civile del sottoproletariato urbano e rurale, secessione politica della piccola e media borghesia dal blocco agrario: sono i due grandi sogni dei meridionalisti che si avverano. Ma su di essi incombe il grande e minaccioso equivoco del Partito Comunista che preclude ogni prospettiva democratica di questi movimenti; che anzi fa leva su di essi per paralizzare lo Stato democratico.” E’ inutile ricordarlo, siamo ancora negli anni della lotta frontale fra due opposti schieramenti politici.

Nel 1967, ancora su “Nord e Sud”, con altrettanta in equivoca chiarezza, si legge: “Tuttavia, né nelle intenzioni dei suoi promotori né nella sua attività ‘Nord e Sud’ si è mai ridotta ad una pura e semplice affermazione di convinzioni anticomuniste. (…) Uno dei punti capitali della posizione di ‘Nord e Sud’ verso i comunisti è stato, infatti, sempre il pieno e preliminare riconoscimento della positività storica dell’azione comunista nel Mezzogiorno d’Italia e dei profondi motivi etici, politici e sociali che ne giustificano la genesi e il successo.”

Con atteggiamento che non esiterei a definire giolittiano, così come Giolitti verso i nascenti partiti di massa, popolare e socialista, all’inizio del secolo, anche Compagna riteneva decisivo il ruolo dei comunisti “risolventesi in un processo politico di agitazione del proletariato rurale e di promozione del sottoproletariato urbano: agitazione e promozione che avevano come risultato l’ingresso, per la prima volta, di queste componenti dominanti della struttura sociale del Mezzogiorno sulla scena politica del paese come forze veramente, anche se solo parzialmente, autonome e consapevoli.”

Contraddizione, dunque, di Compagna, o totale capovolgimento del punto di vista? Penso di no. Il processo storico stesso imponeva queste riflessioni. D’altro canto, sia il partito comunista che il partito socialista conducevano, per loro conto, un’opera di avvicinamento al pensiero liberale e democratico. Opera che si è compiuta solo pochi anni fa e che è costata non poche lacerazioni nel variegato e complesso mondo della sinistra italiana. Anzi, a guardare oggi le condizioni politiche di fondo del movimento che per comodità chiamiamo ulivista, bisognerà ammettere che quelle contraddizioni sono, per tanti aspetti, ancora vive. Sono mutati, almeno in parte, i soggetti sociali e, soprattutto, il linguaggio politico, per cui non si parla più di un proletariato rurale o di un sottoproletariato urbano o di piccola e media borghesia. Ma non vi è dubbio alcuno che il nostro problema sia quello di coniugare un’architettura istituzionale efficiente con la democrazia rappresentativa; l’esigenza del mercato e della concorrenza con quelle dello Stato sociale e della difesa dei più deboli e svantaggiati. E forse il compito che tocca oggi alla sinistra democratica e al liberalismo democratico, è ancora più complesso perché ci troviamo a fronteggiare un mercato mondiale più ampio e vasto; perché mancano le analisi sociali in grado di individuare soggetti sociali facilmente identificabili come quelli a cui si riferivano gli uomini di “Nord e Sud” e di “Cronache Meridionali”. La condizione, ad esempio, di svantaggiato, non trova un riferimento preciso in una condizione economica o sociale che potrebbe definirsi di classe o, almeno, di gruppo. Ma, allo stato, in una sorta di impalpabile quanto amara condizione psicologica.

Fra le poche certezze che abbiamo vi è quella per la quale fronteggiare l’impetuoso e spesso ingiusto sviluppo del mercato sembra possibile soltanto se la politica o l’etico-politico, possano ritornare a guidare l’economico. Il che significa , da un punto di vista liberale tradizionale, costruire istituzioni sopranazionali forti e largamente rappresentative, quindi libere e democratiche. L’Europa politica è la prima grande realtà che potrebbe finalmente venire incontro a questa diffusa esigenza, ad un drammatico bisogno. Liberali come Francesco Compagna videro sempre, sin dall’immediato dopoguerra, nell’unificazione europea l’elemento fondamentale della costruzione di un nuovo sistema più libero e più giusto. Ora gran parte della sinistra percorre una strada analoga. E sono lontanissimi i tempi in cui le forze comuniste erano essenzialmente antieuropeiste. Ma ancora, nell’ambito della sinistra, si fa strada l’idea che la rinascita della politica debba percorrere la via del movimentismo, ignorando e quasi snobbando la Constitution of Liberty, l’identificazione di concrete istituzioni liberali. Movimentismo che non va sottovalutato, se è vero come è vero che sono i movimenti a fornire la materia alle istituzioni; se è vero come è vero che il liberale Croce, citando il riformista Bernstein, soleva dire che il movimento è tutto, il fine è niente. Non ci nascondiamo, e certamente non se lo nascondeva lo storicista Compagna, che la storia, nel suo libero fluire, costruisce e abbatte i piccoli come i grandi edifici istituzionali, per cui mai si può affermare con sicurezza che questo o quel sistema politico-giuridico sia il sistema migliore. Ma ciò non significa che nell’ impegno politico quotidiano non si debbano prefigurare un progetto e un disegno in grado di dare forma alla sostanza politica. E mai come oggi la difesa di alcune fondamentali libertà è questione di sostanza politica.

Francesco Compagna fu essenzialmente un liberale, anche se militò per molti anni, fino alla morte, nel partito repubblicano. Ma fu un liberale atipico, perché la sua cultura filosofica e politica era di stampo crociano e, pertanto, storicista, non empirista, dialettica, non puramente razionalistica. Da qui la sua propensione ad affiancare alla difesa e alla promozione della libertà la difesa della socialità. Da qui l’attenzione allo Stato inteso, naturalmente, non come Stato etico, ossia totalitario, ma come comunità operante, come comunità capace di mediare e rappresentare gli interessi diffusi. Non è pertanto retorico affermare che in questa fase della vita politica italiana, il pensiero di Compagna, di cui nessuno può e deve appropriarsi, potrebbe essere però legittimamente un punto di riferimento per una sinistra riformista che intenda liberarsi delle antiche scorie totalitarie senza accodarsi acriticamente alle politiche economiche e sociali di una destra che, più che liberale, è una destra conservatrice.

Ernesto Paolozzi