Lo storicismo assoluto e il valore della verità.
L’uomo contemporaneo, potente sovrano del progresso tecnico e scientifico, è altresì erede di un passato difficile, che ancora lacera la sua coscienza sulla quale pesa, carico di insoluti e terribili dilemmi, infiacchendone il coraggio, minandone la sicurezza. E’ l’uomo laico, orfano e parricida di un Dio la cui assenza, rendendolo libero come i potenti, lo precipita nella solitudine estrema, nella percezione disperata della profonda fragilità del suo essere, in un’angoscia esistenziale che ha lo spessore e il peso della plasticità. Egli può solo vagheggiare l’utopia di un senso, di saldi valori ai quali ancorarsi nell’effimero ed incerto cammino, quasi una deriva, della sua vita terrena. Vagheggiarli ed averne paura come di fantasmi capaci di rievocare tragiche e indicibili realtà, spettri che la coscienza morale impone di tenere lontani con forza disperata e cieca volontà. Così s’impone di fare debole il suo pensiero, di diventarne il perenne guardiano per evitare che la bestia che vi è custodita sfugga al suo controllo spargendo nel mondo tutto il disgustoso furore di cui è capace.
E’ dunque questa scelta morale, una scelta morale, che è sottesa al pensiero filosofico contemporaneo? Molti sarebbero pronti a negare questa ipotesi, radicati nell’idea che il pensiero elabori la realtà senza poter scegliere ciò che è bene per essa. Altri non la respingerebbero con altrettanta decisione, convinti del fatto che è pur sempre un’esigenza ancora non chiarita dal pensiero a stimolarne la riflessione, a dettarne il punto di vista.
Sta di fatto che il pensiero contemporaneo più avveduto delle proprie implicazioni etiche ha scelto di percorrere vie che potessero salvaguardare la libertà dell’uomo in tutte le sue manifestazioni, difendendola da tutte quelle teorie unificanti, totalizzanti, assolutizzanti, che la minacciassero: l’esperienza dei totalitarismi delle scorso secolo ha messo radicalmente in guardia da ogni pretesa totalitaria e totalizzante, fosse essa dell’azione o del pensiero. Si è privilegiata così la diversità, si è frantumato il potere, si è storicizzata la storia come la natura, si sono individualizzati i punti di vista, si sono moltiplicate le medicine, le matematiche, i mondi, si sono rese infinite le risposte possibili. E sempre si rimane vigili a che mai quanto è stato diviso, soggettivizzato, moltiplicato, possa tornare ad unirsi e rendersi compatto, definitivo, assoluto, pronto ancora a conculcare la libertà, ad opprimerla, insultarla, perseguitarla.
Ancora più avveduta è stata, da questo punto di vista, la posizione di quei filosofi che hanno schivato con ferma avversione, assieme alle lusinghe del pensiero totalizzante, ogni tentazione irrazionalistica o, che ai fini etici è lo stesso, scettica. Se, infatti, ogni filosofia assolutizzante rappresenta una minaccia per l’umanità, il rifiuto del pensiero, la sua resa totale, non annunciano pericoli meno gravi, minacce meno inquietanti. Lo scetticismo, dal quale non di rado l’irrazionalismo discende come disperata risposta, non riesce ad opporre ragioni convincenti alla cieca ideologia dell’atto gratuito.
