Croce, il marxismo e la complessità

Marx è, a pieno titolo, un autore di Croce. Come sempre accade per il filosofo italiano,è egli stesso la fonte privilegiata per l’ interprete che non voglia saltare a piè pari i testi e sbizzarrirsi in fantasiose interpretazioni. Basta leggere le varie prefazioni succedutesi, fino al 1941, alle riedizioni del volume Materialismo storico ed economia marxistica che raccoglie i saggi fondamentali scritti dal filosofo dal 1895 al 1900. In più, Croce pubblicò, in appendice al citato volume, “come utile commento e schiarimento”, un saggio che offre lettere e ricordi personali del tempo in cui la parte sostanziale di questo libro fu composta e pubblicata, cioè fra il 1895 e il 1900. Si tratta del famoso, o famigerato, saggio del 1937: Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia.(32) Com’è facile comprendere, il titolo, più che il contenuto di questo scritto, generò, e continua a generare, false polemiche, quasi tutte sotto il segno della più assoluta banalità. “Ma come poteva Croce pensare, si urlava negli anni passati, si sussurra oggi, che il marxismo fosse morto se poi negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta è stato al centro della discussione mondiale?” E polemica simile suscitò uno scritto del 1911, quello, altrettanto noto, dal titolo La morte del socialismo (33). Ora, sia nell’uno che nell’altro caso, vi è un equivoco di fondo, perché per il primo si dimentica che Croce aggiungeva l’aggettivo teorico al marxismo e per il secondo che il filosofo si riferiva, appunto, al socialismo come dottrina, e non come grande movimento etico-politico. In tanti altri saggi, scritti giornalistici e risposte a varie obiezioni (34), l’antico allievo di Labriola teneva a precisare che nelle dichiarazioni di morte egli si riferiva, naturalmente, agli aspetti puramente filosofici, se non metafisici, del marxismo, o alle trasfigurazioni propagandistiche che di esso avevano compiuto i tanti epigoni. Tanto più che, com’è noto, Croce dissentiva da Labriola proprio sull’identificazione che il suo maestro aveva compiuto del marxismo con il socialismo. Per Croce, anzi, spogliato dalle vesti di stampo marxista, il socialismo poteva addirittura confluire nel liberal-socialismo (35)

Come è ovvio, alla polemica filosofica si intrecciava la polemica politica, come accadde, per non ricordare altri episodi, quando, dopo la morte di Gramsci e caduto il fascismo, cominciarono a circolare le Lettere dal carcere e gli scritti filosofici e politici del fondatore del Partito comunista italiano. Croce accolse con commozione le prime, riconoscendo, anzi ricordando a se stesso e agli altri, che la formazione culturale di Antonio Gramsci era quella comune alla grande tradizione italiana, per cui Gramsci, pur appartenendo ad una diversa parte politica, era sempre, come scrisse, “uno di noi” (36). Ma non poté esimersi dal rilevare quelli che riteneva i limiti teorici del “filosofo” Gramsci, del continuatore del marxismo teorico (37). Il fatto che, negli anni successivi, si siano riempite biblioteche di scritti sul marxismo, nulla toglie alla questione filosofica di fondo, giacché i concetti fondamentali quali quelli di lotta di classe, abolizione dello Stato, avvento del regno della libertà dopo quello della necessità, e perfino teorie strettamente economiche, come quella del plus-valore, non si sono dimostrati veri. E di quelli Croce aveva discusso. Certo, al marxismo d’inizio secolo, è seguita una letteratura vastissima la quale però, se ci è concesso dirlo, si è divisa fra un vero e proprio scolasticismo, di cui tutto sommato non tiene conto parlare, e prospettive completamente diverse, che del marxismo avevano soltanto l’impronta generale, l’idealità morale, la capacità politica.

