Pagare meno lavorare di più. Un gigantesco passo indietro.
E’ buona norma, per cercare di comprendere l’andamento del futuro, leggere con attenzione le pagine interne dei quotidiani, qualche volta quelle brevi notizie di agenzia che le redazioni, come si dice in gergo, cucinano per il lettore. La prima pagina fotografa l’accaduto e si offre, per ferrea legge di mercato, all’attualità del conformismo.
In questi giorni, nelle pagine de “Il sole 24 ore” si legge la notizia che la Siemens ha chiuso un accordo con il sindacato IgMetall per cui l’orario di lavoro sale da trentacinque a quaranta ore settimanali. Non solo, ma i lavoratori rinunciano alla tredicesima e all’indennità per le vacanze. Ciò accade perché la grande fabbrica tedesca aveva deciso di dislocarsi in Ungheria per ridurre i costi. Così il sindacato ha ritenuto male minore salvare, come afferma, quattromila posti di lavoro in Germania.
Solo poco tempo fa, in Italia, abbiamo assistito ad una battaglia combattuta con esito inverso nella nostra Melfi nel Sud d’Italia, nella quale la Fiat ha ceduto all’aspra lotta sindacale per garantire ai lavoratori una migliore condizione di lavoro ed un salario più dignitoso. Bisogna dire che anche questo caso era sfuggito alle prime pagine se non quando la lotta si era fatta veramente dura. L’opinione pubblica, fino ad allora, non aveva ben compreso i termini della questione e, alla maggior parte dei lettori e degli elettori, non era chiaro che in quella fabbrica del Sud le condizioni dei lavoratori fossero assai peggiori di quelle dei colleghi del Nord. Era avvenuta, insomma, una sorta di dislocazione all’ungherese all’interno del nostro stesso territorio nazionale.
Ora, se la tendenza dovesse essere quella della Germania, la battaglia di Melfi sarebbe una battaglia di retroguardia, destinata, sui tempi medi, alla sconfitta dei sindacati e dei lavoratori. Sarebbe stato un ultimo colpo di coda del movimento dei lavoratori giustificato, come dicono gli esperti, dalla particolare contingenza in cui si trovava la Fiat, grande fabbrica in crisi ma in cerca di nuova credibilità e, soprattutto non in grado di sostituire facilmente le mansioni della fabbrica di Melfi che, da sola, è in grado di bloccare l’intera produzione dell’azienda.
Ora, senza doversi richiamare necessariamente alla cultura più radicale e che una volta si sarebbe definita forse operaista, è però doveroso, da parte di chi si sente a tutti gli effetti democratico, riflettere con molta attenzione su ciò che sta accadendo. A mio modo di vedere, accettare il principio della concorrenza fra mercati, sistemi di produzione e modelli giuridico-politici, alla maniera ipotizzata da alcuni settori dell’imprenditoria tedesca, rappresenterebbe per noi occidentali un’immensa tragedia. Mentre si cerca di competere con gli emergenti modelli cinesi o anche indiani sul terreno della innovazione tecnologica, e quindi della ricerca, tornare a competere ai livelli bassi, ossia sullo “sfruttamento” della manodopera, costituirebbe per noi un gigantesco passo indietro. Tanto varrebbe, ad esempio, portare questo tipo di competizione anche sul terreno che possiamo definire genericamente ambientale e consentire anche noi, come accade purtroppo in quei lontani paesi, alle fabbriche di inquinare e distruggere il territorio pur di poter abbassare i costi di produzione. E così, anche le battaglie condotte nei petrochimici per la tutela della salute diventerebbero battaglie di retroguardia.
Non solo. Ma bisognerà pur ammettere che i nostri lavoratori, tranne casi rari ed eccezionali, non sono più i lavoratori di cinquant’anni fa che, pur di lavorare, sarebbero disposti a qualunque cosa. E’ molto probabile che, come già accade nell’agricoltura perfino nel più profondo Sud, alla lunga, anziché salvaguardare i posti di lavoro dei nostri operai, finiremmo col dover assumere lavoratori extracomunitari o dell’Est europeo, gli unici ancora disposti a sottoporsi ai disagi e alle sofferenze, di un certo tipo di lavoro. Sarebbe una sorta di dislocazione all’inverso, con le grandi aziende che rimangono nelle patrie originarie con lavoratori stranieri. Cosa, peraltro, che già sta accadendo, e non da ora.
Su cosa, allora, ha il dovere di riflettere la sinistra, da quella antagonista a quella liberale? A mio modo di vedere è necessario ripensare un nuovo modello di intervento dello Stato, o degli Stati, nell’economia. Non si può chiamare questo “nostalgia dello statalismo” cosa che una certa destra, ma anche una certa sinistra, approdata con molto ritardo sulle rive del liberalismo, rimprovera ai nuovi economisti che prospettano l’abbandono della tendenza liberista dell’ultimo ventennio.
Mi pare che, oltre che discutere su Ulivi ristretti o allargati, su federazioni o confederazioni, sia necessario che le forze culturali e politiche che si muovono entro questo orizzonte si interroghino innanzitutto su questo. Regolare il mercato, senza opprimerlo naturalmente, significa (e lo si comprende bene nel nostro Sud) spingere ad una concorrenza verso l’alto anziché al ribasso, per tutelare i lavoratori ma, con la tutela dei loro diritti, salvaguardare anche la complessiva civiltà e prosperità delle autentiche civiltà liberaldemocratiche.
E’ proprio il Sud d’Italia a rischiare più di altre regioni d’Europa un ritorno al passato. E’ in queste terre, infatti, che vive una cultura della precarietà e dell’incertezza, spesso confuse con spirito di libertà e tolleranza. In realtà già da tempo alcuni settori dell’economia italiana localizzata al Nord spera che il Sud possa restare un mercato per i loro prodotti e, al tempo stesso, fornire una manodopera a basso costo. Il tutto rivestito dalla foglia di fico della lotta a favore dell’occupazione. Ma noi ci auguriamo che prevalga la cultura dei diritti e della dignità, che sono, questi sì, principii costitutivi della libertà e della tolleranza.
Ernesto Paolozzi
Da “La Repubblica” del 30 giugno 2004