In questo orizzonte il pensiero di Benedetto Croce operò proprio nel senso di tenere ferma la forza del pensiero pur limitandone il potere entro i ben tracciati confini della storicità e della soggettività. Avversando infatti la pretesa metafisica di un pensiero onnicomprensivo e totalizzante, come quella positivistica, e altrettanto totalitaria, di un pensiero evidente e verificabile, egli rifiutò la scappatoia dell’irrazionalismo e rivendicò, con forza e caparbietà, uno spazio suo proprio al pensiero, alla possibilità di un dialogo, alla speranza di un incontro fra gli uomini. (1)
La verità esiste, egli volle affermare, e si fa nella sua esistenza, perché opera su una realtà diveniente, di cui nessuno può conoscere il destino. Per questo motivo non è, né può essere mai, assoluta, sia l’assoluto concepito fuori le cose o dentro di esse. La verità, come la realtà che essa interpreta, diviene, e non è, dunque, qualcosa di compiuto da dover adeguare. E non solo. Verità, ossia interpretazione del reale, e realtà, interagiscono l’una sull’altra, alterano e mutano l’una l’altra, in un gioco infinito nel tempo e nello spazio. E nessun uomo, nemmeno voltandosi indietro, al passato in apparenza già concluso, o ad un oggetto, apparentemente definito nella sua forma ed essenza, può cogliere l’interezza del loro significato come fosse un dato non più capace di evolversi in infinite, impercettibili e imperscrutabili possibilità fattuali o interpretative. Solo a Dio, sembra dire Croce con Leibniz, è dato conoscere la Verità, perché ha presente tutto lo svolgimento della vita dell’umanità, nelle sue infinite potenzialità spaziali e temporali, e perché solo in Dio, grazie a ciò, verità di fatto e verità di ragione coincidono. Ma nella filosofia di Croce non c’è posto per un Dio fuori della realtà diveniente, fuori della verità diveniente. Esistono gli uomini che vivono nella verità nel senso che ne sono parte e che operano in essa e con essa, ne sono dunque anche parte in causa. Il futuro chiarisce e squarcia nuovi orizzonti all’interpretazione del passato, e questo svela nuovi aspetti, prima insospettabili, di sé (2). Aspetti che l’uomo del presente cerca, mosso da dubbi ed esigenze nuove e prima impensabili. Insomma, come in una profonda memoria di un imponente computer, il passato, il dato, l’oggetto del pensiero aspetta, attimi o millenni poco importa, di venire interpretato, conosciuto, reso vivo e parlante dalle domande che un individuo in carne, ossa, sentimenti, volizioni, necessità, sogni, paure, pone in un determinato momento della storia universale e personale. Senza un soggetto che pone domande, nulla risponde. Questo è il senso della denominazione che lo stesso Croce scelse per la sua filosofia, quella di storicismo assoluto (3). Tutto è storia, nient’altro che storia (4): la domanda, come ogni risposta, ha senso e valore soltanto storicamente, dunque mai in maniera assoluta e valida per tutti allo stesso modo. “Non basta dire, scrive infatti Croce, che la storia è il giudizio storico ma bisogna soggiungere che ogni giudizio è giudizio storico, o storia senz’altro. Se il giudizio è rapporto di soggetto e predicato, il soggetto, ossia il fatto, quale che esso sia, che si giudica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà. E’ il giudizio storico, continua il filosofo, anche la più ovvia percezione giudicante (se non giudicasse, non sarebbe neppure percezione, ma cieca e muta sensazione): per esempio, che l’oggetto che mi vedo innanzi al piede è un sasso, e che esso non volerà via da sé come un uccellino al rumore dei miei passi, onde converrà che io lo discosti col piede o col bastone; perché il sasso è veramente un processo in corso, che resiste alle forze di disgregazione o cede solo a poco a poco, e il mio giudizio si riferisce a un aspetto della sua storia.”(5).
Cosa è mai un sasso? Un minerale? Un fermacarte? Un corpo contundente? Nessuno potrà mai dirlo fino a quando non si troverà nella condizione di doverne studiare la composizione chimica, o di volerlo utilizzare per tenere fermi i suoi appunti sulla scrivania dopo aver aperto la finestra, o di doversi difendere da un aggressore. Se prendessimo per vera una sola delle definizioni di sasso qui sopra trovate, la vedremmo presto tramutarsi in falsa non appena ci occorresse un minerale e non un fermacarte, o un’ arma e non un minerale. E la verità non può tramutarsi nel suo opposto, pena il dover ammettere che non esiste la verità.