Ma, tornando a Croce, com’è noto egli riconosce in Antonio Labriola, il fondatore del marxismo teorico in Italia, il suo unico e vero maestro (38). Precisa, nelle già citate prefazioni, ma lo si desume chiaramente anche dallo scambio epistolare fra i due studiosi, che egli non fu mai marxista, né, propriamente, comunista o socialista ma che, non per questo, avrebbe potuto negare che la lettura di Marx e dei saggi labriolani lo avevano infiammato di passione etica e politica e, soprattutto, gli avevano aperto la strada agli studi filosofici e storiografici dopo la stagione della erudizione e dell’aneddotica. E’ il periodo della formazione giovanile di Croce: fra i venti e i trent’anni egli legge le opere di Marx, dei maggiori studiosi dell’epoca, e si dedica addirittura agli studi di economia per meglio comprendere il senso dell’opera del grande rivoluzionario tedesco. In quegli anni si sedimenta l’amicizia con Georges Sorel (39) e, man mano che la notorietà di Croce cresce, le sue interpretazioni di Marx entrano a pieno titolo a far parte di quel grande dibattito filosofico e politico che passa sotto il nome di revisionismo ed ha come punto di riferimento Bernstein. Croce, come si è accennato, discute del presunto comunismo di Tommaso Campanella, come della teoria del valore-lavoro, della legge della caduta del saggio di profitto come della forma scientifica del materialismo storico.

Ma la presenza di Marx o del marxismo nella sua speculazione sarà costante, come quella dei suoi altri autori, Kant, Vico ed Hegel.

Accanto all’ analisi delle interpretazioni puramente e rigorosamente filosofiche, non si possono eludere, per comprendere fino in fondo il rapporto fra Croce e il marxismo, i momenti di intensa polemica giacché, com’è ovvio, la critica crociana al marxismo non poteva non impegnare la polemica ideologica e politica, quella alta come quella infima e perfino volgare. Ed è interessante anche perché, nel lungo percorso crociano talvolta la polemica si sviluppa contro i marxisti in nome dello stesso Marx, secondo Croce troppo spesso frainteso o strumentalizzato dai suoi stessi epigoni e seguaci. Significativo è quanto lo stesso Croce scrive, ricordando la rabbia e l’irritazione che provava ancora Labriola, sino allo spasimo e ad un esagerato pessimismo, nei confronti di quanti acquistavano falsa autorità e falsa reputazione fra gli interpreti di Marx. Ma l’irritazione doveva essere anche di Croce se in fondo egli, quasi a giustificare il suo maestro, abilmente dissimulando, scriveva: “Se nel modo di questa polemica per la verità e la serietà contro l’ignoranza e la ciarlataneria c’era un’eccessiva irritabilità e stizzosità (Labriola), una deficienza del flegma filosofico necessario a riconoscere l’eterna necessità dell’ignoranza e della ciarlataneria e dell’utile ufficio che gli imbecilli esercitano nel mondo (e che solo essi sanno esercitare); un non saper discernere quando bisogna partire in battaglia e quando scrollare le spalle, disprezzare o sorridere: – in un’altra parte del contrasto del Labriola contro il socialismo viveva un nobile motivo, ereditato dal sentimento italiano del Risorgimento…” (40)

Ma le punte polemiche, o satiriche, veramente non si contano nella vasta opera di Croce e, ancora, basterebbe ricordare le pungenti ironie nei confronti delle estetiche marxiste, dello Stalin filosofo del linguaggio o della filosofia “economizzata”, e così via. Come non si contano, d’altro canto, altrettanti episodi di difesa della tradizione del marxismo nei confronti di critiche sciocche o pregiudiziali o, peggio ancora, nei confronti di quegli attacchi mossi dai fascisti, dai nazisti e dai nemici della libertà. E’ noto che Croce si fece editore dei saggi di Labriola, a cominciare dal fondamentale In memoria del Manifesto, come noti sono il sostegno economico offerto all’ “Avanti” e la costante solidarietà espressa a tutti quei comunisti e socialisti per qualche motivo perseguitati o discriminati. Fu fra i meriti di Croce quello di aver contribuito a diffondere, nell’Italia di fine Ottocento, la versione più importante del marxismo. E forse proprio per questo fu più grande e sentita l’amarezza che il vecchio filosofo provò, una volta caduto il fascismo, a vedersi e sentirsi aspramente attaccato, perfino con violenza, dagli eredi di quel comunismo che egli aveva tanto studiato e sempre rispettato. Anche in questo caso basterebbe ricordare soltanto un episodio, quello grave, dell’attacco de “L’Unità” che voleva opporre alle “Armi della critica” di Croce, la “critica delle armi”.

