L’eccesso di regole spinge gli imprenditori a violare le leggi.
Le recenti vicende giudiziarie indicano, sia a Milano che a Napoli, simbolicamente intese come capitali delle due Italie, una fisiologica rottura non solo fra potere giudiziario e ceto politico-amministrativo, ma anche fra amministrazione della giustizia e imprenditoria. Non è la sede, naturalmente, per entrare nel merito delle singole inchieste in atto ma è forse il caso di tentare una riflessione che superi la logica del puro scontro politico. Non ci sembra infatti che si possa ancora parlare di un vero e proprio urto ideologico fra poteri e meno che mai, come nel caso specifico, fra potere giudiziario e potere economico posto che si possa seriamente identificare un potere dell’imprenditoria economica.
La verità è che lo sviluppo dell’economia, il crescere stesso dello sviluppo capitalistico, sono di per sé insofferenti delle regole, di tutte le regole e quindi, purtroppo, anche talvolta delle regole sancite dai Codici.
Certo è difficile trovare fra gli imprenditori chi si sente in diritto di commettere reati gravi di carattere penale, ma è indubitabile che un imprenditore tipo, proprio se è un buon imprenditore, tende a sfuggire alle regole, a superare ogni ostacolo si frapponga allo svolgersi delle sue attività.
Il capitalismo al suo stesso sorgere si connota come una forza economica che necessita di una forza politica e perfino etica tendenti a frantumare le antiche consuetudini giuridiche e politiche. In fondo il cosiddetto liberismo economico è anche questo: la voglia di dare assoluta libertà all’azione economica individuale. Però nell’ambito stesso del liberismo si è poi avvertita l’esigenza di darsi delle regole, di concepire un sistema di garanzia per l’individuo stesso. In sostanza l’imprenditore che si sente ostacolato nella sua libera iniziativa dall’intervento dello Stato o dall’iniziativa di altri imprenditori a suo modo di vedere scorretti, cosa invoca se non le regole del mercato? L’esigenza della regolamentazione, dunque, nasce dal mercato stesso e non solo dalla pressione di soggetti esterni. Un buon autentico liberale sa che è necessario e prudente darsi una regola per evitare che altri la impongano.
Per fare un solo eclatante esempio: se veramente si lasciasse assoluto campo libero all’iniziativa privata, fuori da ogni contesto e senza alcun rispetto della legge, i soggetti vincitori sul mercato sarebbero senz’altro i soggetti malavitosi, mafia e camorra in testa.
Ogni buon imprenditore lo sa, ogni buon imprenditore combatte per il rispetto della legalità ed è pronto a porsi molti limiti sempre che, naturalmente, questi limiti siano poi rispettati da tutti gli altri attori della scena politica e sociale. Qual è dunque il nostro problema e qual è dunque la possibile soluzione? Si deve dare per scontato, ovviamente, che vi sia la volontà politica di rispettare le regole. Ciò detto è evidente che ciò che veramente imbriglia la libera creatività degli imprenditori e, per tanti aspetti costringe gli amministratori della giustizia ad un lavoro enorme e certe volte ingrato e forse, in qualche caso perfino non condiviso, è l’eccesso di regolamentazioni, l’enorme quantità di leggi che il potere politico ha prodotto in questi ultimi anni.
Sembra ci sia un’inarrestabile, incessante voglia di burocrazia per cui, persino quando si scrivono leggi che vorrebbero garantire un maggior tasso di libertà e autonomia si finisce col produrre oggettivamente nuovi limiti e nuove restrizioni. Un esempio per tutte: la legge sull’autonomia della scuola.
Non è un problema solo dell’oggi, ha attraversato l’intera storia moderna. Se è vero come è vero che addirittura il filosofo Cartesio poteva scrivere: ” la moltitudine delle leggi fornisce spesso una scusa al vizio, così che uno Stato è assai meglio regolato quando ne ha molto poche, ma che siano assai strettamente osservate” (rubo la citazione al professor Aristide La Rocca direttore della rivista Hyria)
Forse il problema politico di fondo oggi è questo, anziché continuare ad alimentare polemiche fra presunti poteri contrapposti che non giovano a nessuno.
Ernesto Paolozzi
Da “Corriere economia” del 29 gennaio 2001