Paolozzi: La bioetica per decidere della nostra vita

Sull’esigenza che la legislazione in bioetica sia leggera e non invasiva concorda anche Ernesto Paolozzi, un filosofo che appartiene alla tradizione fortunatamente non ancora spenta dello storicismo italiano, autore di un saggio, La bioetica per decidere della nostra vita (Christian Marinotti edizioni, 2009), a cui segue anche una parte antologica con documenti e interventi di varia impostazione. Paolozzi ricorda in proposito, molto opportunamente, l’art. 32 della nostra Costituzione, quello che recita:

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

In realtà, su questo principio del rispetto della persona umana dovrebbe essere possibile l’incontro fra la grande tradizione morale cristiana e le filosofie variamente “laiche”, intendendo per laicità il rifiuto di un principio morale autoritativo ed eteronomo, che pretenda di scavalcare le libere scelte della coscienza individuale. Il Cristianesimo -lo ha detto Hegel e molti altri, dopo di lui, lo hanno ripetuto- è la religione della libertà e sta certamente, nella sua forma secolarizzata, a fondamento della società liberale, ma la medesima affermazione non si può fare con la stessa risolutezza per tutte quelle confessioni religiose cristiane (la cattolica in primo luogo) che sottomettono la parola di Dio all’interpretazione di un qualsivoglia magistero ecclesiastico. Il laico -sottolinea Paolozzi- non ritiene necessario il ricorso ad autorità esterne alla coscienza individuale, capaci di indicare quale sia la “vera libertà” e la “vera laicità”.

Una bioetica laica è necessariamente una bioetica pluralista, che si sviluppa e si definisce attraverso un’ampia discussione pubblica, a cui debbono certamente partecipare anche le visioni religiose dell’uomo e della società, ma senza la pretesa di trasformarsi in norme giuridiche cogenti per tutti.

Nelle riflessioni di Paolozzi si coglie il tentativo di delineare un’etica della libertà che, pur obbedendo a un principio universale, non si perda nelle vaghezze di un razionalismo astratto incapace di tener conto delle differenze storico-esistenziali. E anche in questo far valere un’etica nella situazione, egli pensa di essere fedele ad un cristianesimo non confessionale. Questa etica

“risponde a problemi determinati in un orizzonte valoriale scelto come universale. Dunque anche il motto kantiano e, per tanti aspetti, evangelico – ricorda che ogni uomo è un fine e non un mezzo -per limpido e generoso che sia deve essere ogni volta riconsiderato ed adattato alla contingente situazione storica”.

Anche il rispetto per la vita su cui tanto insiste l’etica della Chiesa cattolica è un principio generale che va ,di volta in volta, commisurato alla concreta e particolare situazione storico-esistenziale nella quale le persone, quelle determinate persone, si vengono a trovare. Non è possibile parlare di trapianto, aborto, procreazione assistita, o testamento biologico, senza cercare di capire qual è, nella situazione specifica, la vita da tutelare e da salvare, in quali modi e con quali tecniche. L’etica non può ridursi a un ricettario astratto di norme dedotte meccanicamente da qualche principio e altrettanto meccanicamente applicati.

Nella vita morale c’è un elemento di creatività spirituale, di continua innovazione, di cui proprio la predicazione evangelica è uno degli esempi storicamente più alti: l’incontro con l’umanità di Cristo è sempre nuovo per ogni persona che si metta sulla sua strada e non può essere ridotto all’apprendimento delle formulette del catechismo. Nell’analisi di Paolozzi giustamente ci mette in guardia dal duplice pericolo che corre ogni riflessione morale, da una parte, come abbiamo visto, l’astrattezza dei princìpi morali che cadono dall’alto di un qualche magistero e, dall’altra, il riduzionismo biologico che stravolge il significato della ricerca scientifica per negare sostanzialmente libertà e responsabilità.

