Per Einaudi il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro.
“Giova l’industria in quanto cresce la massa di cose utili apprestate all’uomo; non giova in quanto la cresce inutilmente, inspirando l’amore del lavoro per il lavoro, provocando l’affanno di salire e crescendo il travaglio dell’uomo. L’antica sobrietà di desideri, il lavoro compiuto allo scopo di rendere la vita più bella dovrebbe rimanere in onore. Il problema sociale più urgente non è di crescere la ricchezza dell’uomo, ma di fargli sentire perché egli lavori e produca.”
E’ un Rifkin tradotto in un italiano un po’ desueto, è un epigono francese della scuola sociologica degli anni Settanta, un no-global improvvisamente diventato raffinato e colto nello stile? No. E’ il grande Presidente, e grande economista liberale, Luigi Einaudi. Ma non solo questo stupisce. A chi si riferisce, infatti, l’economista liberista? Nientemeno che ai napoletani, e ai napoletani nella raffigurazione di Wolfango Goethe nel lontano 1787.
Einaudi, siamo nel 1918, recensisce la bellissima e sobria traduzione di Giustino Fortunato delle “Lettere da Napoli” del grande poeta tedesco.
Goethe aveva letto, nelle guide, che vi erano in Napoli un trenta o quarantamila oziosi. Quando visitò la grande città meridionale, dubitò “che l’affermazione potesse confarsi a quanto si pensa nel settentrione”.
“La conclusione del Goethe, scrive Einaudi, è contraria all’impressione volgare.” Secondo Goethe, consenziente Einaudi, si può forse sostenere il paradosso che c’è più industria a Napoli fra la classe popolare che in altri luoghi. Perché, dunque, si ha l’impressione esattamente contraria? Perché, afferma il grande poeta, ” trovo in questo popolo la più viva ed ingenua industria, non per arricchire, ma per vivere scevro di pensieri.”
Così Einaudi conclude la sua recensione:
“Forse i merciaiuoli, gli ortolani, i pescatori osservati da Goethe sentivano, più degli operai d’oggi degli stabilimenti dell’Ilva a Pozzuoli, la bellezza del lavoro compiuto. Occorre non buttar via le macchine, ma rendere bella e desiderabile la vita di coloro che governano le macchine.”
Ricordare questi passi di Einaudi mi è sembrato il miglior modo di rendergli omaggio a quarant’anni dalla morte.
Pur essendo, devo ammetterlo, meno ottimista del poeta del Faust e del grande liberale torinese circa l’industriosità delle nostre plebi e dei lazzaroni arricchiti che oggi circolano in potenti autovetture, devo anche ammettere che le loro impressioni non possono non fare piacere a tutti i napoletani. Ma ciò che veramente sorprende, e rivela tutta l’attualità delle intuizioni del primo e delle riflessioni del secondo, è la capacità di comprendere che il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro. Ciò che su questo giornale ha cercato di dire Giugni, forse fra lo scandalo dei più.
La verità è che per Einaudi, in ciò pienamente concorde con Croce, col quale la nota polemica in gran parte si risolse, il liberalismo ha un senso solo se è liberalismo morale e, quindi, l’economia libera di mercato e il libero lavoro hanno senso perché possono e devono contribuire a produrre uno Stato migliore, una condizione generale etica, politica, giuridica e sociale di progresso. Così Einaudi ammirava l’intervento dello Stato operato da Cavour, il primo grande liberale italiano che condusse il Piemonte a diventare una grande nazione, perciò Einaudi difendeva Smith dalle interpretazioni dei liberali volgari che pensavano che il moralista, prima che economista, scozzese ritenesse che la ricchezza delle nazioni si esaurisse nel progresso economico.
Nel 1947, come Ministro del Bilancio, affermava nell’Assemblea Costituente:
“Spesso nella stampa e anche in questa Assemblea sono designato come il prototipo dei liberisti (…) ma ogni qual volta io qui a Roma passo dinanzi alla chiesa di San Luigi dei francesi e ricordo che in quella chiesa è sepolto colui che fu considerato nel secolo scorso come il massimo esponente del liberismo mondiale, l’economista Federico Bastiat, mi vien fatto di pensare che se egli vivesse oggi si meraviglierebbe che ai liberisti si attribuiscano idee che non hanno mai avuto, come se essi per definizione negassero qualunque azione dello Stato, negassero qualunque vincolo, qualunque norma legislativa che venisse a regolare in un senso o nell’altro l’economia privata.”
A testimonianza di quanto Einaudi fosse lontano dai cosiddetti liberisti di oggi, presenti a destra come perfino nella sinistra, vogliamo ricordare quanto lungimirante fosse la sua difesa dell’ambiente nei lontani anni Cinquanta, quanto preoccupata del bene pubblico, quanto poco incline a confortare e assecondare gli interessi privati.
“Pare, scrive, che sia tecnicamente possibile far rimangiare il fumo a chi lo produce. Costa; e perciò acciaierie e cementerie preferiscono non pagare il costo ed accollarlo al pubblico, ossia agli innocenti. (…) In tutta Italia e non solo nel golfo di Napoli dev’essere reputato fatto illecito quello di attentare alla pubblica salute ed alla pubblica felicità solo per tenere basso il prezzo dell’acciaio, del cemento, dei mattoni, e di tutti i beni materiali produttori di polvere e di fumo.”
Come è evidente, Einaudi si riferisce proprio a Napoli. A quella Bagnoli che ancora oggi per noi costituisce un problema politico, per la quale solo oggi ci si avvia, forse, sulla strada di quello che un po’ retoricamente definiamo lo sviluppo sostenibile.
Ernesto Paolozzi
Da “Corriere economia” del 26 novembre 2001