LA CONVERSAZIONE*
Maurizio Ferraris, Ernesto Paolozzi
Automa sarà lei!
I. Calunnie sull’automa
– Ferraris : Partiamo da una tesi su cui tutti potrebbero apparentemente convenire, riconoscersi: qualcosa come “lo spirito vivifica, la lettera uccide”. Sono convinto che anche chi ignora questo versetto evangelico assegna allo spirito una netta prevalenza rispetto alla lettera; si dice: questo è il testo, questa è la lettera, d’accordo; però, noi andiamo al di là della lettera, andiamo verso lo spirito. Mi ha molto impressionato – e cercherò di far vedere che nesso abbia con il nostro discorso dell’anima e dell’automa – un passaggio di Baudelaire ne Il mio cuore messo a nudo, in cui afferma: “Gli ebrei: bibliotecari e testimoni della redenzione”. Tra l’altro è una cosa di un antisemitismo agghiacciante. Benjamin, citando questo passo e commentandolo, lo minimizza, mentre Pichoi,(?) l’editore di Baudelaire nella Pleiade, dice: “Questo passo è difficile da interpretare, comunque qualunque antisemitismo è da scartare”, il che mi sembra una bellissima forma di rinnegazione. In realtà questi atteggiamenti mentali per cui c’è da una parte la lettera e dall’altra lo spirito, riflettono un’alternativa secca fra l’automa e l’anima: lo spirito è la parte buona, ed è l’anima; la lettera è la parte cattiva, ed è l’automa. Lo vediamo benissimo nel Fedro di Platone quando, per l’appunto, si condanna la scrittura perché è una forma di anima portata fuori, portata all’esterno e divenuta quindi anima tecnica, automa. Fra l’altro, il limite della scrittura per Socrate è che dice sempre e soltanto la stessa cosa, se interrogato il testo non sa difendersi né attaccare; dunque, il buono è solo dentro. Il punto è proprio questo: c’è una condanna dell’esterno, della tecnica, dell’inerte, in nome di un interno, di un vitale, di uno spirituale; ma se si discute sull’anima ed occorre spiegare cosa sia questo interno, nuovamente si ricade nell’esterno, in un inerte, in una forma di scrittura. Del resto, quando Platone deve descrivere l’anima dice: “L’anima assomiglia ad un libro”; ancora una volta la tecnica è dentro, non fuori. E quindi, inevitabilmente, uno comincia ad avere il sospetto che automa non sia una categoria, sia un insulto: automa sono gli altri!
– Paolozzi : Anch’io, naturalmente, avevo fatto un primo pensiero all’anima platonica, e poi alla complicazione dell’anima aristotelica che è un’altra cosa, anzi per certi aspetti è un gigantesco automa che finisce col governare il mondo intero. Ma c’è anche tutta la preoccupazione della filosofia moderna, da Cartesio fino a Kant, nel tentativo da un lato di scartare l’anima come idea metafisica, ma poi di non saper dire cosa un’anima sia, se metafisica o schematica. Evitiamo dunque il luogo comune secondo cui l’anima è bella, l’automa cattivo e negativo. Teniamo conto, però, che nella storia della cultura è ben presente anche l’idea che l’automa possa essere la contrapposizione per così dire vincente sull’anima. Pensiamo alla psicanalisi: l’anima concettualizzata da Freud ha una funzione puramente meccanicistica…
– Ferraris : Una psicologia senza anima, appunto.
– Paolozzi : E’ un ulteriore punto di riflessione. E malgrado il riferimento sia abusato, non posso non citare qui La strana avventura del dottor Jekyll e di Mister Hyde. Perché lì ci sono un’anima buona e un’anima cattiva: una è quella meccanica, quella che prende il sopravvento, quindi l’automa, il male, mentre l’anima bella resta inchiodata al bene. Ma il messaggio vero, di là dalla contrapposizione, è che in realtà non esiste l’anima di per sé, con un automa a fronte. In sostanza, sempre un’anima è anche un automa così come un automa è un’anima, perché siamo in un rapporto di reciprocità dialettica indistinguibile.
– Ferraris: Non dovremmo schierarci, quindi, né con Jekyll né con Hyde?