Non si tratta solo di facile e superficiale divulgazione giornalistica che mistifica, per amore di sensazionalismo, le scoperte scientifiche, ma anche di tendenze filosofiche verso forme di naturalismo etico che finiscono inevitabilmente col negare la specificità dell’esperienza morale, che è esperienza di scelta e di libertà. Qui non si tratta di negare il valore conoscitivo della biologia o delle neuroscienze, ma più semplicemente di mettere in dubbio che possa esserci una qualche normatività scientifica in campo morale. Di fronte alle recenti infatuazioni pseudoscientifiche per il DNA, in cui qualcuno ha voluto vedere le caratteristiche fondamentali della nostra individualità, quasi che in esso fosse racchiuso il nostro stesso destino, Paolozzi ci ricorda, sulle tracce anche di autorevoli biologi, che

“gli individui non sono macchine, non sono orologi regolati da sofisticati ingranaggi eteronomi. E non solo gli uomini, ma perfino il più semplice degli organismi viventi, l’ameba, o il più piccolo dei batteri, l’Escherichia coli, grande solo 0,001mm, interagisce con l’ambiente, si fa soggetto riorganizzando, autopoieticamente, se stesso in risposta alle sfide che gli si pongono dinanzi, rigenera creativamente l’organizzazione complessiva del proprio essere. In altre parole, l’uomo, come tutti gli altri esseri viventi, è sintesi di libertà e meccanicismo, giacché gli eventi che gli si propongono non possono essere predeterminati o prefigurati nella loro unicità, e la sua capacità di sopravvivenza è direttamente proporzionale alla sua capacità di saper rispondere in maniera creativa alle sfide che lo minacciano, in ambito biologico come in campo politico, in campo culturale come in campo etico”.

In conclusione, “ciò che conta, nella biologia come per la filosofia, è comprendere che ciò che sembra un destino già scritto è sempre, invece, una possibilità”.

La scelta è, dunque, la categoria fondante di ogni possibile morale: le scienze ci possono dare utili informazioni sulle condizioni biologiche e neurofisiologiche all’interno delle quali avvengono le nostre scelte, ci possono indicare i limiti spesso molto gravi entro cui si svolge la nostra azione, proprio per evitare il rischio della retorica di una libertà indiscriminata e astratta, ma certo non possono appiattire il dover essere sull’essere, sottrarci da responsabilità di costruire quotidianamente la nostra vita, andare incontro ad errori e pentimenti, rivedere i nostri giudizi, modificare il corso delle nostre azioni.

La laicità è anche questa consapevolezza che non esistono schemi predeterminati di azioni che ci assicurano di essere nel giusto, che ci garantiscono contro rischi e fallimenti, che ci evitino di dover pagare il prezzo dei nostri errori. Il pluralismo etico nasce proprio da questa costitutiva incertezza che insidia la vita morale, ma al tempo stesso l’arricchisce e la apre al futuro. Da qui nasce anche l’esigenza di un continuo confronto pubblico su tutti i grandi temi dell’etica e della bioetica, quando si tratta poi di compiere delle scelte legislative che vanno a incidere pesantemente sulla vita delle persone. Ci si può allora chiedere, come fa Paolozzi, se questa laicità aperta, che non conosce altro principio che non sia quello di una libertà paritaria dei soggetti chiamati a decidere, possa essere fatta propria da quelle confessioni religiose che rivendicano il possesso esclusivo di una verità che trascende la storia e le sue mutevoli contingenze.

Certo è che esse, pur nella rigidità delle loro teologie, non possono sottrarsi al confronto con un mondo che, ogni giorno di più, diventa irrimediabilmente plurale e che, attraverso il sistema globalizzato dell’informazione, non consente più a nessuno di chiudersi nella propria autoreferenzialità. Bisogna, però, essere ben consapevoli che il pluralismo implica la reciprocità del riconoscimento fra le differenti tradizioni religiose e culture e, prima ancora, il riconoscimento della libertà individuale all’interno di ogni singola cultura. Su questo punto non si può essere relativisti perché un simile relativismo, come l’esperienza dimostra, darebbe esca alla guerra di tutti contro tutti. Come scrive efficacemente Paolozzi,

“il principio della libertà, con tutto ciò che ne deriva, è certamente un principio assoluto ma è l’unico che prevede l’accoglimento di altri innumerevoli valori. NON ESISTONO PRINCIPI ASSOLUTI TRANNE IL PRINCIPIO DI LIBERTA’ CHE PER SUA NATURA NON AMMETTE ASSOLUTI”

Paolo Bonetti, “Nuova Antologia”, Firenze, gennaio-marzo 2010