CARDUCCI, IL SENSO DRAMMATICO DELL’ESISTENZA

Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito

È probabile che la maggior parte dei professori italiani formatisi negli anni

Settanta avrebbero qualche difficoltà nel riconoscere la mano di Giosuè Carducci

in questo finale de Alla stazione in una mattina d’autunno, la cifra esistenzialista

e il tono prosastico (lontano da quello di Leopardi o Foscolo) sembrano caratterizzare

un poeta di estrema modernità, anzi contemporaneità. Un riferimento del

passato, se proprio è necessario istituire paragoni in letteratura, potrebbe apparire

Baudelaire…

Perché, dunque, questa difficoltà della cultura italiana recente a riconoscere

la forza e la grandezza di quel poeta che nei decenni precedenti fu invece ammirato

e celebrato come il Vate della poesia italiana, il rappresentante grande ed

ultimo, dopo la triade ottocentesca dei Foscolo, dei Manzoni e dei Leopardi?

Perché, addirittura, in qualche momento, preferirgli quel Pascoli fino a poco

prima considerato un geniale o un tardo epigono del Carducci?

È difficile rispondere a questa domanda, a meno che non si voglia scrivere un

lungo saggio sulla storia non solo letteraria ma etico politica del secondo

Novecento.

È probabile, giusto per abbozzare un’ipotesi, che negli anni nei quali molti di

noi si sono formati, sull’onda lunga del Sessantotto, il poeta della Storia e della

Patria, del Risorgimento liberale, non poteva non generare una sorta di rifiuto in noi giovani dissacratori,eversori, rivoluzionari più o meno credibili ma in ogni caso ingenui oppositori di

quell’amor di Patria che il Risorgimento aveva nobilitato e il fascismo, ancora vicino,

aveva strumentalizzato.

Non solo. Lo stile, vorremmo dire la chiarezza, la “virilità” del poeta toscano

urtavano con il gusto rivoluzionario da un lato e decadente , esistenzialistico,dall’altro, degli

anni della rivolta giovanile. Quasi che, anzi senz’altro che, la poesia di Carducci

risultasse retorica, insopportabile, ridondante, presuntuosa. E retorica c’è, e qualche

volta insopportabile, ma il più delle volte alta e civile retorica. A saper cercare, a saper guardare, al di sotto di quella retorica spesso vi era grande, schietta e umanissima poesia.

Forse un altro fattore, questa volta di carattere puramente psicologico, ci

impediva di cogliere il proprio della poesia carducciana. Il ricordo infantile, che

ognuno di noi portava, della lettura adolescenziale che le scuole italiane imponevano.

Forse giustamente. Quel Carducci che, accanto a Pascoli e ad un certo

D’Annunzio, ci veniva porto in maniera edificante sul terreno morale, troppo

classicheggiante su quello estetico. Da giovani che volevano crescere in fretta per

sostituirsi ad una generazione consumata, Carducci ci sembrava un poeta adolescenziale,

quello, insomma, di San Martino, della nebbia agli irti colli che sale

mentre pioviggina e sotto il maestrale il mare urla e biancheggia. Poesia che si

mandava a memoria e si recitava ritmata e talvolta si cantava al suono di musichette

semplici e ingenue. Ciò che ci appariva (a noi, giovani profeti di un mondo

nuovo, avanguardia di una società che si annunciava col linguaggio della dissacrazione,

della demistificazione, dell’ironia) puerile fino alla banalità.

Eppure, a rileggerla oggi, San Martino non solo risveglia in noi una qualche

nostalgia per la rappresentazione schietta e verace (anche se stilisticamente tutt’altro

che ingenua), di sentimenti forti nel senso di radicati, come quell’aspro

odor dei vini che inebria gli animi o quella malinconia rattenuta e pensosa del cacciatore

sull’uscio che guarda stormi neri, incarnazione di pensieri esuli, migrare

nel cielo rossastro del tramonto ma ci riconcilia con la poesia classica nel senso

più alto del termine. Sembra quasi che la complessa semplicità carducciana ci

aiuti a vendicarci della estrema banalità del linguaggio dei mass-media attuali e

dell’estrema ricercatezza degli sperimentalismi avanguardistici di scuola. Quella

sorta di schizofrenia che vive la nostra società colta, dilaniata fra la ricerca dell’elementarità

e della povertà dei concetti e dei connessi linguaggi espressivi e la

strenua volontà di ridurre, asciugare, il linguaggio alto della poesia fino a renderlo

così rarefatto da farlo diventare muto.

