Il 26 gennaio 1910 Benedetto Croce venne nominato Senatore. Cento anni fa. Eppure, se si rileggono gli interventi, l’operato del filosofo appare quasi come una vigile attenzione sui grandi temi della politica del Novecento. Non solo ma, come vedremo, alcuni di essi sono ancora oggi attuali, vorrei dire di palpitante attualità.

Gli interventi sono pochi, sia per la discrezione e sobrietà di Croce che non interpretò mai il ruolo di senatore come quello di un tribuno del popolo ma, soprattutto, perché, negli anni del fascismo, a partire dagli anni 30, avendo il regime conculcato le libertà fondamentali del Parlamento, la partecipazione alla vita parlamentare sembrava quasi inutile se non compromissoria. I pochi discorsi, infatti, rappresentano momenti alti di opposizione, come quello, celeberrimo, contro il Concordato.

Ma facciamo un passo indietro. Sarebbe oggi interessante rileggere, per ministri, professori e studenti, l’intervento del 6 luglio 1920, l’anno in cui Croce fu Ministro della Pubblica Istruzione del governo Giolitti, poco prima dell’avvento del fascismo. Il filosofo annuncia la presentazione delle norme per l’attuazione dell’esame di Stato: “Tornando, dichiara, all’esame di Stato e alle sue presumibili conseguenze, la ragione per la quale noi lo proponiamo, è unicamente quella del rinvigorimento della scuola di Stato, di cui finora è stata curata piuttosto la quantità che la qualità, e noi vogliamo ora pensare alla sua qualità e non alla sua quantità.” Nel prosieguo dell’intervento, il filosofo cerca con sagacia politica di difendere il provvedimento sia nei confronti delle estreme, a sinistra, che delle possibili rimostranze delle forze politiche legate alla Chiesa cattolica.

Certo è che la riforma della scuola che Croce aveva in mente fu bocciata dal Parlamento. Fu poi ripresa e, se mi è consentito dirlo, peggiorata da Gentile nel periodo fascista. Ma rappresentava, nei suoi cardini fondamentali, un momento di grande innovazione per l’istruzione, pubblica e privata, del nostro paese ridotta, in quegli anni, ai minimi termini. Ed oggi, a mente serena, avendo acquisito prospettiva storica, sono sempre più coloro che riconoscono che quello fu l’intervento più importante nella ormai lunga storia della scuola italiana.

Ma ancor più istruttivo, per molti aspetti, è un intervento minore, tenuto il 22 novembre 1920, nel quale il filosofo, tra i tanti argomenti in discussione durante il dibattito parlamentare, risponde con bonaria ironia a Matteotti che auspicava, e quasi minacciava, una rivolta dei padri di famiglia contro la miserevole condizione della scuola elementare.

“Voglia il cielo!, risponde Croce, onorevole Matteotti, che giunga quel giorno! Che si accenda quel benefico moto di bramosia e di urgente e violenta richiesta! Quel giorno, la scuola elementare italiana sarà di un tratto risanata: perché ciò che ad essa manca o difetta, è appunto la vigilanza e la cooperazione dei cittadini. Quel giorno si vedrà che, coi soli mezzi che finora lo Stato mette a disposizione della scuola elementare, si potrà compiere gran parte del lavoro necessario (…). Ma forse non sono stato esatto, aggiunge, nel dire che l’onorevole Matteotti minaccia o annuncia quella salutare levata dei padri di famiglia: l’onorevole Matteotti non ha neppur lui speranza che ciò accada, e domanda a me, se ho bene inteso, di ‘suggerire’ ai genitori degli alunni quei procedimenti di costrizione e violenza.”

Croce continua col difendere o, quanto meno, col giustificare l’esiguo impegno economico del governo con le ristrettezze economiche nelle quali il paese si trovava in quel drammatico primo dopoguerra. Espone poi i provvedimenti presi e da prendere e afferma: “Il fine principale di questo disegno di legge è di diminuire il numero massimo di alunni per ciascun insegnante, determinando peraltro nel tempo stesso anche il numero minimo necessario per l’apertura e per il mantenimento di una scuola di ruolo.”

Oggi, a distanza di cento anni, sebbene le famiglie italiane abbiano certo maggiore consapevolezza di un tempo del ruolo dell’istruzione, non si può certo dire che siano, per così dire, vicine alla scuola italiana. Non c’è, forse, docente che non possa testimoniare quanto valga per una famiglia media italiana l’investimento nell’istruzione dei figli rispetto a quello alla dimensione ludica e consumista della loro formazione.