– Paolozzi: Io sono dell’idea che il racconto drammatizzi la condanna dell’astrattezza, non dell’automa; e che Stevenson aveva capito una cosa: se tu cerchi astrattamente di separare il bene dal male, anche con le migliori intenzioni, per far trionfare il bene, non ci puoi riuscire, perché nella realtà noi siamo sempre tanto automi quanto anime, se per anime intendiamo la libertà rispetto alla meccanicità.
– Ferraris : Ecco, immaginiamo allora che qualcuno venga e ci dica: “Tu come fai a provare di avere un’anima? Avanti, provalo. Cosa ne sai? Come puoi pensare di avere un’anima?”. Per dirla in altro modo: “Come puoi pensare di essere libero?”. Non abbiamo evidenze: per quanto ne sappiamo potremmo essere infilzati, mossi come un girarrosto, automatici come un girarrosto, solo un po’ più complessi. C’è chi risponderebbe: “No, a me sembra di avere dei movimenti spontanei”. Già, ma questi movimenti spontanei magari sono effetto di meccanismi interni oppure – secondo il vecchio argomento per cui le cose più profonde in noi sono semplicemente le cose che ci hanno insegnato alle elementari – frutto di precetti che abbiamo appreso automaticamente e che, essendo ormai radicati, immaginiamo costituiscano la nostra intimità. Si forma così una categoria che non è ontologica – esiste da una parte l’anima e dall’altra l’automa – ma piuttosto assiologica: c’è una cosa buona, che è l’anima; e una cosa cattiva, che è l’automa. In questo senso, molto spesso l’agire per automatismo viene considerato una forma di giustificazione. “L’ho fatto senza pensarci”: chi non s’è mai scusato così? “Eseguivo gli ordini”: altra tipica giustificazione. Se riflettiamo su quanta parte della nostra vita si svolge in maniera automatica, ci si rende conto delle continue ripetizioni, anche nella sfera spirituale. Secondo alcuni, un predicatore può parlare per un’ora senza pensare; io posso garantire che anche un professore può parlare per un’ora senza pensare. Che differenza c’è fra te e un automa in questo momento, nel momento in cui stai facendo lezione? Oppure nel momento in cui l’attore recita? A maggior ragione gli attori si trasformano in automi, dal momento che stanno svolgendo qualcosa di prescritto. L’automatismo poi è addirittura d’obbligo in alcune funzioni professionali. Prendiamo i call center, il caso più clamoroso. Tu telefoni, ti danno prima delle istruzioni automatiche: se hai bisogno di questo premi uno, se hai bisogno di quest’altro premi due, premi tre, etc.; poi, se c’è un caso imprevisto, interviene l’operatore, che è una figura anonima, spesso non sa cosa rispondere ed è costretto a ripetere sempre le stesse cose. Quindi, di fatto, ti trovi in una funzione automatica. Ma non è solo l’uomo degradato dal lavoro che agisce come un automa, anche gli uomini di chiesa, ad esempio, si ritrovano nella stessa situazione. Immaginiamo una messa: cosa c’è di più automatico?
– Paolozzi: Riproporre un’identica gestualità, formule consimili, è nella natura stessa del rito.
– Ferraris : Nel rito io posso benissimo figurarmi un automa, caricato a molla o più sofisticato, che celebra una messa e sono sicuro che la consacrazione sarebbe reputata valida purché le parole dette siano appropriate.
– Paolozzi: Mai come in questa circostanza, l’abito fa il monaco, dunque.
– Ferraris : Si, purché le parole profferite siano appropriate, la consacrazione ha luogo. Noi vediamo che le più elevate funzioni artistiche, spirituali, istituzionali, possono essere perfettamente rese attraverso l’automatismo. C’è forse qualche differenza tra il direttore d’orchestra, il sacerdote che celebra la messa, oppure Obama che fa il discorso inaugurale al congresso degli Stati Uniti? Il direttore d’orchestra e il sacerdote il testo ce l’hanno già scritto: non possono aggiungere niente di loro. A Obama, probabilmente glielo ha scritto un ghostwriter. Eppure questo dovrebbe essere per tutti e tre il culmine, il concentrarsi, l’apparire dello spirito sulla scena cosmico-storica…
– Paolozzi : Direi che potremmo chiudere questa prima parte con Pascal, uno che la sapeva lunga; secondo lui, anche la religione anzi, meglio, la fede, l’atto spirituale per eccellenza, in apparenza il meno automatico, si conquista spesso con l’abitudine, cioè proprio con un atto automatico.