Alla luce di queste riflessioni, se si vuole di queste sensazioni, vale la pena

rileggere assieme, per alcuni forse per l’ennesima volta ma per altri la prima, la

classica Davanti San Guido. Basterebbe citare i versi con i quali il poeta, nel suo

dialogo con i cipressi che sfilano davanti al treno in corsa, evoca la nonna sepolta

nel cimitero per confermare ciò che abbiamo cercato di esprimere, sia pure per

accenni. Eccoli: […] Addio,cipressi! addio, dolce mio piano! / Che vuoi che

diciam dunque al cimitero / Dove la nonna tua sepolta sta? / E fuggìano, e pareano

un corteo nero / Che brontolando in fretta in fretta va. / Di cima al poggio allor,

dal cimitero, / Giù de’ cipressi per la verde via, / Alta, solenne, vestita di nero /

Parvemi riveder nonna Lucia: // La signora Lucia, da la cui bocca, / Tra l’ondeggiar

de i candidi capelli, / La favella toscana, ch’è sì sciocca / Nel manzonismo de

gli stenterelli, / Canora discendea, co ‘l mesto accento / De la Versilia che nel cuor

mi sta, / Come da un sirventese del trecento, / Piena di forza e di soavità. […].

Quel dolce e sereno ricordo che non impedisce di polemizzare con i manzoniani…

E qui, sia detto di sfuggita, si potrebbe e si dovrebbe aprire un lungo

discorso sul rapporto di Carducci con la natura, anch’esso complesso e moderno.

Ma vogliamo citare almeno le prime due strofe di Piemonte, invitando

il lettore a rileggere per proprio conto Alle fonti del Clitumnio.

Su le dentate scintillanti vette / salta il camoscio, tuona la valanga / da’ ghiacci immani rotolando

per le / selve scroscianti: // ma da i silenzi de l’effuso azzurro / esce nel sole l’aquila,

e distende / in tarde ruote digradanti il nero / volo solenne.[…]

Il poeta della Storia, il vate d’Italia, lo abbiamo detto, per molto tempo sembrò

quasi oltraggioso al gusto antagonista dei giovani rivoluzionari e a quello,

imborghesito, degli italiani che si apprestavano ad entrare a pieno titolo nella

civiltà dei consumi. I suoi ricordi della grande e gloriosa storia italiana apparivano

come vuote retoriche passatiste. Passava in secondo piano l’impegno politico

del poeta toscano, la sua travagliata e dolorosa partecipazione agli eventi decisivi

dell’Italia contemporanea. Non si tenne in conto nemmeno l’aspetto psicologico,

caratteriale, duro e tormentato del grande poeta. Quell’abito fiero da cui discende

lo sdegnoso canto ci apparve una fatua vanteria, mentre era la semplice verità

dell’uomo Carducci.

Eppure basterebbe rileggere con animo sgombro da tali pregiudizi la Canzone

di Legnano che certamente non è ascrivibile alla mera esaltazione della storia

patria. Il rapido e potente inizio: Sta Federico imperatore in Como. / Ed ecco un

messaggero entra in Milano / Da Porta Nova a briglie abbandonate / “Popolo di

Milano”, ei passa e chiede, / “Fatemi scorta al console Gherardo “. / Il console era

in mezzo de la piazza, / E il messagger piegato in su l’arcione / Parlò brevi parole

e spronò via. […], plastico e quasi cinematografico, ha qualcosa di dantesco nel

senso della capacità rappresentativa, dell’icasticità.

