Lessico crociano. Un breviario filosofico-politico per il futuro,  a cura di Rosalia Peluso  (La scuola di Pitagora, 2016)

Con lo svolgimento della filosofia dell’arte inizia la maturità filosofica del pensiero crociano e, potremmo dire, si compie la svolta decisiva per la filosofia italiana verso un pensiero critico che, pur ricollegandosi alle grandi filosofie classiche, si inoltrerà sul terreno della piena modernità. L’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, nota poi col titolo di Estetica o di  grande estetica, è l’opera che guadagnerà a Croce fama internazionale e che, ancor oggi a più di un secolo dalla sua edizione, è forse il più popolare dei suoi libri, almeno fuori dall’Italia. La filosofia dell’arte del filosofo italiano  rappresentò, per tanti aspetti, uno degli esempi più vivi ed evidenti della rottura che, in quel tempo, andava compiendosi in tutta Europa fra mentalità positivistica e rinnovata affermazione della filosofia critica, nell’arte, nella storiografia, nella mentalità appunto, tipica del Novecento. Ma, a pensarci ancora meglio, l’estetica crociana si contrapponeva, oggettivamente, ad antiche e radicate concezioni, che non è possibile identificare in una sola ideologia. L’idea che l’arte fosse un’autonoma forma della conoscenza, fondata sull’intuizione la quale, se non è puramente razionale non è nemmeno mistica, ed è comunque indipendente (kantianamente disinteressata) da tutte le altre funzioni della storia pur essendo nella storia ovviamente radicata, metteva decisamente in discussione in un solo momento gran parte delle consuetudini tradizionali tipiche del tessuto culturale e delle istituzioni letterarie del nostro paese. Metteva in discussione, infatti, la concezione cattolica della derivazione morale dell’arte; la concezione intellettualistica secondo la quale l’arte è un rivestimento del vero; la concezione scientista secondo la quale l’arte è subordinata a criteri empirici o sperimentali; la tradizione marxista secondo la quale l’arte è il “portato” sovrastrutturale di strutture economiche e politiche; la concezione, di derivazione romantica per cui l’arte è puro sentimento, è indicibile e ineffabile espressione del genio, di sensibilità particolari ed eccezionali; le teorie tipiche dei letterati e di molti critici e professori, per cui l’arte si riduceva a pura filologia, ad asettica analisi del testo. L’Estetica, dunque, si può ritenere una pietra miliare della storia della filosofia del Novecento e della storia dell’estetica in generale.  Essa contiene in germe l’intero pensiero crociano e riassume i termini del serrato confronto con le correnti filosofiche del tempo. Di entrambe le questioni dà conto lo stesso Croce, sempre incline a storicizzarsi, nella Prefazione alla quinta edizione del 15 settembre 1921. Scrive infatti:

Il nerbo di questa prima trattazione consisteva nella critica, da una parte, dell’Estetica fisiologica, psicologica e naturalistica in tutte le sue forme, e dall’altra, dell’estetica metafisica, con la conseguente distruzione dei falsi concetti, da essa foggiati o avvalorati, nella teoria e nella critica dell’arte, contro i quali faceva trionfare il semplice concetto che l’arte è espressione, espressione, beninteso, non già immediata e pratica, ma teoretica, ossia intuizione. (…) e i due principali svolgimenti che ne ho dati sono: 1) la dimostrazione del carattere lirico dell’intuizione pura (1908); e 2)la dimostrazione del suo carattere universale o cosmico (1918). Si potrebbe dire che il primo si rivolge contro ogni sorta di falsa arte, imitazionistica o relistica, e il secondo contro una non meno falsa arte di sfrenata effusione passionale o “romantica” che si dica[1].

La rappresentazione come fondamento del conoscere

     Non si può conoscere alcunché nel senso comune dell’espressione, se prima non lo si è rappresentato, almeno a se stessi: e la rappresentazione è sempre individuale. Il concetto empirico di uomo, o il concetto filosofico di bene, fondano la loro stessa esistenza logica sempre sulla base di una rappresentazione di un individuo concreto, di un’azione etica realmente operante. La rappresentazione primaria della realtà è, dunque, individualizzante, ed è, nella terminologia crociana, estetica: l’arte.