– Ferraris : E ha inventato un calcolatore.
II. Dubbi sull’identità
– Paolozzi : Il problema è che l’identità, in effetti, non esiste, né nella cosiddetta anima né nel cosiddetto automa. E’ una categoria che da sola non si spiega: questo credo che sia il problema.
– Ferraris : Tu dici chiaramente che l’identità è un’illusione?
– Paolozzi : Da sola sì, senza il suo contrario sì. E’ vero, l’anima dovrebbe essere l’identità per eccellenza. Ma il problema diventa grave quando si cerca di farla uscire dal corpo, quando l'”Io penso” kantiano deve diventare un’anima che va in Paradiso o all’Inferno: è questo non è più possibile. Perfino Croce, che è il filosofo dello spiritualismo assoluto, quando nella Filosofia della Pratica, in pagine che pochi conoscono, parla del carattere degli uomini – perché il carattere è un specie di anima – parla di abiti, “abiti volitivi”. Io stesso commentando questo passo ho scritto: “Attenzione, perché qua Croce sta quasi parlando dell’anima, quasi!”; ovviamente, non sta parlando dell’anima. Cos’è un abito, quello che per cui noi diciamo che io ho una mia caratteristica e lui ne ha un’altra e tu un’altra ancora? Questa caratteristica è sempre individualistica, leibnizianamente individualistica. Per cui se per identità noi intendiamo questa superindividualità che ciascuno di noi ha, sia nel suo aspetto di automa che di anima, di essere automatico e spirituale assieme, allora sì, altrimenti l’identità mi sembra un’altra, l’ennesima astrattezza.
– Ferraris : E’ significativo questo rimarcare il carattere, perché carattere sono i caratteri di stampa, per restare alla questione lettera e spirito. Cioè, sono le cose per cui uno è sempre uguale a se stesso, il motivo per cui veniva rimproverata la lettera in Platone: lo scritto si ripete continuamente. E noi, quando siamo realmente noi stessi, ci ripetiamo, ci ripetiamo incessantemente. Questa unicità, che diviene di fatto il nostro abito individuale, fa supporre, a torto o a ragione, ai nostri parenti e ai conoscenti che noi abbiamo un’anima; e forse lo fa credere anche a noi stessi. Può apparire singolare, ma siamo tanto più noi stessi quanto più siamo meccanici. E’ il motivo per cui la gente si arrabbia quando va a sentire i concerti di Bob Dylan o di De Gregori, perché dopo un po’ gli artisti, essendo tali, si stufano di ripetere le cose sempre allo stesso modo. La centomilionesima volta che fai Buonanotte fiorellino ti esasperi e la canti diversamente. La gente ti detesta in quel momento, perché voleva sentirla “così come”, e quel “così come”, è esattamente ciò che ha ascoltato alla radio o sul cd un milione di volte; diviene quello l’autentico, quello rappresenta l’anima, l’essenza dell’artista, mentre la variazione disturba, risulta incongrua…
– Paolozzi : L’attesa sarebbe quindi legata alla meccanicità.
– Ferraris : E questo vale per un’infinità di occasioni e funzioni. Prima ho fatto cenno alla recita teatrale, alla funzione religiosa, al discorso politico, tutte cose che supponiamo prescritte. Immaginiamo ora che uno vada a sentire la conferenza di un famoso filosofo, e questo famoso filosofo dice esattamente il contrario di quello che ha sempre detto, e parla in una maniera diversa da come ha sempre parlato, fa degli esempi di tuttaltro tipo, ecc.: di nuovo, come dal cantante, tu sei deluso. Lui però ti dice: “Ma scusa, se io ho avuto un rivolgimento spirituale interno trenta secondi fa e questo è il risultato del mio rivolgimento, dovresti apprezzare ciò che hai sentito, ciò che rappresenta ora la mia autentica originalità.” Riuscirebbe convincente questo ragionamento, rianimerebbe l’ascoltatore deluso? Non credo.