Ma è la figura intera, quella di Alberto di Giussano, che ricorda i tratti del

Dante poeta della passione politica. Poeta della passione, abbiamo detto, non

pedante pedagogo o demagogo, sia pure in versi, dell’ideologia, del massaggio

politico edificante. Nulla di più estraneo al tono e alla cifra di questa grande poesia.

E cosa dire della conclusione, nella quale, con sobria ma arguta ironia, si spegne

e si esalta assieme l’eroicità credibile del protagonista attraverso il sentimento

del popolo milanese che esprime quello del poeta stesso:

(…) “Or ecco”, dice Alberto di Giussano, / “Ecco, io non piango più. Venne il

dì nostro, / O milanesi, e vincere bisogna. / Ecco: io m’asciugo gli occhi, e a te

guardando, / O bel sole di Dio, fo sacramento: / Diman da sera i nostri morti

avranno / Una dolce novella in purgatorio: / E la rechi pur io! “ Ma il popol dice:

/ “Fia meglio i messi imperiali “. Il sole / Ridea calando dietro il Resegone.

Alberto, al culmine della sua arringa al popolo milanese che si appresta alla

battaglia, si commuove pensando alle vittime nel novero delle quali si augura, in

un estremo, generoso slancio, di essere compreso a patto di portar loro nell’oltretomba

la notizia della vittoria. Ma la possibile enfasi retorica si spegne al grido

realistico, generoso e sarcastico assieme e profondamente umano, del popolo che,

al sacrificio del suo condottiero dichiara di preferire quello dei messi imperiali: la

notizia della sconfitta dell’impero ai defunti nella battaglia la portino loro! E perfino

il Sole calante sorride di tanta generosa sagacia.

È interessante soffermarci sulla chiusa di questo grande componimento carducciano

perché rappresenta, in certo qual modo, un motivo ritornante, quasi la

cifra umana della poesia del grande poeta che smorza sempre, come in una

incomponibile polarità, ogni slancio in un’ironia, e innalza sempre ogni ironia con

uno slancio. Ciò che ci sembra il segno evidente della modernità, della contemporaneità

di Carducci, ma anche della sua classicità. Com’è noto, infatti, non c’è

nulla di più inattuale di un classico perché un classico è sempre attuale: può passare

di moda momentaneamente ma la sua attualità è universale. Come universale

è, infatti, il contrasto che abbiamo cercato di descrivere nell’animo di Carducci:

un contrasto che non è tale perché altro non è che la rappresentazione dell’animo umano, che non è mai unilaterale, non è mai riducibile a schema, poetico,

metrico, psicologico, politico che sia.

Non è, ovviamente, solo l’ironia che tende a compenetrarsi con l’impeto e la

passione romantica ma è l’intera visione della vita che trapela in tante rappresentazioni

carducciane, dove spesso piccoli motivi si sovrappongono allo scoramento

generale: ma sono questi poveri eventi a dare il senso della drammaticità dell’esistenza.

Un’esistenza, dunque, che solo nei piccoli sentimenti si appaga e solo in

essi trova una povera serenità.

Ricordiamo assieme questi versi letti negli anni del liceo:

[…] Ansimando fuggìala vaporiera / Mentr’io così piangeva entro il mio cuore; / E di polledri una leggiadraschiera / Annitrendo correa lieta al rumore. // Ma un asin bigio, rosicchiando

un cardo / Rosso e turchino, non si scomodò: / Tutto quel chiasso ei non degnò

d’un guardo / E a brucar serio e lento seguitò.

Oppure: […] Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; / E sempre corsi,

e mai non giunsi il fine; / E dimani cadrò. Ma di lontano // Pace dicono al cuor le

tue colline / Con le nebbie sfumanti e il verde piano / Ridente ne le pioggie mattutine.

Naturalmente, la vastissima produzione carducciana sul tema della storia e

l’altrettanto vasta produzione di polemista, non è scevra da esagerazioni, ridondanze, retorica. Quello stesso Inno a Satana che per tanti fu una sorta di inno alla laicità e che, per tanti versi, potrebbe sembrare modernissimo tanto è dissacrante, risulta invece francamente brutto (tanto

per non perdersi in eufemismi), tant’è che lo stesso poeta lo definì una chitarrata

stonata.