 Estetica, quindi, come scienza dell’espressione, non solo come scienza dell’esteriorità (in senso kantiano) ma anche, baumgartianamente, come scienza della nostra interiore sensibilità e, perciò, come filosofia dell’arte. Il problema così posto è dunque problema filosofico generale, che impegna l’intera visione del mondo.   La conoscenza ha origine nell’intuizione e questa è la forma della conoscenza dell’individuale. Innanzitutto ci rappresentiamo il mondo, la “realtà” che ci circonda, poi ne intendiamo le relazioni e i nessi che tengono insieme l’unitario (universale) tessuto delle nostre esperienze. Ciò che vediamo, sentiamo, percepiamo in quella che Croce definisce anche forma aurorale (ossia iniziale) della conoscenza sono le immagini o rappresentazioni di avvenimenti particolari: il volto di una donna interessante, quella curiosa di un bambino di fronte ad un oggetto nuovo, la monotonia di un interno borghese, una nostra certa espressione in un dato momento della nostra esistenza, e così via. Ciò significa  che il ruolo dell’arte nel complesso tessuto della vita è riconoscibile soltanto mediante la logica dell’unità e della distinzione, ossia soltanto in relazione a tutte le sfere o funzioni di cui si compone la nostra esistenza. Cosa significa, ad esempio, conoscere la propria morte? La si può sperimentare ma, come è evidente, questa sperimentazione non ha nessuna forza conoscitiva, se non altro perché, quando si è sperimentata la morte non si può conoscere nient’ altro. Della morte si possono dare, naturalmente, definizioni empiriche di vario tipo e natura. Ma questo tipo di definizioni non colgono mai un’esperienza, un atto individuale di morte. Non è propriamente conoscere la morte di mia madre il definirla priva di vita, perché non batte più il cuore o perché manca attività cerebrale e così via. Si può ragionare del concetto di morte in senso generalissimo, cercando di definirne il senso nel contesto di ampie visioni del mondo, di religioni, di particolari sensibilità emotive. Si può dire che la vita è per la morte, che morire è passare a miglior vita, che oltre la vita non c’è nulla, che la morte dà un senso alla vita, e così via. Ma anche in questo caso, manca al concetto la rappresentazione individuale. Ora, se io dovessi trovarmi a descrivere la morte di mia madre dopo averla praticamente sperimentata, mi troverei nella condizione di dover ricorrere ad uno strumento diverso da quelli sin’ora elencati: non le descrizioni generalizzanti della scienza, non l’universalità del ragionamento filosofico, ma l’individuale rappresentazione di quell’irripetibile evento. È questo ciò che Croce chiama arte o intuizione pura, conferendo ad essa valore conoscitivo. Si comprende dunque che l’aggettivo “pura”, qui, non ha nessun significato morale, tanto meno ripete un timbro romantico. Pura significa libera, potremmo dire scevra da intenti estranei alla pura ed essenziale rappresentazione. Solo in un secondo, ideale, momento, definiamo ciò che intuiamo legandolo ad un concetto universale, qualificando ciò che rappresentiamo a noi stessi come un avvenimento pratico o teoretico, utile o dannoso, buono o cattivo, e così via. È inutile aggiungere che la schematizzazione o semplificazione qui proposta ha solo valore didascalico e divulgativo perché, sia nel pensiero di Croce, sia nella realtà (che è ciò che veramente importa) lo svilupparsi e il dipanarsi della coscienza avviene in modo molto più complesso.   In seguito Croce approfondirà il concetto di intuizione. Preciserà che il suo carattere precipuo è l’essere conoscenza del sentimento. Nel Breviario di estetica scrive che «ciò che dà coerenza e unità all’intuizione è il sentimento, e solo da esso  e sopra di esso può sorgere»[2]. Questo approfondimento volto a eliminare ogni residuo di meccanicità dell’intuizione intesa prima come mera conoscenza dell’individuale, dette luogo a numerosi equivoci. L’uso dell’aggettivo lirico, ad esempio, per designare la nuova natura dell’intuizione, sebbene Croce avvertisse che non si trattava altro che di un sinonimo dell’intuizione stessa, ingenerò il malinteso, non ancora del tutto chiarito, di un Croce neoromantico. In verità, il filosofo, fra le tante implicazioni possibili, intendeva precisare che la conoscenza intuitiva è sempre sentimentalmente atteggiata, ossia sempre un’espressione di uno stato d’animo interiore che investe il “contenuto” della conoscenza stessa: perché se così non fosse si ricadrebbe in una forma, sia pure scaltrita e moderna, di empirismo.  Un sentimento, infatti, una intuizione che non sia sentimento, intuizione di qualcosa, è una vuota astrazione: perciò Croce definirà, kantianamente, l’arte sintesi a priori lirica. Il sentimento, ovviamente, non è da intendersi qui come effusione emotiva di ordine meramente psicologico o, come direbbe Croce, pratico. È, leopardianamente, il sentimento contemplato non vissuto;  qualcosa di simile pur nella differenza dell’impianto generale all’Erlebnis husserliano, per riferirci  ad uno dei filoni  della filosofia contemporanea forgiatosi nella stessa temperie  culturale. Questo concetto verrà chiarito da Croce allorché parlerà di intuizione cosmica, nel saggio del 1918, Il carattere di totalità dell’espressione artistica e poi nell’ Aesthetica in nuce. Molti sono i significati  che si possono attribuire alla nuova definizione, e molte e controverse le varie interpretazioni. Qui basta riferirci alla distinzione fra sentimento pratico e sentimento conoscitivo, mediante il quale si conosce il mondo nei suoi aspetti individuali. E così si comprenderà anche perché pur essendo conoscenza dell’individuale, l’intuizione ha carattere universale ed è, perciò, comprensibile. 