– Paolozzi : Alla fine, dunque, l’aspetto che sembra più creativo, meno robotico, la pulsione artistica, è quella che più di altri ti fissa in una irripetibile caratterialità. Che è poi il tema di Pirandello, tra l’altro.
– Ferraris: Un tema esistenziale e giocoforza linguistico.
– Paolozzi: Allora, o qui noi ce la caviamo ricorrendo al vecchio Hegel e instaurando un rapporto dialettico fra il linguaggio e la parola, per cui non esiste prima l’uno eppoi l’altra – che nascono ad un varco, direbbe Vico – oppure non usciamo più dal problema. Come ci si mette d’accordo con il linguaggio se non con il linguaggio stesso? La convenzionalità del linguaggio non può che essere posteriore alla creatività. Ma la creatività da dove ci viene? Ce l’ha messa Dio? Siamo nati così? C’è l’idea di Platone? Ecco, se noi assumiamo su questi problemi il punto di vista della metafisica o della scienza, ognuno nella rispettiva esclusività, non ne usciamo più.
– Ferraris: Quindi sei per un superamento di entrambe le categorie?
– Paolozzi: Nascono assieme e non ha senso separarle
– Ferraris: A questo proposito voglio riallacciarmi a Vico, che hai appena citato. Lui, il teorico degli universali fantastici, ad un certo punto si chiede cos’è la fantasia e risponde: memoria dilatata e composta. Noi spesso ci facciamo quest’idea: l’autentico è l’unico, quel che avviene una volta sola; l’automatico, viceversa, è ciò che si ripete sempre. Ma tutti gli esempi che abbiamo fatto finora depongono in un senso diverso, oserei dire inverso: l’autentico è piuttosto quel che si ripete sempre. Del resto quando si dice “i sapori autentici” si allude ai sapori di una volta, cioè i sapori che si sono ripetuti un’infinità di volte. E molto spesso nella distinzione fra autentico e inautentico sembra esserci solo una distinzione fra due tipi di tecnica: tra fatta a mano e fatta a macchina; però, sono comunque due tipi di tecnica. Secondo me, la vera domanda è questa: una volta che tu hai dimostrato che tra anima e automa non c’è differenza, per quale motivo continui a considerare negativamente l’automa e positivamente l’anima? Perché io stesso non sarei contento di vivere circondato da automi, non sarei felice di essere un automa. Credo che la risposta, sotto questo punto di vista, ce l’ha data bene Leibniz: noi possiamo immaginare di avere a che fare con un automa spirituale, purché libero. E cosa vuol dire automa spirituale ma libero? Vuol dire un automa enormemente complicato. Noi siamo degli automi senz’altro, però siamo degli automi più complicati di altri automi. E’ il motivo per cui non abbiamo grande stima nei confronti del girarrosto: perché è un automa che fa una funzione molto semplice. Allora io ho l’impressione che la libertà più che una cosa da dimostrare è piuttosto una cosa che dobbiamo presupporre, per dare senso alla nostra vita.
– Paolozzi : La libertà come presupposto?
– Ferraris: Sì, io preferisco pensare di essere libero, così come preferisco pensare che coloro che mi stanno attorno sono liberi, perché questo mi permette di adoperare un vocabolario di valutazione morale che sarebbe insensato qualora questa libertà non esistesse. E di questo, però, non ho una prova, nessun tipo di prova utile.
III. Automatismo della quotidianità
– Paolozzi: Io penso che non si debba demonizzare l’automaticità nel quotidiano. In effetti così è la vita, che si articola attraverso questo passaggio continuo dalla banalità alla profondità, all’originalità. E al solito: “E’ possibile essere originali se non c’è la banalità?”. Questa è la domanda. Che cosa significa: “Oggi ho fatto una giornata diversa dal solito, finalmente?” Che sono andato allo stadio? Oppure che ho creduto di scrivere una poesia bellissima che conservo nel cassetto e ho vergogna di farla vedere? E se invece il resto della giornata mangio, bevo, dormo e affettuosamente saluto un amico con il quale vado al cinema: questo è necessariamente banale? Siamo portati a dire che la vita quotidiana è spesso un susseguirsi di banalità ma qui, probabilmente, si compie una traslazione etica, direi addirittura etico-politica. Noi condanniamo o auto-condanniamo, con dubbio moralismo, la vita di una persona perché non sente su di sé, non assume l’impegno di fare qualcosa, non dico di importante, ma almeno di utile per l’intera umanità; e invece vive: si limita a vivere, compiendo gesti naturali o minimi, comunque quotidiani, forse o certamente automatici. Va condannato per questo?
