Sulla pubblicità di libri durante telegiornali e programmi televisivi.
Giustamente, il critico televisivo del Corriere della sera, Aldo Grasso, ha in questi giorni criticato l’uso, sempre più diffuso, di presentare libri durante i telegiornali o le rassegne stampa serali.
A pensarci bene, si tratta di una grave violazione dei più elementari diritti della civiltà culturale e liberale di un paese. Vediamo perché.
Tutti noi ci scandalizzeremmo se, ascoltando un telegiornale, all’improvviso, parlando della mancanza d’acqua in una certa regione, il conduttore del telegiornale magnificasse una marca d’acqua minerale. Sarebbe una violazione palese d’ogni regola della concorrenza, e insorgerebbero tutte le autorità e i movimenti nati in difesa del libero mercato e dei consumatori.
Ora, non si vede perché in un mondo in cui è palese che la cultura sia diventata in larga misura industria culturale, si debbano propagandare libri che con la cultura hanno a che vedere né più né meno di una marca di dentifrici o di detersivi. Se noi mettessimo in un tubetto di plastica con su scritto “dentifricio” una qualsiasi crema, saremmo accusati di frode e gravemente perseguiti.
Ora, chi ci dice che in un volume, soltanto perché edito e scritto su carta con caratteri di vario tipo, vi debba essere cultura?
Nella maggior parte dei casi, come ogni studioso serio sa, si tratta di frodi. Solo un’antica ipocrisia, mista ad una moderna furbizia, può far credere che un libro, quale che sia, sia un prodotto della cultura.
Stabilito che non vi è nessuno che può giudicare se sulla legalità, la moralità, il buon gusto, la civiltà politica, l’arte, l’utilità scientifica, la verità ontologica, vi sia qualcuno in grado di dire una parola definitiva, sarebbe equo e giusto che tutti coloro i quali lo vogliano, possano contare su una così forte pubblicità, come quella delle trasmissioni televisive, per propagandare le proprie idee.
Vi sono molti studiosi di filosofia politica, in Italia, che in questi anni hanno scritto pagine sensate, originali, spregiudicate, importanti, che sarebbe assai utile entrassero nel dibattito pubblico nazionale, e sono invece, generalmente, relegati nell’ambito della stretta cerchia dei lettori specialisti perché pubblicati da piccole case editrici. Vi sono invece quattro o cinque politologi che da un ventennio scrivono grosso modo la stessa cosa, spesso e volentieri banale, del tipo: “è meglio che una democrazia funzioni” oppure “è preferibile uno Stato di diritto ad uno Stato totalitario”, i quali vendono migliaia di copie essenzialmente perché pubblicizzate in televisione.
E’ questa una turbativa del mercato, perché favorisce alcuni gruppi editoriali rispetto ad altri. In secondo luogo, ed è la cosa più grave, è una turbativa del mondo delle idee, perché si costringono migliaia di lettori potenzialmente intelligenti ad occuparsi di banalità ed ovvietà, mentre potrebbero esercitare il loro ingegno in modo diverso e più proficuo.
Si deve anche a questo, credo, il palese arretramento del dibattito culturale e politico-culturale nel nostro paese, la cui responsabilità non si può far risalire sempre e soltanto agli uomini politici.
Semmai a questi ultimi si può imputare una sorta di complesso reverenziale nei confronti della cosiddetta cultura e una pervicace pigrizia nell’occuparsi di questi temi. Gli uomini politici (e mi appello soprattutto a Ciampi, uomo d’autentica cultura) dovrebbero chiedere ai giornalisti televisivi il rispetto delle più elementari e tanti invocate regole della trasparenza e della concorrenza. Se si presenta il libro di Tizio o di Caio in un talk show o, peggio ancora, durante un telegiornale delle reti pubbliche, che compaia almeno la scritta: “Messaggio pubblicitario”!
Ernesto Paolozzi
Da “Corriere economia” del 18 giugno 2001