Abbiamo brevemente ricordato questi episodi non solo perché costituiscono un aspetto significativo della biografia personale e pubblica di Croce ma perché servono a connotare una stagione importante e significativa della cultura italiana, e non solo italiana, dell’intero Novecento. Se, infatti, ci si prova a comprendere i motivi della impopolarità che segnò il destino del pensiero crociano nell’immediato secondo dopoguerra, e quello che può sembrare ad un lettore distaccato un incomprensibile astio polemico, non si può non tener conto di quel clima sistematicamente e scientemente alimentato dalle forze politiche organizzate della sinistra, che si spinsero a ordire quella che essi stessi denominarono la “congiura del silenzio” nei confronti dell’opera crociana.

Ma veniamo ora al punto fondamentale: all’interpretazione filosofica del pensiero di Marx. Sebbene a molti presunti studiosi quella di Croce sia sembrata una lettura, per così dire, chiara ma “lineare” dell’opera di Marx, a ben vedere essa è complessa e, potremmo dire, per certi aspetti perfino ambigua. Se da un lato, infatti, Croce imputa alla concezione materialistica della storia l’aver sostituito, all’hegeliana idea (41), la materia dei rapporti economici per spiegare lo svilupparsi stesso della storia, in altre occasioni, seguendo per la verità essenzialmente la lettura labriolana di Marx, egli sembra propendere, invece, a non considerare il marxismo una filosofia della storia, e, dunque, proprio per questa via, a giustificarne l’importanza e la grandezza.

Analogo discorso, com’è naturale, Croce svolge per quello che fu definito l’ “assolutizzamento del principio economico”, interpretazione, scrive, che Labriola riteneva balzana ma che tanta fortuna ebbe nel trasformarsi in quella rigida dialettica, fra struttura economica e sovrastrutture politiche, culturali, giuridiche, ideologiche, che determinò, paradossalmente, il successo del marxismo presso un largo pubblico di intellettuali. Infatti, ritenere che l’arte, ad esempio, sia espressione, e sia pure, come ritenevano Marx ed Engels, “in ultima istanza” della struttura economica, è un assurdo filosofico: è un riproporre un assoluto incondizionato, l’economia, che tutto condiziona. Ma, pure, questa teoria ebbe un grande successo fra il 1950 e i primi anni Settanta. Furono “riscoperte” le analisi marxiane, stilisticamente efficaci, dei volumi Zur Kritik der politischen Oekonomie e Die deutsche Ideologie e, ancora, dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, opera giovanile di Marx, in parte dedicata alla filosofia hegeliana che sembrava, dunque, conferire una maggiore consistenza teoretica al pensiero del filosofo di Treviri.

Non che sfuggisse a Marx come ad Engels, per tornare al nostro discorso, la difficoltà di collegare in modo deterministico la sovrastruttura estetica, l’arte, alla struttura economica. Tant’è, come è noto, che, a proposito dell’arte e dell’epos greco, si ammette che la difficoltà non consiste tanto nel ritrovare i legami con la società e la politica greca dell’epoca, ma nel fatto che quell’arte suscita ancora “un godimento estetico” e rappresenta pur sempre “una norma e un modello inarrivabili”. Ciò che è una felice contraddizione, un’ammissione, in fondo, ingenua quanto intellettualmente onesta, della incongruenza filosofica dell’assunto fondamentale. D’altro canto, e non è casuale, anche l’hegeliano De Sanctis, in qualche modo, si era imbattuto in un analogo problema, e la sua Storia della letteratura, i suoi saggi critici, sono infatti una ricca e complessa costruzione politica e civile, oltre che, com’è ovvio, degli acutissimi scritti di critica estetica. Non casuale, abbiamo detto, tant’è che l’interesse mostrato da Croce per Marx deriva, in parte, anche dalla sua consuetudine giovanile con i testi desanctisiani.