– Ferraris: La vita funziona per cicli. Si autocomprende come un ciclo di cicli digestivi, cicli stagionali, cicli produttivi, cicli alimentari. Quindi è la ripetizione per eccellenza. Quando si parla della vita non la si immagina nella sua quotidianità; e però vorrei vedere una vita che non fosse quotidiana: sarebbe davvero un po’ troppo strepitosa. C’è un’enorme letteratura, tipica del primo ‘900, in cui ti fanno vedere questi uomini nelle città che si muovono come automi, grigi, rassegnati, sostanzialmente identici… La lente, però, non è mai puntata sul ‘700, dove gli stessi uomini, in campagna, si comportavano a loro volta come degli automi, solo un po’ più lenti, soggetti a dei ritmi che erano quelli della natura – mietere, trebbiare, etc. – ma richiedevano una eguale ripetitività. La differenza non è dunque tra lo spontaneo e l’automatico, quanto piuttosto tra un automa rozzo e un automa sofisticato. Bisognerebbe riuscire a capire perché nonostante l’onnipresenza dell’automatismo nella nostra vita, ci siano dei momenti, e più frequenti di quanto uno potrebbe immaginare a priori, in cui ci sembra che emerga l’originalità, l’inventiva, la libertà, la decisione… D’altronde queste sensazioni, questi sentimenti, felicità, infelicità, in un puro automatismo non sarebbero spiegabili; ed è anche vero che quando noi siamo depressi l’automa si vede molto di più.
– Paolozzi: Rifletterei su questo: qual è una delle cose che più ci spaventa nella vita? L’incertezza: non vogliamo essere incerti. Siamo incerti della crisi, siamo incerti dell’amore, siamo incerti della nostra stessa vita. E quindi come fai ad uscire dall’incertezza? Diventi automatico, diventi ripetitivo. Questo significa che l’automaticità è una parte essenziale della nostra esistenza. Appena rischiamo di perderla abbiamo paura. Ovviamente tutti noi constatiamo che in fin dei conti vogliamo vivere nell’incertezza, perché se non ci fosse l’incertezza, al solito non ci sarebbe la libertà e non potremmo fare niente più. Perché se io già sapessi tutto quello che occorre fare, da oggi al momento della mia morte, mi suiciderei subito. E lo farei sia perché ho paura dell’incertezza, sia perché non voglio aver paura di aver paura, che è la vera angoscia.
– Ferraris : A proposito di angoscia, mi viene in mente una bella vignetta di Vincino. C’è Gesù Cristo che dice a un ladrone: stasera sarai con me in Paradiso; si, ma poi usciamo. Capito? Il Paradiso non sarebbe tale, evidentemente, senza un punto di fuga. Cosa può essere più tremendo, infatti, di questa ripetitività completa? Ricordo quel film americano dove il protagonista era condannato a rivivere ogni mattina, fin dal risveglio, la stessa giornata; alla fine non voleva più addormentarsi, per nessun motivo, sapendo perfettamente cosa lo aspettava l’indomani. Esiste anche una versione Disney, in cui i nipoti di Paperino realizzano per magia il loro sogno: che sia sempre Natale. Da principio è una cuccagna ma poi, quando si ritrovano alle prese sempre con lo stesso maledetto pranzo, sempre con gli stessi regali che non rappresentano più una sorpresa… allora l’angoscia li invade, senza scampo, divengono tristissimi, rabbiosi.
– Paolozzi : Tra tanti richiami all’arte popolare, mi permetto di inserire uno spunto classico: forse dobbiamo rivalutare Platone quando dice che il corpo è una gabbia per l’anima.