L’universalità dell’arte

     Se l’arte è una forma della conoscenza autonoma, distinta dalle altre forme del conoscere e dell’agire, essa è universale. Questa affermazione potrebbe apparire ovvia, eppure non sono stati pochi i critici di Croce che hanno messo in dubbio il suo pensiero e, al tempo stesso, implicitamente o esplicitamente, la stessa idea di universalità in quanto concetto filosofico. Dove trae la sua origine questa controversia, soprattutto per quanto riguarda l’estetica? Non sempre o non solo da  puri equivoci. Se è un equivoco perfino banale quello secondo il quale Croce si sarebbe contraddetto nel sostenere assieme l’individualità e l’universalità dell’arte, è invece esperienza comune la difficoltà che s’incontra nell’intendere l’espressione artistica universalmente, ossia allo stesso modo di come si può intendere, poniamo, un teorema di geometria o un ragionamento di logica formale. Nel primo caso è evidente che Croce intendesse sostenere che l’arte, ma meglio diremmo l’intuizione come forma della conoscenza dell’individuale, è universale in quanto forma, in quanto funzione fondativa o fondamentale della vita stessa.  L’intuizione è, come si è detto, la funzione attraverso la quale tutti noi conosciamo il mondo nei suoi aspetti individuali, nella sua prima rappresentazione, ossia prima che sopraggiunga il giudizio critico che dei singoli individui spiega la ragion d’essere collocandoli in rapporto di relazione. Ciò che vale, naturalmente, per tutte le altre funzioni o, come avrebbe detto Croce, categorie. Quando un bambino enumera gli oggetti che gli si trovano davanti, oppure sceglie, per la sua utilità, di prenderne uno piuttosto che un altro, egli compie lo stesso tipo di gesto del matematico puro o dell’uomo politico alle prese, rispettivamente, con difficili calcoli o impegnative scelte di opportunità. Nel bambino il tutto avviene, o così a noi sembra, in modo semplice, spontaneo ma, nella sostanza, eguale. D’altro canto, se così non fosse, ci troveremmo, effettivamente, di fronte all’inspiegabile miracolo del salto improvviso che si compirebbe dall’età infantile all’età matura (e quando ciò avverrebbe? A dieci, diciotto, vent’un anni?), dall’individuo “normale”, per tornare alla nostra questione, al poeta, allo scienziato, all’uomo politico, e così via.  In realtà, afferma il filosofo, homo nascitur poeta, ossia tutti, proprio tutti, nascono poeti e, in certo qual modo, matematici, politici, e così via. E la differenza fra singoli individui consiste dunque nella complessità crescente, come si è visto, delle attività o funzioni messe in gioco nella vita concreta. Se così non fosse, vivremmo lo spettro dell’incomunicabilità. Se per incontrare una persona ad un appuntamento non potessimo utilizzare la descrizione individuale che qualcuno ne ha fatto, che non è scientifica, non è filosofica, non è morale, se non  potessimo intendere espressioni quali “ha il naso adunco”, “il corpo snello”, “i capelli biondi”, tutte espressioni rozze, elementari, intuitive, ci troveremmo in una condizione disperata, che potremmo definire di solipsismo estetico.  In ciò l’universalità dell’arte. Se ben si riflette, è, dunque, questa comune universalità della natura umana che consente e permette la comunicazione, la reciproca riconoscibilità. È ciò che ci permette di comprenderci nel comune uso del linguaggio stesso (e perciò, come si vedrà, l’arte è  per Croce il linguaggio senz’altro), ciò che ci consente di riconoscere la poesia degli antichi, la scienza, la matematica, la filosofia, le stesse azioni della prassi.