Ma è difficile seguire l’itinerario carducciano se non si tiene presente, innanzitutto,

il tormento politico che influenzò la sua vita e la sua personalità prima

ancora che il poeta, il critico, l’uomo politico. Anche la diversità di giudizio rispetto

alle grandi questioni del Risorgimento, dell’Unità d’Italia, della Repubblica o

della Monarchia, testimoniano della modernità della visione della vita che sembra

scomparire dietro un atteggiamento virile, classico.

Così anche della sua concezione della figura del poeta. Non vi è dubbio che,

in quegli stessi anni, Francesco De Sanctis approdasse ad una concezione dell’arte,

ad un’estetica molto più incisiva e teoreticamente fondata. Il grande critico

pose le basi della futura estetica crociana e consentì il recupero della originale,

geniale, estetica vichiana. Per quella via l’Italia non solo rientrava nel dibattito

europeo e mondiale ma si poneva decisamente all’avanguardia. Anche in questo

caso, la nostra cultura critica e storiografica dovrà recuperare molto tempo perduto

e confrontarsi di nuovo con quella concezione dell’arte come forma della

conoscenza autonoma ma correlata alla storia che sembra essere un’estetica del

futuro più che del passato. Ma Carducci, ancora dilaniato dal romanticismo del

carattere e dalla classicità della formazione culturale (ciò che accade quasi sempre

agli italiani) aveva chiara l’idea del poeta. Non possiamo che non ricordare

Congedo, componimento esteticamente non riuscito ma programmaticamente

rilevantissimo. Il poeta, o vulgo sciocco, / Un pitocco / Non è già, che a l’altrui

mensa / Via con lazzi turpi e matti / Porta i piatti / Ed il pan ruba in dispensa. //

E né meno è un perdigiorno / Che va intorno / Dando il capo ne’ cantoni, / E co

’l naso sempre a l’aria / Gli occhi svaria / Dietro gli angeli e i rondoni. […]// Il

poeta è un grande artiere, / Che al mestiere / Fece i muscoli d’acciaio: / Capo ha

fier, collo robusto, / Nudo il busto, / Duro il braccio, e l’occhio gaio. […]

Insomma, l’arte è sempre, assieme, spontaneità e ricomposizione della spontaneità.

Il genio, come si disse, non è sregolatezza. Il genio è regolatezza, lavoro,

impegno, fatica.

È questa forse una delle cifre più autentiche e più moderne, perché classica,

del genio carducciano.

Rileggiamo ancora una volta, in conclusione, Traversando la Maremma toscana,

perché in questo piccolo capolavoro posiamo agevolmente rinvenire l’intera

fenomenologia dell’animo carducciano, il senso della precarietà della vita accanto

alla gioia della vita, la caducità dell’esistenza che impegna, quindi e necessariamente

la volontà etica e politica di viverne appieno ogni istante, in stretto contatto

con la natura, che è sempre una natura interiore all’animo umano. Dolce paese,

onde portai conforme/ l’abito fiero e lo sdegnoso canto / e il petto ov’odio e amor

mai non s’addorme / pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto. / Ben riconosco in

te le usate forme / con gli occhi incerti tra ‘l sorriso e il pianto. / e in quelle seguo

de’ miei sogni l’orme / erranti dietro il giovanile incanto. // Oh, quel che amai, quel

che sognai, fu in vano: / e sempre corsi, e mai non giunsi il fine: / e dimani cadrò.

Ma di lontano // pace dicono al cuor le tue collina / con le nebbie sfumanti e il

verde piano / ridente ne le piogge mattutine.

Se i professori facessero leggere Carducci secondo il metro della bellezza

delle rappresentazioni,della psicologia umana,della passione etico politica,evitando

di vivisezionarlo con posticce analisi linguistiche come vuole la stanca moda, il grande

poeta tornerebbe vivo e con lui la poesia in gran parte tramortita dalla scuola,dall’università e dai

critici accademici.

Ernesto Paolozzi