– Ferraris : Se si parla di corpo, c’è una cosa che debbo immediatamente far notare: l’alternativa fra anima e automa è anche l’alternativa tra vivo e morto. L’anima è vivente, l’automa è il morto. Ma il punto è: se noi sapessimo l’ora della nostra morte, se noi conoscessimo il momento esatto, che cosa ci succederà? E’ un’ipotesi che sta diventando sempre più concreta; da una parte la vita biologica si è molto allungata, dall’altra e contemporaneamente gli strumenti diagnostici che adesso esistono – e che sono estremamente più avanzati anche solo di vent’anni fà – fanno si che noi conviviamo con la nostra morte molto più a lungo di quanto non avvenisse per le generazioni che ci hanno preceduto. La gente che è consapevole di avere un tumore adesso è una quantità enorme, e va avanti comunque con questa cosa. Il fatto di essere sieropositivi una volta significava morire, adesso in realtà è vivere, convivere tutta la vita con la tua morte. Gli studi sul dna renderanno possibile in tempi non molto lunghi il sapere di cosa moriremo e quando moriremo. Cos’è questo? È il venire allo scoperto dell’automa, e del morto dentro al vivo. Ci vuole poca scienza per capire i meccanismi del girarrosto; però con molta scienza e molta tecnica tu riesci a capire i meccanismi dell’automa spirituale e libero che siamo noi e lo riveli sempre più come automa, di fatto.
IV. La tecnica
– Ferraris: Che cosa è la tecnica in sé? La risposta che sarei portato a dare è: “La tecnica è la possibilità di ripetere qualcosa”. Do un colpo e poi do un altro colpo: questa è già una prima forma di tecnica. Non c’è tecnica che possa svilupparsi in assenza di iterazione. Le iterazioni poi si accumulano e si incastrano ed alla fine c’è un oggetto così sofisticato come quello che ci sta registrando, ma che comunque procede per iterazione e da cui fra l’altro la nostra onesta aspettativa è che sia capace di iterare quello che stiamo dicendo.
– Paolozzi : Mi associo all’auspicio, naturalmente, e confido nello strumento. A me il discorso sulla tecnica fa venire in mente Edgar Morin, pensatore della complessità, con cui ho avuto modo di dialogare. La complessità prevederebbe un’espulsione della tecnica, anzi la tecnica è vista come il negativo della complessità, perché è ciò che semplifica. Ma la logica lineare, che nel nostro caso potremmo definire una tecnica logica, è possibile espellerla dalla realtà del mondo? Questa sarebbe un’operazione contraria alla complessità, che per essere tale deve prevedere proprio la linearità, cioè la tecnica.
– Ferraris: La logica lineare come premessa della complessità?
– Paolozzi : Non come premessa ma come componente necessariamente interna alla complessità, che non può diventare essa stessa riduzionista, perchè se no non è più complessa ma una forma di linearità semplicemente più sofisticata. E allora devi entrare fino in fondo in questa complessità e, probabilmente, devi entrare nella storia. Nulla a che vedere con lo storicismo banale: occorre spostare completamente la questione non dalla storia passata ad oggi, ma piuttosto inserirci noi nella storia, sulla storia passata. Quello che oggi ci sembrerà complesso diventerà semplice probabilmente domani, e viceversa.
– Ferraris : Vorrei lanciare un’ipotesi: ogni epoca ha avuto i suoi critici della tecnica, e sono coloro che criticano le tecniche nuove in nome di tecniche più vecchie. Normalmente è così: i sabotatori che rompevano le macchine lo facevano per poter continuare a lavorare con i loro strumenti a mano, che però erano anch’essi forme della tecnica, solo precedenti.
– Paolozzi: Tra l’altro – e mi pare sia venuto fuori chiaramente nel corso di questa discussione – non è vero che la nostra epoca soltanto è l’epoca della tecnica. Ed io comincio ad avere molti dubbi anche sul fatto che si possa veramente parlare di epoche, metterei in discussione il concetto stesso. Perché noi inventiamo l’epoca, però, in realtà, chi l’ha detto che esiste? Ma veramente il mondo è diviso in secoli e decenni, l’800, il ‘900, gli anni ’60, gli anni ’90? Sono solo le ennesime astrazioni, necessarie a scopo divulgativo, certo, per organizzare un libro, per scandire un dibattito…
– Ferraris : Io credo che ogni epoca – volendo rimanere ancorati per il momento a questa forma di periodizzazione – si sia rappresentata come complessa rispetto ad un’altra precedente considerata come semplice; che ogni epoca si sia concepita come epoca di trasformazione rispetto alla precedente; e che ogni generazione, in generale, sia considerata come una generazione non pienamente realizzata rispetto alle altre che erano perfette. Ma è semplicemente la percezione che si ha quando si è dentro a un flusso. Quando invece le cose sono fissate, semplificate, riconoscibili, a questo punto diciamo: “la tipica situazione feudale”.