Esistono dunque più verità? E’ la concezione crociana non altro che una sapiente e moderna riproposizione dello scetticismo? Che valore avrà mai una verità se essa è legata ad un soggetto che la ricerca in un determinato momento storico, mosso da esigenze storicamente individualizzate? Non si rischia di affermare una sorta di contingentismo, di solipsistico soggettivismo? Quando mai due individui, con storie personali diverse, s’incontreranno nello stesso punto di osservazione, mossi dalle medesime esigenze, davanti ad un medesimo contenuto del pensiero? Come si salva, in una siffatta concezione, l’oggettività che pure, Croce rivendica al pensiero e alla verità? E quale valore avrebbe mai per la vita una verità così effimera, caduca, sfuggente? Col lasciare un così ampio spazio alla possibilità dialettica, non si finisce forse per precipitare ogni individuo nella più disperata solitudine, nella più profonda e buia incomunicabilità, psicologica, umana, morale? Quale possibile speranza di dialogo, di condivisione, di ragion d’essere rimarrebbe all’uomo, smarrito in un così desolato e desolante orizzonte?
Rispondere a queste domande affermando che il pensiero non può consolare le esigenze morali dell’umanità, che il suo ufficio non è consolatorio, come quello delle religioni cui è demandato proprio questo compito, non eviterà che le esigenze morali ritornino, prima o poi, ad assillare il pensiero finché le risposte non si faranno più soddisfacenti. Se il pensiero non ha ancora detto a se stesso la parola fine, è credibile che le cose andranno così, nel reciproco urto e incontro delle esigenze che muovono la storia tutta.
Ma a queste domande si può rispondere anche kantianamente, affermando che tutti gli uomini comunicano nella forma del conoscere, che è oggettiva ed universale, mentre il contenuto della verità è soggettivo e caduco (6). In questo modo è fatta salva l’esigenza di salvaguardare la libertà da concezioni totalizzanti della verità e, al tempo stesso, è possibile rassicurare l’uomo col conforto che l’oggettività, cui ambiguamente egli, pur temendone l’imperio, anela, è salva, che egli non è un atomo di una realtà lacerata ma un individuo capace di comunicare ed interagire con altri individui, con la realtà, con la storia. Ed in ciò, foscolianamente, fargli sentire meno fugace e transeunte la sua presenza (7).
Considerato alla luce degli attuali parametri del dibattito filosofico, Kant potrebbe certamente essere accolto fra i fondatori di quello che viene definito, con pessima ma efficace terminologia, pensiero debole. Ci sembra utile far ricorso a questo modo di esprimersi perché la sua eloquenza è data proprio da un certo che di irritante che, sul piano psicologico, lo connota.
Ciò non toglie che Kant, non a caso, ricorse al concetto di cosa in sé, e che un tale punto di vista rischia di condurre noi non troppo lontano dalla constatazione wittgensteiniana per cui ciò di cui non si può parlare occorre tacere. Infatti, senza per questo auspicare il ritorno a filosofie totalizzanti, avere la certezza, e il conforto, che formalmente comunichiamo, non apre porte e finestre di quel mondo di monadi nel quale ci sentivamo disperatamente precipitati.