Abbiamo messo in rilievo questi aspetti dell’attività del Croce senatore perché meno noti ma, per molti aspetti, interessanti. Come tutti gli altri che dimostrano (come Giolitti, quasi con stupore, aveva constatato) la concretezza del Croce amministratore, scrupoloso e meticoloso, così lontano dallo stereotipo del filosofo avulso dalle minute vicende della vita quotidiana.

Il periodo della dittatura rese, come è noto, rari gli interventi del filosofo.
Appartiene ormai alla nostra storia il discorso del 24 maggio 1929 in opposizione ai disegni di legge riguardanti l’esecuzione del Trattato e del Concordato fra la Santa Sede e l’Italia. Croce precisa come egli non sia pregiudizialmente contrario ad ogni forma di conciliazione fra lo Stato Italiano e la Chiesa ma sostiene di non poter consentire all’attuazione di un accordo che restringe, di fatto, le libertà dell’uno e dell’altra. In conclusione, accenna ad una regola generale di comportamento etico-politico che riprenderà, qualche anno più tardi, nella Storia d’Europa. Si oppone all’idea che quel concordato sia frutto di fine arte politica da

“giudicare, non secondo ingenue idealità etiche, ma come politica, giusta l’altro trito detto che Parigi val bene una messa. Né io nego, continua, la mia ammirazione all’arte politica, né ignoro che quel trito detto si suole attribuir leggendariamente a un grand’uomo, a un eroe della storia di Francia, del quale si credette così di interpretare il riposto pensiero, quantunque forse gli si fece torto, perché sta di fatto che egli non pronunziò mai quelle parole. Come che sia, accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza.”

L’11 marzo del ’47, intervenendo all’Assemblea Costituente, Croce tornò sull’argomento chiarendo fino in fondo la sua posizione: “Parlai io solo in Senato, nel 1929, contro i Patti Lateranensi; ma anche allora dichiarai nettamente che non combattevo l’idea delle conciliazioni tra Stato e Chiesa, desiderata e più volte tentata dai nostri uomini di Stato liberale, perché la mia ripugnanza e opposizione si riferiva a quel caso particolare di conciliazione effettuato non con un’Italia libera, ma con un’Italia serva e per mezzo dell’uomo che l’aveva asservita, e che, fuori di ogni spirito di religione come di pace, compieva quell’atto per trarne nuovo prestigio e rafforzare la sua tirannia” L’intervento fu ampiamente e calorosamente applaudito dai componenti dell’Assemblea.

Gli interventi si concludono, come è noto, col nobile discorso del 24 luglio 1947 all’Assemblea Costituente col quale Croce si oppose all’approvazione del trattato di pace di Parigi tra le potenze alleate e l’Italia. Il filosofo giudicò iniquo, per tanti motivi, quel trattato e, pur essendo consapevole del fatto che politicamente il governo avrebbe dovuto accogliere gran parte di ciò che quel trattato dettava, ritenne un obbligo morale e, se si vuole, di alta politica, da parte del Parlamento opporsi ad un documento che rischiava di rinfocolare, anziché assopire, gli odi e i rancori nati dalla guerra mondiale. Il suo non può essere giudicato un intervento nazionalistico ma patriottico nel senso meno retorico del termine. Afferma infatti:

“Noi italiani abbiano perduto una guerra, e l’abbiamo perduta ‘tutti’, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte” E, più avanti, mostra come il rifiuto del trattato non si debba in alcun modo interpretare come un rifiuto da parte dell’Italia del nuovo assetto politico che l’Europa e il mondo dovevano intraprendere: “…possiamo confidare che molti comprenderanno la necessità del nostro rifiuto dell’approvazione e l’interpreteranno per quello che esso è: non una ostilità contro il riassetto pacifico dell’Europa, ma, per contrario un ammonimento e un contributo a cercare questo assetto nei modi in cui soltanto può ottenersi; non un manifestazione di rancore e di odio, ma una volontà di liberare noi stessi dal tormento del rancore e dalle tentazioni dell’odio”.

Consapevoli, come noi siamo con Croce, che la politica è forza e realismo ma che l’orizzonte nel quale essa deve muoversi è sempre l’orizzonte etico che ha per fine la libertà, possiamo forse accogliere queste ultime parole del filosofo all’Assemblea Costituente come un pressante e accorato invito ad impegnarci nella pacificazione della vita politica italiana che, negli ultimi tempi, ha mostrato segni di imbarbarimento che, per ora sono solo segni ma che potrebbero rivelarsi, un giorno, come una terribile e concreta sciagura.

(da “Libro Aperto”)