– Paolozzi : Percepirsi nel flusso, dici tu, è difficile.
– Ferraris : E’qualcosa di molto complicato. Si può immaginare un uomo medioevale che dice:” Ecco, io sono un vero e perfetto uomo medioevale”? Intanto non sapevano di essere medioevali e questo già cambiava tutto. Taluni, meno informati, erano ancora convinti di essere degli uomini antichi, i quali peraltro non sapevano di essere antichi. Secondo me, di nuovo, qui troviamo lo stesso problema anima/automa: cioè, noi che siamo nel flusso ci sentiamo anima; gli altri, che sono già fissati, sono gli automi. Il che in se stesso non è sbagliato, perché noi non sappiamo come va a finire, non sappiamo come si chiude il meccanismo per noi e, con naturalezza, ci percepiamo anime.
– Paolozzi: Quindi, ancora una volta, automi sono gli altri.
– Ferraris : Soprattutto quelli che ci hanno preceduto; loro, sono tutti automi.
– Paolozzi : Del resto quando una cosa è morta è oramai consegnata all’automaticità, ha la storia come sedimento. Ma, d’altro canto, questi sono meccanismi necessari alla vita. Se sono davanti al professore che mi fa l’esame, lui per me diviene una pura presenza, assume una fissità automatica. E’ uno che fa il professore, e basta. Che poi sia contento o infelice, che tifi per il Napoli o per la Juventus, a me non interessa. Per rimanere all’ultima metafora: in questa circostanza, io sono il flusso e mi percepisco in divenire ma invece la persona che sta di fronte a me devo automatizzarla, collocarla in un contesto immobile; se non lo faccio, se non automatizzo lui e ciò che lo circonda, non c’è posto nemmeno per il confronto.
V. La fabbrica dei fantasmi
– Ferraris : La tecnica di per se stessa produce fantasmi. Lo spiritismo è un fenomeno moderno: appartiene all’età dei fonografi, dei fratelli Lumiere, coincide con l’invenzione del cinema. Il fantasma poi, in se stesso, è una figura automatica, tutte le sere ritorna e più o meno dice sempre le stesse cose. Lo spettro silenzioso del padre di Amleto compare per tre volte sugli spalti; se apparisse una sola volta non lo considereremmo un fantasma ma un’allucinazione: la differenza c’è. E pensiamo alla quantità di fantasmi di cui ora siamo circondati. Una volta, degli uomini che ci avevano preceduto restavano solo dei ritratti fissi e delle lettere scritte. Adesso abbiamo le loro voci, le loro facce, le loro gesta e archivi giganteschi pur se deperibili, ovviamente, perché la tecnica ha anche la caratteristica di dover essere continuamente rinnovata. Ed ancora: lo zombi. E’ un fantasma un pò più materiale, un po’ più corpulento, perché ci sono dei pezzi che cascano, però in effetti cos’è? E’ uno che si muove automaticamente. Quindi zombie, fantasma, automa, appartengono alla stessa specie. Uno potrebbe dire: “Ma dai, adesso così scientificamente evoluti come siamo, dobbiamo credere ai fantasmi?”. Certo che dobbiamo crederci: li produciamo incessantemente. L’avvenire è dei fantasmi, visto che l’avvenire è uno sviluppo della tecnica.
– Paolozzi : L’avvenire è dei fantasmi ma ricordiamo che anche in passato queste figure indubbiamente automatiche erano ben presenti, sapevano far valere le proprie ragioni. Rimanendo comunque al ‘900, penso alla commedia nera di Eduardo, Questi fantasmi, dove i confini tra reale e soprannaturale, astuzia e superstizione, sono quanto mai labili. La cosa più divertente della commedia è il finale in cui escono i nomi di tutti i personaggi, con queste qualifiche: anima inutile, anima dannosa, anima cattiva… Eduardo rende fantasmatici i personaggi, etichettandoli grottescamente con epiteti spirituali e, viceversa, degrada il fantastico immergendolo in una realtà laida, fatta di piccoli e meschini interessi. Il dubbio sulla duplice natura delle figure che agiscono viene alimentato con sapienti equivoci ed alla fine resta tale: abbiamo assistito ad una patetica tragedia dell’ingenuità o ad un grande e consapevole inganno? Perché l’essere umano ha sempre avuto il bisogno di costruirsi dei fantasmi, adoperando di volta in volta le tecniche disponibili, quelle manuali e quelle legate all’immaginazione.