La consuetudine con le pagine crociane ci ha abituati a non sottovalutare mai il pensiero del filosofo e a ricercare semmai nelle sue pieghe se non altro gli spunti per chiarire problemi che la contemporaneità pone in maniera sempre nuova. Torniamo dunque alle pagine nelle quali Croce afferma, forse in linguaggio un po’ obsoleto, che le categorie sono eterne e che i giudizi di esse sono storici e, dunque, mutevoli. “Né le categorie cangiano, e neppure di quel cangiamento che si chiama arricchimento, essendo esse le operatrici dei cangiamenti: perché, se il principio del cangiamento cangiasse esso stesso, il moto si arresterebbe. Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, poniamo dell’atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che non fosse quello di Socrate o di Aristotele, e non di meno questi concetti, più poveri o più ricchi, non sarebbero concetti dell’atto logico, se la categoria logicità non fosse costante e ritrovabile in essi tutti.” (8). La terminologia ricorda quasi il linguaggio della metafisica. Cosa si intende dire il filosofo? Le categorie sono predicati eterni del giudizio che, kantianamente, si applicano su realtà, individuali e individualizzate, o contenuti, mutevoli che l’uomo percepisce in maniera attiva. La sintesi conoscitiva che ne scaturisce è nuova, soggettiva, storica, libera, non predeterminabile, non mai assoluta. Croce ci dice, ancora, hegelianamente e vichianamente, che quelle stesse categorie del giudizio sono anche potenze umane del fare. Ne La storia come pensiero e come azione, si rinviene, approfondita, una concezione già espressa in Teoria e storia della storiografia, concezione secondo la quale la prassi muove il pensiero che si rifà prassi in un eterno, dialettico succedersi di questi due aspetti distinti ma non mai separati della realtà: “..se il conoscere è necessario alla praxis, altrettanto la praxis (…) è necessaria al conoscere, che senz’essa non sorgerebbe, scrive Croce”. E più avanti afferma: ” Se il tentativo di cancellare la distinzione di questi due momenti dello spirito non fosse puerilmente ingenuo, il suo effetto sarebbe di distruggere la vita dello spirito …” giacché fuori della circolarità ogni unità è “statica e morta” (9).
Croce necessitava, dopo la sua riforma della dialettica hegeliana degli opposti, di un luogo nel quale collocare il movimento dialettico, che nei distinti sembra correre il rischio di rimanere allo stato di statica e meramente logica opposizione. Se gli opposti hegeliani erano diventati distinti, cosa muoveva la realtà? Come spiegare il crescere della storia su se stessa, il divenire? “Il fine dello spirito, scrive a proposito della dialettica hegeliana, non è né l’astratto pensiero né l’astratta azione, ma il pensiero che si fa azione e l’azione che si fa pensiero, ossia lo spirito stesso che, in quanto è vita, non ha altro fine che la vita, tutta la vita, e non una parte della vita” (10)
Il luogo crociano della dialettica potrebbe divenire, così, il rapporto teoria-prassi che potremmo definire, per comodità espositiva, il rapporto passato-futuro, che dà luogo al movimento, alla storia. L’uomo costruisce il futuro. Ma di quale materiale si avvale? La risposta a questa domanda è, dal nostro punto di vista, decisiva. In realtà egli plasma e riplasma, in modo nuovo ed originale, sempre la stessa realtà, la sua stessa storia, la storia dell’umanità nella quale egli affonda le radici del proprio essere, dalla quale trae linfa per i germogli che cresceranno (11). Secondo le parole di Croce, un’esigenza della prassi muove l’uomo a riflettere su uno spaccato del passato (o del presente che, agostinianamente, non esiste) dell’umanità. Egli colloca dunque in una nuova prospettiva questo passato, lo pone dinanzi a sé e vi opera, intrecciando a quel passato la propria interpretazione e all’azione futura quel passato interpretato alla luce delle sue esigenze attuali o “prospettiche”. Indissolubilmente, egli lavora insieme futuro e passato, li rilega, elabora il nuovo. (12)
