Esiste un’estetica della complessità? In senso stretto no, se ci si riferisce alla filosofia di Edgar Morin e, più in generale, a quel pensiero che caratterizza la più moderna epistemologia. Di spunti e riflessioni che riguardano il mondo dell’arte se ne trovano, viceversa, tantissimi, spesso arguti e originali. Basterebbero alcune riflessioni moriniane per rendersene conto.
“La partecipazione estetica si distingue dalle partecipazioni pratiche, tecniche, religiose, ecc., per quanto possa giustapporvisi (un’automobile può essere nello stesso tempo bella e utile, si può ammirare una statua o venerarla), e largamente si espande al di là di queste.
Nel rapporto estetico, coesiste una partecipazione intensa e distaccata, una doppia coscienza. Il lettore di un romanzo, lo spettatore di un film, entra in un universo immaginario che, di fatto, prende vita per lui: eppure, anche nel momento più alto della partecipazione, egli sa di leggere un romanzo o di vedere un film.” (Edgar Morin, Lo spirito del tempo, 1962)
Echi, diretti o indiretti, del pensiero aristotelico circa il valore catartico e, dunque, rappresentativo dell’arte non mancano, così come il lettore esperto di filosofia non potrà non ricordare le classiche distinzioni operate da Croce. Morin inoltre intreccia il discorso sulla poesia con quello del mito, vichianamente sempre tenendo fermo che l’arte e la poesia hanno uno spazio autonomo.
Edgar Morin non si è preoccupato però di coordinare, per così dire, questa e tante altre intuizioni in una più ampia cornice. Da qui qualche possibile equivoco. La complessità dell’arte che giustifica, di conseguenza, un’estetica della complessità non può, ad esempio, fondarsi su un elemento quantitativo, come interpreti un po’ superficiali hanno inteso. Si cadrebbe, involontariamente, in una forma di riduzionismo e perfino di banalizzazione.
I Promessi Sposi come qualsiasi altro romanzo, ad esempio, non è un’opera complessa rispetto ad uno scarno sonetto di Foscolo. La vastissima, sterminata opera di Balzac non è, di per sé, più complessa della poesia baudelairiana. Complessità, in questo senso, vorrebbe alludere ad una maggiore capacità di interpretazione della storia, una maggiore aderenza alle vaste problematiche dell’umanità, ma non alla poesia in senso stretto.
Se con complessità invece alludiamo alla capacità che ha l’arte, nella sua funzione essenziale, di conoscere il mondo, la nostra vita, per alcuni aspetti e valori che né la scienza né la filosofia sono in grado di cogliere, allora dobbiamo riconsiderare il concetto stesso di complessità che intendiamo proporre. Possiamo infatti tranquillamente leggere un romanzo di migliaia di pagine, pieno di notizie e fatti, non privo di considerazioni filosofiche e scientifiche di assoluta rilevanza e scoprirlo, in ultima analisi, completamente privo di poesia, di arte, di capacità espressiva e rappresentativa. Per la complessità dell’intreccio qualsiasi moderna soap opera vincerebbe il confronto con Omero, Cervantes, Joyce.
Per potere dunque ricostruire anche nell’ambito della filosofia dell’arte una dimensione non riduzionista, non banalmente lineare o, come diremmo nella tradizione della filosofia classica, puramente razionalistica, bisogna cercare di intendere qual è la sua specificità, la sua autonoma ricchezza, la sua particolare capacità conoscitiva ed espressiva. Perché l’arte, come tutti in fondo sanno, non è una filosofia, anche se ha a che fare con la filosofia; non è la moralità, anche se con la moralità si confronta; non è nemmeno un puro sfogo di sentimenti e passioni e, meno che mai, un puro gioco di immaginazione teso a rendere la vita piacevole.
La radice filosofica della complessità dell’arte è nella sua capacità di conoscere la vita come nessun’altra funzione umana può; cogliere la particolarità, l’individualità, il sentimento, le passioni, in modo da renderle universali senza, però, ridurle ad un universale astratto. Tutti apparteniamo al genere umano come ci mostrano le scienze e tutti, in qualche modo, siamo Don Chisciotte, come ci mostra la poesia, unicamente la poesia.
Varie volte nella storia, e nel nostro secolo abbondantemente, si è cercato di ridurre l’arte a schema, a razionalità astratta, allontanando da essa migliaia di giovani costretti, da una scuola pedante ed ottusa, a studiare l’arte con gli stessi metodi con cui s’impara il codice della strada.