Un discorso simile potrebbe svolgersi per l’altra riduzione dialettica, ancora più rigida, della storia come storia di lotta di classi, della borghesia contro l’aristocrazia e poi del proletariato che, necessariamente nascendo dal seno steso dello sviluppo capitalistico borghese, sarebbe stata poi la sua distruzione attraverso la rivoluzione. Rivoluzione necessaria perché “scientificamente” dimostrata tale per la legge della storia stessa ma che, pure, aveva necessità di essere promossa dalla forte volontà morale e politica della classe operaia, la classe fondamentale, la quale, d’improvviso, diventava non una parte della storia ma quella classe comune che avrebbe garantito a tutti giustizia, uguaglianza, prosperità, libertà. Ferrea determinazione logico-deterministica ma di una falsa logica che conteneva però una grandiosa forza etico-politica: un’idea immaginativa capace di scuotere i popoli, di animare sentimenti e passioni, di promuovere, com’è ovvio, progresso e giustizia sociale e, purtroppo, come si è visto, anche nuove, profonde, tragiche, disuguaglianze. Con l’andar degli anni Croce ricorderà come proprio dalla commistione presente in Marx del ragionamento scientifico e dell’utopia morale, della logica hegeliana e del volontarismo politico, insomma, in una sorta di geniale miscuglio di filosofia, etica, politica, economia, si dovesse rintracciare uno dei motivi fondamentali del successo del marxismo. Marx, filosofo rigoroso e profeta, filosofo debole e agitatore politico, economista raffinato e giornalista agguerrito, sagace e fazioso, uomo di pensiero, capo di partito.

Cosa è allora la filosofia di Marx se non è una filosofia della storia, una metafisica dell’economia? E’ un buon canone di interpretazione storica. Non è, dunque, nella lettura di Croce, o non deve essere, una filosofia onnicomprensiva, che descrive e prescrive leggi in modo deterministico o, come potremmo dire con linguaggio moderno, riduzionista. E’ un pensiero della complessità, per continuare a civettare pure noi con il linguaggio dei sociologi di fine Novecento, che si offre come una possibilità interpretativa, come un fondamento che non presume di essere l’unico punto di vista col quale guardare la realtà e la storia. E qui veniamo al momento forse più interessante, per noi più contemporaneo, per usare un’espressione crociana: la valutazione di ciò che per Croce è vivo del marxismo, al di là delle interpretazioni puramente storiche. Ciò che del marxismo possiamo cogliere ancora oggi come ciò che è vero, operante, utile per la comprensione dei grandi movimenti storici, della nostra epoca come di quelle del passato.Il canone di interpretazione, il buon “paio di occhiali”, come anche si esprime Croce, per leggere gli avvenimenti della storia, riguarda essenzialmente l’aver messo nella giusta luce la positività della forza, dei rapporti di forza, nella costruzione della storia etico-politica dell’umanità (42).

Dai primi agli ultimi anni della sua lunga vita, Croce non mancherà di ricordare sempre il debito contratto con le giovanili letture di Marx. La scoperta dell’utile come valore spirituale, che il filosofo riterrà uno dei maggiori punti di merito della sua vita speculativa, si deve, appunto, all’originaria concezione marxiana per la quale i rapporti economici, le lotte fra le classi e i gruppi, l’urto degli interessi, non solo sono costitutivi della storicità stessa, ma non possono e non devono essere considerati soltanto come il momento negativo, come l’opera diabolica del male. A quegli sforzi, a quegli scontri, si accompagna la naturale propensione degli uomini a lottare per la giustizia, per la libertà, per la moralità. “E se ora ricerco, scrive Croce nel 1917, le cagioni oggettive dell’interessamento onde già fui preso pel marxismo e pel suo materialismo storico, vedo che ciò accadde perché attraverso quel sistema, io risentivo il fascino della grande filosofia storica del periodo romantico, e venivo come scoprendo un hegelismo assai più concreto e vivo di quello che ero solito d’incontrare presso scolari ed espositori, che riducevano Hegel a una sorta di teologo o di metafisico platonizzante. Nella concezione politica, continua Croce, il marxismo mi riportava alle migliori tradizioni della scienza politica italiana, mercé la ferma asserzione del principio della forza, della lotta, della potenza, e la satirica e caustica opposizione alle insipidezze giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, ai cosiddetti ideali dell’89.” (43)