La categoria, eternamente, rielabora se stessa, si rimette in gioco, senza mutare sostanza e facendosi cosa nuova. La verità si fa prassi, si fa realtà, si intreccia ad essa, lega assieme passato e futuro, l’uomo alla sua storia, gli uomini fra loro. E l’uomo vive nella verità perché vi è immerso anima e corpo, pensiero e azione. “Poiché la verità, scrive Croce, s’intreccia con la vita dell’azione e l’azione è incessante creazione del mondo, e a ogni moto che si crea nuovo, il pensiero deve pensarlo e riportarlo all’universale, e rivolgervi sopra la luce di esso; -e ciò richiede lavoro e fatica e spesso sforzi gravi e lunghi, e nello sforzo si combatte contro il pericolo di smarrirsi e di non veder chiaro o di non veder punto, di essere sedotti e indotti a credere il contrario del vero;- le verità particolari non sono frammenti di una Verità non mai riconoscibile nel suo tutto, ma sono la vita operosa, la vita drammatica, e anche la vita tragica, della Verità stessa, che è vita nella vita; e di qui la loro importanza e la loro necessità, e non già nel vano conato contro natura di afferrare la verità come nella corsa a un palio il quale si allontana ad ogni passo che si muove; né già nella trascendenza della Verità, ma nella sua immanenza.” (13)
Storicità è in questo senso ben altro che atomistica temporalità. “…la storicità, scrive Raffaello Franchini, non ha nulla a che fare con la temporalità, di cui anzi è la condizione: il tempo storico è durata nel senso in cui Bergson genialmente parlava di durèe rèelle: esso non diviene senza essere. Il passato, questo spettro della immaginazione volgare, diventa così il significato stesso del presente, fuori del quale è inconcepibile.” (14) La verità non deve potersi ridurre ad una mera unione di predicato e oggetto rappresentabile in un grafico ad un tempo T. Quel predicato parla all’umanità parole che essa intende, anche se antiche e all’apparenza incomprensibili, e permette agli uomini di parlare fra di loro un linguaggio fatto di segni ma anche di senso perché non è mera forma, ma l’umanità stessa, e la sua verità.
Se non possiamo pensare l’Essere, non per questo noi non viviamo nell’Essere. Anzi, siamo noi stessi l’Essere e quindi il senso di noi stessi e di tutto il resto. Il diverso, che genialmente Platone pensò come unica qualifica possibile del non essere e, per ciò stesso il creatore dell’ Essere, il diverso rimane sempre tale come idea, sebbene viva come diversità, ossia come perenne, costante diversità, pluralità, differenza o come altro si voglia dire. Ciò significa che l’universale vive nel particolare e del particolare, che non esiste da un lato l’universale e dall’altro il particolare. Il che non è soltanto una sottile disquisizione di pura logica o, come a qualche profano potrebbe sembrare, una delle tante bizzarrie della filosofia. Si tratta invece di una profonda acquisizione che ha, come tutte le acquisizioni del pensiero, un risvolto immediatamente pratico, un’influenza diretta sull’azione, sul comportamento di ognuno di noi. E infatti Croce, concludendo la conversazione con gli allievi dell’Istituto da lui fondato, la già citata conversazione sulla verità, così affermava: ” Se c’è una conseguenza pratica da trarre dalle cose che oggi vi sono venuto dicendo e che insieme abbiamo meditate, voi già le siete venuti traendo da voi stessi. Non andare in cerca della verità, né del bene né del bello, né della gioia, in qualcosa che sia lontano da voi, distaccato e inconseguibile, e in effetto inesistente, ma unicamente in quel che voi fate e farete, nel vostro lavoro, nel cui fondo c’è l’Universale, di cui l’uomo vive; è, per chiudere con un motto bizzarro ma profondo, che soleva ripetere un dotto tedesco (o, se si vuole, ebreo-tedesco), altamente benemerito degli studii, il Warburg, tenere sempre presente che Gott ist in Detail, che Dio è nel particolare. (15)
Ernesto Paolozzi
Note
1) Si confronti, B.Croce, Contributo alla critica di me stesso, Milano, Adelphi, 1989; Mario Corsi, Le origini del pensiero di Benedetto Croce, Napoli, Giannini, 1974; Ernesto Paolozzi, Benedetto Croce. Logica del reale e il dovere della libertà, Napoli, Cassitto, 1998. Per quanto riguarda la critica alla concezione riduzionista e positivista, si segnala, fra gli altri, G. Gembillo, Neostoricismo complesso, che offre un’attenta ed acuta indagine dei risultati della riflessione sul metodo scientifico che, abbandonato il riduzionismo, è approdato a concezioni vicine allo storicismo crociano.