La poesia autentica, naturalmente, si sottrae a ciò e si vendica di tutti quegli schemi, di tutte quelle astrazioni, di quella sorta di vivisezione che professori, più o meno eruditi, più o meno in buona fede, esercitano spegnendone la vita.
In questa prospettiva l’Italia ha una sua tradizione filosofica certamente rilevante, originale, che torna di attualità ogni qual volta l’arte viene mortificata dai riduzionisti di ora e di sempre.
In questo senso il filosofo che più degli altri ha impresso una svolta negli studi sull’estetica è certamente Giambattista Vico. Non che, naturalmente, nella filosofia antica e medioevale non fossero presenti argute riflessioni e profondi concetti. Basti pensare ad Aristotele che percepisce l’universalità della poesia e la sua capacità di trasfigurare i sentimenti vissuti materialmente in sentimenti vissuti, per così dire, conoscitivamente: la catarsi. Non l’Aristotele, che pure ebbe tanto successo, della catalogazione astratta della poesia in arti e in generi.
Ma torniamo a Vico. Il grande filosofo de La Scienza nuova avverte con chiarezza come l’arte rappresenti un momento essenziale della vita. Essenziale quanto il linguaggio stesso dell’uomo, fonte, a suo modo, di conoscenza. Conoscenza di quel mondo complesso e irriducibile che è la fantasia umana, da non confondere col mero gioco dell’immaginazione. Tanto è che, sia pure in un senso che oggi non possiamo pienamente condividere, egli attribuisce all’umanità nascente, all’umanità fanciulla, il primato della sapienza poetica. Scrive infatti ne La Scienza Nuova: “La sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata, quale dovett’essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio, e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie. Questa, continua Vico, fu la loro propria poesia, la qual in essi fu una facultà a loro connaturale (perch’erano di tali sensi e di si’ fatte fantasie naturalmente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di meraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano. (…) In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente gener umano, dalla loro idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal creare che fa Iddio.”
Ma il geniale filosofo chiarisce la sua posizione, che pure presenta oscillazioni e incertezze, qualificando la funzione specifica dell’arte rispetto alla filosofia. Recita una celebre Degnità: “Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura. – Questa Degnità è il principio delle sentenze poetiche, che sono formate con sensi di passioni e di affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocinii; onde queste più s’appressano al vero quanto più si innalzano agli universali, e quelle sono più certe quanto più s’appropriano a’particolari.”
La filosofia vichiana, che Edgar Morin ha considerato la prima compiuta filosofia della complessità, una meditata e arguta presa di distanza dal pensiero “lineare” dei pensatori cartesiani più che dello stesso Cartesio, ebbe relativa fortuna nell’illuminista Settecento. Ricomparve, sia pure fra molte incomprensioni, nell’Ottocento romantico, il secolo che recupera ed esalta il senso della storia e promuove una concezione della vita nella quale l’arte acquista una rilevanza assoluta. Già in Kant, nel Kant della Critica del Giudizio, il bello acquista un valore “conoscitivo” e si affianca alla conoscenza squisitamente filosofica della Ragione pura. E prima di lui Baumgarten aveva, com’è noto, riconsiderato l’arte dal punto di vista di una conoscenza specifica, in parte distinta da quella razionale il che gli valse bene a ragione il riconoscimento, assieme a Vico, di fondatore dell’estetica moderna. E’ il filosofo tedesco a pronunciare il termine estetica nel senso in cui ancor oggi lo intendiamo, ossia come filosofia, o scienza, del bello, dell’arte.
La tradizione vichiana rivive in Italia soprattutto ad opera di Francesco De Sanctis prima e di Croce poi. E’ il grande critico irpino, forse, il pensatore che più degli altri esprime il passaggio dall’età tardo romantica a quella del positivismo riduzionistico. Colui che assume su se stesso le contraddizioni dell’epoca e, pur rimanendo nell’orizzonte dell’hegelismo prima e del realismo poi, interpreta una nuova concezione dell’arte come autonoma, libera dai vincoli della ragione come da quelli della morale e della tecnica.
Con Croce tutta questa vasta e complessa materia assume una caratterizzazione filosofica in senso ampio e compiuto. Riflettiamo, intanto, su come il filosofo ricostruisce questa storia e come, per dirla con Borges, crea i suoi predecessori nel solco dell’affermazione di una teoria dell’arte antiriduzionista. Così connota, nella Logica, la rivoluzione compiuta da Kant: “Ciò nonostante il critico della ragion pura è l’inconsapevole promotore della nuova Logica della storia, alla quale dà il rinnovato concetto del giudizio e, con la sintesi a priori, l’identità di filosofia e storia. Perché la rivoluzione logica da lui compiuta s’assomma tutta nel pensiero che conoscere non è pensare astrattamente il concetto, ma pensare il concetto nell’intuizione, e che perciò pensare è giudicare. La teoria del giudizio prende così il posto di quella del concetto, ed è la teoria stessa del concetto in quanto si fa concetto nel giudizio.”