– Ferraris: Pensi che sia esistita un’altra epoca così fantasmatica come questa? Paolozzi : Se vogliamo andare sul terreno della quantità, ma non solo, la prima risposta è il ‘600. Perché il ‘600? Perché, appunto, il barocco è l’invenzione della macchina, del fantasma, è mimèsi folle della realtà, sia in positivo che in negativo. Positivo quando esprime, con pienezza e senza limiti, tutto il potenziale “creativo”; negativo quando la tecnica esplode, quando si avvolge su se stessa e ci mettiamo a scrivere i concettini arguti. Ma oggi, in fondo, non è così? La nostra è un’epoca barocca, tanto nei suoi aspetti migliori – secondo me, il jazz è una forma musicale a pieno titolo barocca – come nei suoi aspetti peggiori.
– Ferraris : Sono d’accordo su questo. Ciò che metto in discussione è il presunto tratto caratteristico del nostro tempo, quello riassunto nella formula “La società contemporanea si basa sulla comunicazione”. Io ho sempre trovato comica questa affermazione, perché l’ho considerata due volte falsa: la prima falsità è che non riesco ad immaginare una società che non si basi sulla comunicazione: cioè, gli egizi non comunicavano? Stavano tutti zitti? Solo perché dei loro eventi non abbiamo registrazioni adeguate – ovvero simili alle nostre, il che mi sembra una pretesa eccessiva – si immagina che non comunicassero. E’ la tipica presunzione dell’uomo d’oggi.
– Paolozzi : Socrate parlava fin troppo.
– Ferraris : E di questo abbiamo delle prove. L’altra cosa è che più importante della comunicazione, a mio parere, è ora la registrazione. Noi non riusciamo più ad immaginare una società senza memoria degli atti che la caratterizzano nel quotidiano, che permettono alla vita di scorrere in un dato senso. Questo perché la caratteristica della tecnica degli ultimi trent’anni, non di più, è stata proprio l’immensa crescita di strumenti di registrazione d’ogni tipo. Tutte le nostre telefonate sono registrate, abbiamo tracce di tutte le nostre e-mail, abbiamo delle memorie dentro i nostri telefonini che sono superiori a quella che poteva avere la biblioteca di Alessandria ai tempi belli. Sicuramente questa è una variazione, un potenziamento inaudito nell’eterna produzione di automatismi.
– Paolozzi : La società della registrazione. Io non dico mai parole definitive perché la vita stessa non è definitiva, però forse internet va ancora oltre, fa addirittura superare il problema della reperibilità delle registrazioni, perché quando poi le hai lanciate nello spazio cibernetico, prima o poi qualcun altro le prende e la cosa si rinnova. In un simile contesto, una mia mail rischia seriamente di essere immortale e, visto che internet rigurgita di informazioni obsolete, non invidio gli storici futuri, che con questa enorme matassa di notizie dovranno confrontarsi.
– Ferraris : Indubbiamente gli automi troppo perfezionati, in possesso di una memoria illimitata, sono decisamente inquietanti. Qualcuno, nobile fautore dell’anima contro il vile automa, direbbe: “Ma dopo tutto la memoria è mera riproduzione. Lo spirito è tuttaltra cosa”. Ma noi, che non siamo ingenui, sappiamo che il deterioramento dell’automa comporta danni rilevanti anche all’anima.
da “La freccia e il cerchio”, rivista fondata e diretta da Edoardo Sant’Elia (www.scuoladipitagora.it)
Arigorously structured project with a final deadline: eight issues over eight years (2010-2017), with twelve contributions in each volume.
A complementariness of knowledge evolves around a double, dialectic theme, with neither boundaries nor defining limits, rather shuffling the cards between ‘high’ and ‘low’, between genres of art and consumption, between more widely diffused languages and less widespread languages.