Ricerca seria e feste di piazza

Ha ancora  senso finanziare con denaro pubblico gli assessorati alla cultura? Non sarebbe meglio ripensare a fondo la loro funzione o, come pure qualcuno ha sostenuto, addirittura abolirli? L’ amara vicenda della crisi dell’ Istituto italiano per gli studi filosofici e la generale decadenza economica degli istituti di ricerca, università comprese, ci deve spingere a porre la questione del finanziamento statale delle attività culturali al centro di un franco e spregiudicato dibattito. Se la revisione della spesa pubblica, infatti, non deve coincidere con una pura e semplice politica di tagli indiscriminati, ma si deve accompagnare ad un originale ripensamento dell’ intera materia, diventa urgente affrontare il grave problema dello sperpero di denaro pubblico, di cui sono in qualche modo responsabili gli assessorati alla cultura, regionali, provinciali e comunali.

La stampa ha ricordato la figura e l’ opera di Renato Nicolini, recentemente scomparso, inventore del cosiddetto effimero, ossia dei primi, massicci, interventi dei Comuni nell’ organizzazione di eventi culturali di ogni tipo, soprattutto di quelli dalla chiara cifra spettacolaristica. Si privilegiava, in quella visione, l’ importanza dell’ evento rispetto alla dimensione strutturale con l’ intento, fra l’ altro, di avvicinare alla cultura vasti strati della popolazione, soprattutto giovanile. Da allora sono passati quarant’ anni e, come si giudichi quella lontana esperienza, è indubitabile che, con il passare del tempo, essa si sia esaurita e, in molti casi, snaturata e profondamente degradata. Se oggi un problema c’ è non è rappresentato dalla questione delle masse da avvicinare, sia pure attraverso l’ effimero, alla cultura. Semmai è rappresentato da quello, opposto, di riguadagnare la qualità, di poter offrire alle masse una proposta culturale dignitosa e valida.

I critici più aspri parlano, ormai, di assessorati alle feste di piazza, alle sagre del tartufo e delle alici o di gestioni clientelari pronte a finanziare teatri, associazioni e cooperative di amici e parenti, di clienti, elettori e così via.

Al di là di queste considerazioni, in gran parte vere, per le quali non si comprende bene se gli assessorati alla cultura non siano, in sostanza, degli assessorati mascherati al turismo, ad un turismo, per la verità, generalmente di bassa lega, mi sembra utile offrire una riflessione più ampia, che riguarda l’ essenza stessa dell’ intervento degli enti locali in un mondo così sensibile e delicato come è quello della cultura. Mi è sempre sembrato che, alla lunga e sia pure con tutte le buone intenzioni, la funzione degli assessorati alla cultura sia intrinsecamente illiberale. Se il libero mercato economico, come sanno i veri liberali e non gli avversari pregiudiziali, che ne disegnano una caricatura, è tale se regolato, quello che potremmo definire metaforicamente il mercato delle idee ha bisogno di assoluta libertà. Anche dall’ estrema sinistra si dovrebbe avere in gran sospetto l’ intervento degli enti locali, giacché è evidente che il cosiddetto pensiero divergente, se autenticamente divergente, non può che essere considerato eversivo, pericoloso, dal potere costituito. Sta di fatto che, più crescono i sussidi e gli interventi, meno spazio si crea per le iniziative più originali e creative, più si mortificano gli artisti, i poeti, i filosofi e gli uomini di cultura che non trovano posto nei circuiti ufficiali o li si costringe a piegarsi alle regole del gioco.

Non è possibile, in poche righe, elencare i tanti guasti prodotti in questi anni dall’ invadenza dell’ intervento pubblico nell’ ambito culturale.

Certo è che, in molti casi, tali assessorati ricordano dei piccoli e sprovveduti minculpop. Dal Trentino alla Sicilia, non c’ è giunta comunale che non abbia il suo assessorato alla cultura guidato da un personale politico sempre più scadente, approssimativo, ignorante nel senso etimologico della parola. E allora, come si potrebbe rimediare a ciò che sembra essere assieme uno sperpero di risorse ed un oggettivo degrado della cultura di massa del nostro paese? Proporrei di destinare tali risorse alla formazione e, vorrei dire, alla protezione dei giovani. Insieme alle università, al Cnr e ad altri centri di ricerca, si potrebbero finanziare borse di studio ai tanti giovani ricercatori che in Italia sembrano destinati irrimediabilmente alla disoccupazione o all’ emigrazione. Borse di studio di media durata capaci di mettere in condizione uno studioso di filosofia come di fisica, di letteratura come di matematica, di condurre ricerche serie, la cui ricaduta sulla collettività sarebbe di gran lunga superiore alle tante feste di piazza che inondano i nostri paesi.

Una proposta, tutto sommato, di buon senso, che metterebbe in movimento risorse economiche ed umane e regalerebbe al paese una speranza concreta per il futuro.

Non si sottovaluti, in fine, la possibilità che i tanti privati e le tante associazioni che si nutrono pigramente delle sovvenzioni pubbliche, sarebbero spronate a migliorare la qualità della loro offerta, ad aguzzare l’ ingegno, come si sarebbe detto una volta, a mettersi al passo, insomma, della modernità nel senso migliore del termine. Sarebbe un segnale forte, molto forte, per liberarsi di una concezione vecchia e stantia delle amministrazioni delle nostre città, nata quando il personal computer dava i primi passi, viaggiavano solo i ricchi e gli italiani disponevano dell’ offerta di pochi e rigidi canali televisivi.

ERNESTO PAOLOZZI

da “la Repubblica – Napoli” del 29 agosto 2012

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