E’ appena il caso di ricordare che qui, per giudizio, non s’intende il giudizio morale o, almeno, non solo esso ma il giudizio in generale come forma della conoscenza, come sintesi di universale e particolare nel divenire della storia. Non solo, ma il Kant della Critica del Giudizio opererà un ulteriore passo in avanti considerando la funzione conoscitiva del giudizio di gusto.
Ma è a Giambattista Vico il filosofo al quale Croce si richiama con maggiore insistenza. La lunga citazione che riportiamo si rende necessaria per comprendere la portata dell’interpretazione crociana. Scrive nel classico, La filosofia di G.B.Vico, del 1912: “L’Estetica è da considerare veramente una scoperta del Vico. Sia pure con le riserve onde s’intendono sempre circondare tutte le determinazioni di scoperte e di scopritori, e quantunque egli non la trattasse in un libro speciale, né le desse il nome fortunato col quale doveva battezzarla, qualche decennio più tardi, il Baumgarten (…). Ma, in fondo, il nome importa poco, e assai importa la cosa; e la cosa è che il Vico espose un’idea della poesia, che era a quei tempi, e doveva rimanere per un pezzo ancora, un’ardita e rivoluzionaria novità. Persisteva, ricorda il filosofo, allora la vecchia idea prati cistica o pedagogica, che dalla tarda antichità, attraverso il Medioevo, s’era trapiantata e radicata nel Rinascimento, della poesia come ingegnoso rivestimento popolare di sublimi concetti filosofici e teologici; e, accanto a questo, sebbene in grado minore, l’altra che la considerava come prodotto o strumento di svago e di voluttà.”
Ma torniamo a Croce. Non staremo qui a ripetere i passaggi che, dalla prima Estetica del Novecento fino agli ultimi scritti, compiono il lungo percorso crociano. Ci preme mettere in luce l’elemento essenziale, ossia la cifra antipositivistica e antidecadentistica del pensiero del grande filosofo che, ben a ragione, può collocarsi come un filosofo della complessità, giusta l’interpretazione datane da Giuseppe Gembillo nel volume Benedetto Croce filosofo della complessità (2006)
Scrive Croce nel Contributo alla critica di me stesso: “Ma fu nell’aspro travaglio che, come ho detto, mi costo l’Estetica che io superai per me e da me il naturaslimo e lo herbartismo, che ancora mi legavano: Superai, cioè, la logica naturalistica mercé quella dei gradi spirituali o dello sviluppo, non riuscendomi in altro modo di intendere il rapporto di parola e logicità, di fantasia e intelletto, di utilità e moralità; e superai la trascendenza naturalistica attraverso la critica che venni irresistibilmente compiendo dei generi letterari, della grammatica, delle arti particolari, delle forme rettoriche, toccando, quasi con mano come nello schietto mondo spirituale dell’arte si introduca la ‘natura’, costruzione dello spirito stesso dell’uomo; e, negata realtà alla natura nell’arte, mi spianai la strada a negargliela dappertutto, scoprendola dappertutto non come realtà, ma come prodotto dello spirito astraente.”
Naturalmente Croce non nega, come solo qualche banale interprete ha potuto considerare, la natura della natura, ossia l’esistenza concreta, per così dire, della naturalità come parte essenziale e vivente dell’uomo e della storia. Nega che i procedimenti naturalistici, lineari o riduzionisti, deterministici o meccanicistici possano essere la guida per comprendere l’arte, la vera natura dell’arte, se così possiamo esprimerci. Sono, quelli naturalistici o filologici in ambito critico, materia necessaria e forse preparatoria del giudizio estetico. Ma il giudizio è altra cosa e riguarda, naturalmente, il proprio dell’arte, che è la bellezza. E la bellezza, a sua volta, come Croce dimostrerà in centinaia di pagine, non è da considerarsi un orpello o un mero gioco dell’immaginazione, ma è la fantasia nel senso nuovo, vichiano e baumgartiano e, per certi aspetti kantiano, di cui abbiamo accennato. L’arte è una forma della conoscenza che non si oppone ma si accompagna a quella della filosofia. Non è né meno né più rigorosa di questa.