E non è escluso che fra gli autori di Croce, accanto ai Vico e agli Hegel, vada aggiunto proprio Marx. Nella pagina citata Croce esprime la sua gratitudine e conclude con un’affermazione rimasta celebre: “E, scrive, oltre l’ ammirazione, gli serberemo, – noi che allora eravamo giovani, noi da lui ammaestrati, – altresì la nostra gratitudine, per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che mentiva le sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia e della Dea Umanità.”

E’ una dichiarazione, questa, inequivocabile, che non solo chiarisce il rapporto fra Croce e Marx, e sembra quasi voler ricordare ai marxisti posteriori quanto siano ingiuste le critiche mosse al “conservatore” Croce, ma palesa anche la posizione di Croce nei confronti dell’intera tradizione della filosofia politica e del diritto. Sappiamo anche che negli anni seguenti la critica all’Illuminismo, al giusnaturalismo, al giacobinismo, sarà, per alcuni aspetti, attenuata, e sappiamo che molti acuti interpreti di Croce, da Carlo Antoni a Raffaello Franchini a Girolamo Cotroneo, hanno riproposto il tema del diritto naturale in una versione storicistica rinnovata e ripensata (44). Ma non vi è dubbio che il vaccino marxista, per così dire, servì a Croce per indagare con intelligenza e spregiudicatezza quei motivi etici di cui è certamente costituita la nostra civiltà ma che, troppo spesso, si sono capovolti nel moralismo, nell’intellettualismo, creando danno almeno uguali a quelli che volevano combattere. Basti pensare a quello che potremmo definire il determinismo e riduzionismo etico, che si compie ciclicamente quando si collocano sullo stesso piano la moralità e la legalità, o quando si confonde il Diritto con la giustizia, con le tante possibili versioni della giustizia. La complessità della natura umana e della società che su di essa si edifica, complessità che si realizza nelle irripetibili personalità individuali e nella sempre nuova e originale storia, non consente di pensare le alcinesche seduzioni del Diritto come delle verità assolute, dei miti o degli idoli ai quali sacrificare la concreta realtà. Attraverso il marxismo si insinuava il dubbio che quelle verità enunciate nei cataloghi dei diritti, nei catechismi del popolo, nelle Carte delle libertà, nelle Costituzioni civili, non fossero verità assolute, sebbene sedimentazioni astratte del concreto dominio di una parte sull’altra, di alcuni su altri. La libertà borghese, le libertà formali, contro le quali ci si doveva battere per realizzare le libertà sostanziali, la giustizia sociale. Le stesse prerogative della democrazia, l’uguaglianza del popolo di fronte alla legge, e tutti gli altri concetti che pure avevano rappresentato un’immensa conquista nelle lotte rivoluzionarie del Settecento e dell’Ottocento, potevano tramutarsi, e spesso si tramutarono, in strumenti di oppressione. Si trattava dunque di sostituire al Diritto la lotta per il Diritto, alla democrazia la lotta per la democrazia, alla libertà astratta, la lotta per la libertà. E beneficiari di questi nuovi sentimenti, di questa nuova e rivoluzionaria visione delle cose dovevano essere i nuovi poveri, i diseredati, tutti coloro i quali ancora anelavano ad affermare i loro diritti di rappresentanza, di libertà, di giustizia.

