I difficili rapporti tra Istituzioni e industria della cultura.

Quando si discute del rapporto fra etica ed economia si rimanda, implicitamente, all’intreccio fra scelte universali (per il bene di tutti) e scelte individuali ritenute, spesso a torto, egoistiche. Ma l’intreccio, com’è ovvio, è molto più ricco di inferenze e complesso. Vi è, ad esempio, un legame strettissimo fra scelte estetiche e scelte economiche. Ma anche in quest’ultimo rapporto si insinua il giudizio etico o moralistico, a seconda dei casi.

E’ un radicato atteggiamento intellettuale quello per cui l’arte, dovendo essere (come deve) pura, disinteressata, libera, non può avere commercio con il mondo degli affari, con la produttività, con l’economia. Ma anche per i sostenitori dell’arte come impegno, la contaminazione con l’economia è, per tanti motivi, ritenuta peccaminosa essendo, nella loro visione, il mondo economico dominato dalla sfera dell’interesse, del capitalismo egoistico.

Com’è evidente, in entrambi gli atteggiamenti fra premio il giudizio etico su quelli puramente estetici o utilitari.

Da questi atteggiamenti discende la generale ripulsa per l’industria culturale e, oggi con molte eccezioni, una pervicace tendenza nell’indirizzare i fondi pubblici (Ministeri, assessorati, etc) per la promozione della cultura verso forme di arte ritenute pure, non commerciali. Sembra che sia lecito finanziare solo opere destinare a non dover riscuotere successo di pubblico. Ne deriva, spesso, che siano promosse iniziative noiosissime, prive di qualsiasi valore estetico, per il solo merito di autoproclamarsi culturali e nemiche dell’organizzazione industriale della cultura.

Ora, è certamente vero che spesso il successo dell’arte non può essere affidato esclusivamente al giudizio del mercato, alle valutazioni del grande pubblico influenzato dai mass-media. Sarebbe una catastrofe. Ma non è detto che, necessariamente, ciò che ha successo, per il fatto stesso di avere avuto successo, deve ritenersi non artistico e, per sovramercato, immorale.

Ennio Morricone, il grande musicista, ha affermato in questi giorni che chi vorrà rintracciare nel nostro secolo (soprattutto, aggiungerei, nella seconda metà del secolo) la vera, grande musica, dovrà probabilmente cercarla fra le colonne sonore dei film. Mi sembra un giudizio vero, pacato, per nulla paradossale, eccentrico o provocatorio. Nello stile, del resto, del personaggio, sempre misurato, quasi schivo. La musica classica (per usare un’espressione di comodo ma a tutti chiara) dei nostri giorni è, molto probabilmente, quella alla quale si riferisce Morricone. E’ molto più raro ritrovarla nei luoghi deputati, istituzionali, ufficiali. E ciò vale, quasi sempre, anche per la cosiddetta sperimentazione o avanguardia, la quale, soprattutto negli ultimi decenni, si è completamente, definitivamente istituzionalizzata perdendo anche quella carica rivoluzionaria o eversiva che poteva giustificare la sua intrinseca debolezza estetica.

Rimanere, dunque, prigionieri degli schemi o dei pregiudizi è pericoloso, fuorviante. L’etica si accompagna all’arte come ad ogni altra sfera dell’agire umano ma non può e non deve né dominarla né ad essa sostituirsi. In tal caso diventa moralismo e il moralismo è nocivo all’etica quanto l’immoralità.

I futuri assessori alla cultura (figura che, come ho altre volte scritto, in verità, abolirei) tengano presente questa questione nella prossima legislatura, quando si tratterà di finanziare con denaro pubblico le tante iniziative intellettualistiche che verranno proposte. Come è vero che non tutto ciò che ha successo è arte, non è, per contro, vera la reciproca, ossia che tutto ciò che non ha successo è arte, è grande arte. L’etica del successo e l’etica dell’insuccesso sono due forme opposte di malattia dell’anima: la seconda ispira più simpatia ma, talvolta, diventa supponente e spocchiosa perché si tramuta nell’etica del successo dell’insuccesso.

Ernesto Paolozzi

da “Corriere economia” del 19 marzo 2001