Anche se la rappresentazione artistica, nel dare forma al caos, nel dare sostanza unificante all’infinita molteplicità dei sentimenti, opera dunque una riduzione del flusso reale, dell’Erlebinis, in una precisa rappresentazione individuale. Essa è una forma di conoscenza complessa perché irrompe nella generalizzazione astratta tipica di alcune forme della scienza. Pur essendo, dunque, conoscenza dell’individuale, l’arte conosce gli aspetti complessi dell’individualità stessa.
Ecco come Edgar Morin, nel volume del Metodo dedicato all’etica, individua la capacità dell’arte di comprendere, e rappresentare, la complessità della vita: “Comprendiamo che il Padrino del film di Coppola non è solamente un capo mafioso, ma un padre, animato da sentimenti affettuosi per i suoi. Proviamo della compassione per i carcerati mentre, fuori dal cinema, non vediamo in loro che dei criminali giustamente puniti. La letteratura, il romanzo ci permettono di comprendere Jean Valjean e Raskolnikov perché sono descritti nel contesto delle loro esistenze, con le loro soggettività,con i loro sentimenti. E’questa comprensione così viva nella vita immaginaria, che ci manca nella vita della veglia(…). Ci manca nel mondo dell’informazione mediatica nel quale,come lo immagina Alain de Botton,i titoli di giornale direbbero di Otello:”un immigrato folle di gelosia uccide la figlia di un senatore”, di Edipo Re:”Monarca implicato in una scabrosa storia di incesto”, di Madame Bovary:”Una donna adultera, compratrice compulsiva, beve l’arsenico dopo essersi fortemente indebitata”. La comprensione complessa non è, che effimera e limitata.”
Insomma accanto all’uomo in generale l’arte colloca questo o quell’uomo particolare, e tutto il suo mondo; accanto al concetto filosofico di morte, accanto alla descrizione scientifica dell’evento morte, l’arte rappresenta questa o quella morte ed ha, se così potessimo esprimerci, pari dignità conoscitiva.
Ma meglio di noi Croce nell’incipit della classica Estetica:”La conoscenza umana ha due forme: o è conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti.
Continuamente, precisa il filosofo, si fa appello, nella vita ordinaria, alla conoscenza intuitiva. Si dice che di certe verità non si possono dare definizione; che non si dimostrano per sillogismi; che conviene apprenderle intuitivamente. Il politico rimprovera l’astratto ragionatore, che non ha l’intuizione viva delle condizioni di fatto; il pedagogista batte sulla necessità di svolgere anzitutto nell’educando la facoltà intuitiva; il critico si tiene a onore di mettere da parte, innanzi a un’opera artistica, le teoriche e le astrazioni e di giudicarla intuendola direttamente; l’uomo pratico, infine, professa di vivere di intuizioni più che di ragionamenti.”
Si chiede dunque Croce, perché mai soltanto in filosofia, nella logica, l’intuizione non trova spazio? Perché mai l’intuizione è cieca e l’intelletto deve prestarle gli occhi? E scrive: “Ora, il primo punto che bisogna fissare bene in mente è che la conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui, perché ne ha in fronte di suoi propri, validissimi. Senza dubbio in molte intuizioni si possono trovar mescolati concetti. Ma, in molte altre non è traccia di simile miscuglio; il che prova che esso non è necessario.”
L’arte, come forma essenziale della conoscenza, non inferiore né superiore alla filosofia o alla scienza, ma da esse distinta e ad esse complementare: questo concetto rappresenta una fondamentale acquisizione della contemporaneità.
Il pensiero della complessità vive due volte in questa concezione. Perché in sede estetica pensa l’arte come essenziale conoscenza intuitiva della realtà nei suoi aspetti individuali, conoscenza non riducibile al solo empirismo delle cosiddette sensazioni né ricostruibile sotto forma di esperimento, mentre in sede logica mostra come, nell’ambito generale della conoscenza, non tutto si può ridurre a filosofia, a metafisica, a scienza, né tutto si può ridurre a pensiero pratico. Il che, peraltro, sarebbe una palese contraddizione o un semplice modo di dire sbrigativo per alludere alla filosofia della pratica.
Non sfuggirà al lettore acuto, che questa liberazione dell’arte dagli schemi astratti della retorica di ieri e di oggi, è parte di una più larga filosofia della liberazione, di un pensiero complesso, infinito come infinita è la lotta, sul terreno dell’etica e della politica, per la libertà.