2) Si confronti, B. Croce, Teoria e storia della storiografia, ; La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1973 (1938); Raffaello Franchini, Teoria della previsione, Messina, Armando Siciliano editore, 2001
3) B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, Bari, Laterza, 1963 (1941). Il saggio specifico s’intitola Il concetto della filosofia come storicismo assoluto.
4) D. Roberts, Nothing but History, Berkeley,Los Angeles, University of California Press, 1995
5) B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit, p. 23
6) Ci si riferisce, naturalmente, al concetto di trascendentale inteso come condizione dell’esperienza.
7) Il riferimento è, naturalmente, a I sepolcri, dove memoria storica e poesia rendono eterni gli avvenimenti transeunti è, anche, evidente la reminiscenza vichiana di Foscolo.
8) B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit, pp. 28-29
9) Ibidem, p. 31
10) B. Croce, Saggio sullo Hegel, Bari, Laterza, 1967 (1908), p.159. Si confronti inoltre, a questo proposito, Raffaello Franchini, La doppia scoperta dell’utile, in Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini, 1971 (IV) e A. Parente, Croce per lumi sparsi, Firenze, La nuova Italia, 1975. I due autori considerano il problema della dialettica alla luce delle ultime pagine che Croce dedicò all’argomento. Il nostro punto di vista è teso a considerare il problema della dialettica dal punto di vista della verità, a legare insieme le due tematiche.
11) Non è un caso che il terribile dittatore del romanzo di G.Orwell, 1984, per imporre la propria tirannia sul suo popolo, gli sottragga proprio il passato, obbligandolo a vivere nelle carceri di in un ottuso e morto presente dal quale è impossibile fuggire.
12) La teoria della contemporaneità della storia conduce Croce ad accettare le estreme conseguenze del suo ragionamento. Nel saggio La natura come storia senza storia da noi scritta, conseguentemente con le premesse logiche da lui poste, il filosofo nega la possibilità di scrivere una storia della natura da parte degli uomini giacché essi non entrano a far parte della progettualità della natura. “L’uomo, scrive, non ricostruisce, non pensa e non scrive la storia degli esseri naturali, perché i loro bisogni di azione non sono i suoi…” Forse questa posizione rischia di aprire una serie di dualismi, fra i quali quello fra il giudizio storico e la storiografia. Ma tale questione meriterebbe un approfondimento che non si può affrontare in questa sede.
13) B. Croce, L’uomo vive nella verità, in Dieci conversazioni, Bologna, Il Mulino, 1993, pp.8-9
14) R. Franchini, Pensieri sul “Mondo”, Napoli, Luciano editore, 2000 (a cura di R. Viti Cavaliere, C. Gily Reda, R. Melillo), p.25. Nel Saggio sullo Hegel, Croce scrive: “Il vero divenire ideale non è qualcosa di indifferente o di divergente rispetto al divenire reale, ma è l’intelligenza del divenire reale, al modo stesso che l’universale non è divergente o indifferente rispetto al particolare, ma è l’intelligenza del particolare: talché universale e particolare, divenire ideale e divenire reale, sono il medesimo. Fuori del divenire ideale non rimane già quello reale , ma soltanto il temporale, cioè il tempo aritmetico, che è una costruzione dell’intelletto astratto; come fuori dell’universale non rimane l’individuo reale, ma l’individuo empirico, isolato, atomizzato o monadizzato. L’eternità e il tempo reale coincidono, perché in ogni attimo è l’eterno e l’eterno è un attimo.” (Saggio Sullo Hegel, cit, pp148-149)
15) B. Croce, Dieci conversazioni, cit, p.15.