Ciampi e il nuovo ordinamento giudiziario.

Una riflessione sui motivi della bocciatura della legge sull’ordinamento giudiziario.

La bocciatura della legge sull’ordinamento giudiziario da parte del Presidente della Repubblica suggerisce alcune brevi considerazioni.

In primis, è evidente che, dietro al rilievo del Presidente sulla forma redazionale della legge, che ammassa quasi cinquanta commi dentro un solo articolo (ma la legge finanziaria fa molto peggio) si possa cogliere anche una dato meno immediato, più “filosofico”. Un dato che riguarda il rapporto tra norma e conoscenza, tra chierici e laici, oltreché, ovviamente, un problema di conformità all’art.72 della Cost. (ogni legge deve essere approvata articolo per articolo oltre che a livello complessivo).

Sembra che la politica abdichi al suo primo compito: quello di affrontare i problemi, metabolizzarli e renderli “utilizzabili” da parte del cittadino. E’ un aspetto della democrazia dei tempi nostri che scivola sempre più verso consensi plebiscitari, emotivi. Chi insiste su un atteggiamento illuministico rispetto alla realtà è un relitto del passato. Il giudice, in primis, che attraverso l’uso razionale degli strumenti tecnici e della conoscenza, dovrebbe essere illuminista per definizione.

La redazione di 49 commi all’interno di un articolo risponde all’esigenza di contingentamento dei tempi della discussione. Ma, al di là della fretta di chi lascia intendere di non avere molto più tempo davanti a sé, i 49 paragrafi in un solo articolo testimoniano icasticamente della difficoltà dei nostri giorni di coniugare il tempo e la vita.

Tutto deve essere consumato velocemente. Anche la giustizia deve avere tempi veloci.

Vi è un tempo insopportabile per l’emissione della sentenza. I tre gradi di giudizio devono essere fulminei (tranne che per alcuni inquisiti). Il bello è che tale concetto è passato nella testa di tutti, anche dei più illustri commentatori di giornali che non dovrebbero essere pregiudizialmente ostili ai giudici ( come Repubblica, Il Corriere, Il Sole).

I magistrati non riescono a far capire (e qui si annida, probabilmente, anche una responsabilità dell’attuale gruppo dirigente dell’A.N.M.) che il processo, civile o penale che sia, non è un evento fisiologico ma patologico e non può essere deglutito come un pasto al ristorante.

Si consolida, al contrario, una visione astratta della giustizia che, a ben vedere, altro non è che il riflesso della vita come immaginata ed imposta dalla televisione e dalla pubblicità che la comanda.

Anche i talk show più intelligenti sono ormai inguardabili perché rispondono al criterio dell’amico-nemico, del combattimento con i tempi contingentati e scanditi dalle interruzioni pubblicitarie.

Ciampi, invece, ci dice che i valori della Costituzione sono una cosa seria (e, proprio perché valori, non sono neutrali) e che l’autonomia della magistratura è un valore costituzionale.

Questo ovviamente non significa negare i pur evidenti problemi di malfunzionamento che attanagliano la giustizia. Non è però con una legge ordinaria così contrastata, dal netto sapore punitivo, che si può pensare di mettere efficacemente mano a tali problemi. Specialmente se non è possibile indirizzare verso tale comparto nessuna risorsa aggiuntiva.

L’Italia e le nuove frontiere della giustizia in un mondo globalizzato

Nel nostro paese la classe politica, nel suo complesso, non ha ancora metabolizzato la stagione di Mani Pulite. Il problema, al di là delle pur fondate questioni agitate in tema di ragionevole durata dei processi, è, per le classi dirigenti del paese, quello di costruire controlli di legalità che non siano troppo invasivi sui c.d. “piani alti”, in coerenza con una filosofia neoliberista, che pensa ad un mercato quanto più spogliato da controlli e rigidità. Illuminante in tal senso è la riforma del diritto societario che può essere sinteticamente così definita “la società è di chi ne detiene il controllo e gli altri non s’immischino”. In particolare, non si immischi il P.M. come si evince dall’abolizione quasi integrale dell’istituto di cui all’art.2409 c.c. che consentiva a quest’organo il controllo sugli amministratori in caso d’irregolarità di gestione.

Al contrario di quanto precede, la pressione repressiva deve invece esercitarsi sui ceti marginali (microcriminalità, immigrati, ecc.) al duplice fine di rassicurare, con un uso simbolico del diritto penale, una società fragile ed impaurita e di sedare quel rumore di fondo prodotto da contraddizioni sociali sempre più violente discendenti dall’espandersi delle filosofie e delle politiche neoliberiste e neoconservatrici.

Salvo poi introdurre contraddizioni clamorose con leggi ad personam (come nel caso della legge sulle attenuanti generiche e sulla prescrizione abbreviata che avranno ricadute opposte) oppure rimanere, al di là di operazioni di facciata, sostanzialmente inerti di fronte alla perdita del controllo del territorio per opera della criminalità organizzata, come i ripetuti e mai interrotti omicidi di Secondigliano insegnano.

Altrove, in Europa, dove le classi dirigenti hanno ben altra legittimazione politica e culturale che non il solo familismo delle raccomandazioni e del potere dei partiti, si guarda alle questioni della giustizia con più oggettività.

Non pare azzardato affermare che, altrove, si sia più avvertiti del fatto che l’integrazione europea e la stessa globalizzazione, mettendo in crisi l’idea di un diritto chiuso all’interno di un singolo stato, implichino necessariamente un giudice di tipo diverso dal modello grettamente burocratico a cui oggi si vorrebbe tornare con carriere, concorsi e quant’altro. E’ illuminante, in tal senso, la vera e propria fuga che si sta preparando da parte di molti magistrati del primo grado verso le giurisdizioni “superiori”, quando, invece, è proprio il giudice di prima istanza la frontiera che andrebbe rafforzata anche in termini qualitativi.

Le moderne società della solitudine e della tecnica, dell’assenza di grandi mediazioni sociali, chiedono un giudice diverso, più colto, più consapevole del proprio ruolo e delle difficoltà crescenti indotte dalle trasformazioni sociali in atto.

Trasformazioni che hanno aperto vistose contraddizioni sul fronte dei diritti e delle stesse democrazie.

I giudici italiani si rendono conto che, al di là delle contingenze politiche tutte nostrane, il loro ruolo è destinato ad ingigantirsi anche attraverso l’interpretazione e la rielaborazione delle nuove leggi, sempre meno capaci, per ragioni tutte politiche, di regolare in maniera adeguata la realtà contraddittoria dei rapporti sociali.

Con buona pace del senatore di AN Bobbio, estensore dell’emendamento sul divieto d’interpretazione, se ciò fosse mai possibile precipiteremmo rapidamente in uno stato d’incontrollabile anarchia per l’impossibilità di regolare interi settori della vita dei cittadini.

Ernesto Paolozzi