Statuto dei lavoratori, Regioni e Referendum.
Il 14 maggio del 1970 il Parlamento approvava lo Statuto dei lavoratori, il giorno dopo il Senato votava la legge istitutiva delle Regioni e il 21 maggio veniva approvata definitivamente la legge sul Referendum.
A trent’anni di distanza è così tutto cambiato che si mettono in radicale discussione sia lo Statuto, sia le Regioni, sia l’istituto del referendum.
Lo Statuto dei lavoratori conosce tre punti di crisi: una crisi, per così dire, interna, dovuta alla gestione non sempre limpida, non sempre rispettosa dei diritti dei lavoratori da parte delle organizzazioni dei lavoratori stessi; una crisi esterna, dovuta all’attacco crescente delle forze neoliberiste che tentano, naturalmente, di approfittare della situazione generale per portare acqua al mulino di quelli che una volta si chiamavano i padroni. La terza crisi è, se così vogliamo esprimerci, di carattere epocale, ossia investe l’essenza stessa del concetto di lavoro perché, come sappiamo, la tecnologia ne muta sostanzialmente la qualità mentre l’unificazione dei mercati mondiali rende sempre meno efficaci i sistemi regolativi, quali che siano, di un solo paese.
L’istituzione Regione è in crisi non soltanto per motivi amministrativi.
E’ l’idea stessa di Regione che oggi è messa in discussione. Nel tentare infatti di rilanciarla, essa viene contaminata con la più generale idea di federalismo. Le intenzioni sono buone ma, com’è noto, di pie intenzioni è lastricata la via dell’inferno. Il federalismo, infatti, che hanno nel cuore più che nella mente gli italiani, somiglia di più al particolarismo che non al federalismo universale tipico del liberalismo. Infatti noi non si tende oggi ad unificare, federare, dei popoli diversi ma a separare popoli uniti secondo interessi particolari. C’è una sagace astuzia nelle dichiarazioni del Presidente Ciampi allorché ha stimolato quasi, Comuni e Province, a rivendicare un loro ruolo nei confronti delle Regioni.
Un grande imperatore, qualche secolo fa, per indebolire il potere dei grandi vassalli, comprese che bisognava non rafforzare lo Stato centrale ma i vassalli minori. Come dire, per indebolire l’ex Comunione e liberazione, il Governatore lombardo, Roberto Formigoni nella sua pretesa di creare un feudo regionale, bisogna mettergli contro i Sindaci di Pavia, di Lodi, di Mantova, e così via.
L’istituto referendario, fondamentale per dar voce all’opinione pubblica in una società complessa nella quale le mediazioni della politica sono oggettivamente troppo complicate per essere controllate dai cittadini, dopo averci regalato importanti conquiste civili, si è come dissolto in una sorta di babelismo referendario. Da elemento di chiarezza, il referendum è diventato elemento di confusione, da strumento di garanzia liberale si è tramutato in megafono populista, peraltro assai afono.
Non credo che tutto ciò sia casuale: non è la data, l’anno 1970 a conferire unità a questi tre avvenimenti. E’ il declino della democrazia, così come l’abbiamo vissuta e conosciuta in questi nostri anni, il vero collante.
La democrazia deperisce per eccesso di democrazia, come insegnavano i vecchi liberali democratici alla Tocqueville. E deperisce oggi, lo abbiamo detto già tante volte, perché non è possibile esercitare i diritti democratici in un solo paese quando l’economia mondiale ha l’assoluto primato anche sulle scelte politiche. Vale la pena, di concludere ogni nostro articolo un po’ come faceva Catone, che terminava ogni discorso, quale che fosse, avvertendo che era necessario distruggere Cartagine, invocando una presa di coscienza da parte di tutti affinché si pensino nuove forme di organizzazione e attività politica. Ci si passi l’irriverente paragone con Catone, giacché in comune abbiamo soltanto la preoccupazione.
Ernesto Paolozzi
Da “Corriere economia” del 3 luglio 2000