“Libero Mercato e democrazia”

6 Febbraio 1990

Vicende dell’estetica fra vecchio e nuovo positivismo.

Di Aniello MOntuori.

Il saggio di storia dell’estetica del Paolozzi è senz’altro qualcosa di più rispetto al precedente lavoro del 1985 “I problemi dell’estetica italiana”. Alla puntualità e alla rigorosità della disamina di cinque anni orsono, l’autore aggiunge nel presente volume un ampliamento di prospettive non trascurabile.

In primo luogo, le vicende dell’estetica sono argomentate dallo studioso con uno spessore agile e descrittivo attraverso l’analisi dei maggiori filosofi e delle più importanti correnti di pensiero. Lo stesso sottotitolo dell’opera, che si ancora ad una tematica tipicamente contemporanea, “il vecchio e il nuovo positivismo”, obbliga chiunque ad un approccio e ad una disamina necessariamente di vasta portata.

E’ importante, pertanto, nell’ottica dell’autore, riproporre o quantomeno rivalutare in modo nuovo ed originale quella filosofia di “mediazione” definita dal Paolozzi “classica”, al fine di superare le dispute sterili ed autoannichilitrici tra scientismi ed irrazionalisti.

L’approccio specialistico all’estetica se da un canto ha contribuito a legittime demitizzazioni, ha sottratto indubbiamente al concetto della filosofia dell’arte quel complesso di ethos per determinare un tessuto corale di riferimento. Allorché si parla di ” dimensione artistica” in quanto recupero di una virtù filosofica perduta, l’analisi serrata di questo volume sfronda, di riflesso, gli ibridismi teoretici ma soprattutto le posizioni unilaterali dei due positivismi sulla fenomenologia estetica.

Il volume è anche un disvelamento dei rapporti tra scientismo ed estetica in funzione oppositiva: basti pensare alle acute osservazioni dell’autore sul positivismo ottocentesco segnato dall’entusiasmo incondizionato per il progresso scientifico e il neo-positivismo che, alla luce degli eventi di questo secolo, sostituisce al “certo” il “probabile” e che si orizzonta sul dogmatismo della logica formale. Un positivismo dunque più sottile, più rigoroso ma certamente non di portata rivoluzionaria, come del resto ammette mestamente l’autore, tutte le istanze teoriche dei nostri tempi.

Se la riflessione attuale sull’estetica si è stemperata sterilmente tra i tentativi di comprensione da parte di discipline quali la semiotica, la sociologia e la psicologia dell’arte, se nello stesso positivismo contemporaneo sussistono laceranti contraddizioni autocritiche in riferimento a strutture e risultati, qual è il “destino” dell’estetica? Deve essa necessariamente, dunque, condividere le crisi e la mediocrità delle riflessioni di questo dopoguerra?

Le conclusioni dell’autore sembrano pessimistiche non come atteggiamento intellettuale, ma alla luce dell’oggettività.

La proposta dell’autore, già implicitamente espressa nell’introduzione al saggio, non è il rimpianto di un’età dell’oro irrimediabilmente perduta, ma una ferma disponibilità affinché ogni studioso acquisisca un fondamento etico-politico nel senso più ampio del termine nella propria teoresi. Bisogna insomma considerare l’estetica in un formale rapporto di riferimento con altre finalità socio-culturali, ma di autonomia nei contenuti in un equilibrio teorico tale da permettere alla filosofia dell’arte di concludere un’odissea ormai secolare.