Tutto ciò mostra chiaramente perché Croce ebbe a definire Marx il Machiavelli del proletariato. Definizione importante, che da sola sintetizza quanto abbiamo cercato di dire in queste pagine. Marx, come pure si esprimeva Croce, consegnò un libro ai lavoratori, ai socialisti, ai tanti di quelli che da anni e anni confusamente cercavano una soluzione alle tantissime aspirazioni di giustizia sociale, di uguaglianza politica, di solidarietà, di libertà. Nel vasto sistema elaborato da Marx, c’è spazio per la dialettica hegeliana, lo storicismo come elemento fondante di ogni indagine filosofica, per il realismo politico di Machiavelli e di Hobbes, per il millenarismo di origine ebraica. E, dunque, il realismo accanto all’utopia. Vi è l’analisi attenta dell’economia pura; si ripropone la teoria del valore lavoro di Ricardo ma in una versione che Croce definirà ellittica, nella quale si paragona una società esistente ad una società immaginata perfetta. Vi è lo storico aspramente satirico ed il profeta che indica la via per la realizzazione della morale universale, da perseguire, per intanto, anche con la forza e la violenza. In questa generale commistione di elementi contraddittori, la grande forza, e la grande debolezza di Karl Marx. E Croce, giovane lettore di De Sanctis, del grande critico politicamente appassionato, che mostrò all’Italia del Risorgimento come la critica estetica più pura dovesse sempre accompagnarsi alla critica civile, sociale e politica della storia, il Croce angustiato dalle banalità positivistiche, dalle astrattezze delle piccole scienze empiriche e delle tante sociologie d’accatto, il Croce stanco e quasi “vergognoso” delle sue origini di letterato aneddotico e filologista, non poteva non nutrire grande ammirazione ed essere attratto da quel filosofo-profeta che scuoteva dalle fondamenta un mondo troppo piccolo, borghese nel senso deteriore del termine. Ma lo spirito critico del filosofo abruzzese non poteva appagarsi di questi stati d’animo.

La critica al marxismo è una critica serrata, senza vie d’uscita. La versione che egli dà del marxismo, sia che lo interpreti, sia che lo critichi, è tesa a dimostrare che la filosofia di fondo del marxismo è una filosofia contraddittoria. Il tentativo stesso di unificare in un’unica visione del mondo la complessità e la ricchezza degli elementi etici, politici, filosofici e scientifici che ne costituiscono il quadro, era destinato al fallimento perché, paradossalmente, faceva sì che la concezione materialistica della storia diventasse un’onnicomprensiva, pericolosa, metafisica della storia stessa. Giova credere, per dirla con Croce, che la storia continui anche dopo che si sarà realizzata la società senza classi, il comunismo.

Non è un caso che la più recente sociologia, quella della complessità, sia nata proprio dalla crisi e dalla critica del neomarxismo, con un processo molto simile al percorso compiuto da Croce. Proprio perché nel marxismo convivono, contraddittoriamente, le due anime del riduzionismo e della complessità, della filosofia della storia e della filosofia dello storicismo assoluto, per ritornare alla terminologia crociana.

Non è qui il luogo per discutere delle tante escursioni crociane nell’ambito della storia del comunismo (45), ma basterebbe ritornare alle pagine della Storia d’Europa sulla rivoluzione russa, per comprendere quanto il giudizio di Croce sia sempre complesso, mai parziale o preconcetto. Raramente, in qualche noterella polemica, si può notare infatti, qualche eccesso peraltro comprensibile, data la durezza dello scontro politico allora in atto. Perfino l’opera di Lenin viene considerata per quella che è, nella sua grandiosità di opera di civilizzazione e progresso di un grande paese che, dal medioevo, rapidamente trapassava all’età moderna. Ma al tempo stesso Croce non dimentica di avvertire quanto brutale sia stata la dittatura comunista e di avvertire altresì (siamo nel ’32) quasi profeticamente,che il comunismo non riuscirà a comprimere la libertà che rinascerà, come dice, dalle viscere delle cose stesse. L’utopia comunista, come già le utopie liberali e democratiche del Settecento, nata dallo slancio etico di migliorare le condizioni dell’umanità intera, si capovolge nel più tragico e cupo totalitarismo. Sembra essere il destino dell’utopia: senza la quale è difficile che l’umanità compia veri e durevoli progressi ma che facilmente diviene strumento d’oppressione nelle mani di fanatici o di interessati opportunisti (46).