 La critica all’astrazione: la traduzione, i generi, la tecnica

     Dal quadro teorico fin qui tracciato discendono, quasi come corollari, molte dottrine particolari, spesso più note della stessa teoria generale crociana perché immediatamente efficaci sul piano dell’attività critica. Il che, in molte occasioni, in mancanza di una conoscenza del pensiero crociano ha indotto in equivoci.  Basti pensare alle discussioni attorno alla identificazione di contenuto e forma, peraltro già affermata da De Sanctis: identificazione logicamente inoppugnabile giacché,  fra contenuto e forma vige un rapporto di sintesi a priori, come si è già visto per la questione dell’identità di intuizione-espressione. Da ciò discende, ancora, l’impossibilità della perfetta traduzione, perché non è possibile “trasporre” un qualsiasi “contenuto” in altre forme espressive senza che, per ciò che si  è detto, quel contenuto non venga, almeno in parte, modificato. Non vi sono, come nell’immaginazione comune può apparire, da un lato immagini, rappresentazioni, forme, e dall’altro sentimenti, passioni, pensieri che possano essere fusi in un prima e in un poi e quasi sintetizzati come fossero elementi  fisici diversi. Semmai, se proprio volessimo insistere in una metafora, questi elementi apparentemente diversi reagiscono come elementi chimici, dando luogo in realtà ad un elemento nuovo, totalmente altro rispetto alle sue componenti originarie. D’altro canto, chiunque si sia provato, almeno una volta a tradurre una qualsiasi opera, piccola o grande che sia, avrà sperimentato la difficoltà e, alla fine l’impossibilità, di compiere una traduzione adeguata. La traduzione letterale, come a tutti è dato sperimentare, non rende giustizia sul piano estetico, mentre quelle originali e ben riuscite si allontanano, irrimediabilmente, dal testo originario.  L’impossibilità della traduzione non vuol dire, naturalmente, vietare le traduzioni. Tant’è che lo stesso Croce fu traduttore di poesie, ad esempio di Goethe, o di opere filosofiche, di Hegel, e di una complicata quanto importante versione dal napoletano seicentesco e barocco di Basile in italiano. L’opera del tradurre è  considerata dal filosofo importante e fondamentale perché essa, per così dire, tende a riprodurre l’originale e, in questa sua tensione, parzialmente l’adegua. Ma in punta di principio una traduzione perfetta non è possibile. Non può sfuggire, ancora, l’importanza della negazione dei generi  e della classificazioni delle arti, distinzioni empiriche, utili, pratiche ma inutili e spesso dannose se utilizzate come criterio di giudizio del valore dell’arte. È questo uno di quegli aspetti che più degli altri ha generato perplessità fra i critici. Quasi che Croce avesse voluto negare l’esistenza della suddivisione in musica, pittura, cinema, scultura, architettura o di poesia epica o lirica, teatro drammatico o comico, di romanzo storico o verista, fra astrattismo pittorico e pittura figurativa, e così via. Negazione che sarebbe impossibile, perché è a tutti evidente che esistono somiglianze sul piano tecnico, stilistico, di contenuto e di tanti altri accorgimenti con i quali si potrebbero riempire pagine e pagine. Ciò che invece il filosofo intendeva negare è la possibilità che in base all’astratta caratterizzazione di una di queste suddivisioni si giudicasse l’efficacia, il valore e, in ultima analisi, la bellezza di un’opera d’arte. Un giudizio dato in base all’aderenza più o meno riuscita alle regole astratte di un genere, è un giudizio extraestetico, per così dire, e vale forse la pena ricordare che questo metodo ha, nella storia di tutte le arti, mietuto vittime illustri, pari solo a quelle sacrificate alle censure moralistiche e ideologiche. E ciò, essenzialmente, per una questione di fondo: ogni opera è sempre un’opera individuale ed individua, è un prodotto creativo di un singolo individuo in un dato momento, irripetibile, della storia umana. E quell’opera, una volta concretizzata, si distacca dall’individuo stesso, “vive di vita propria” ed appartiene all’intera umanità per quello che è, nella sua concretezza. Forse, proprio in questo luogo, si coglie meglio la forza liberatrice dell’estetica crociana. Ciò non vuol dire, d’altro canto, che dei generi si possa fare a meno, non solo perché essi svolgono una inevitabile funzione didattico-didascalica, ma perché,  quelle astrazioni servono anche al critico per orientarsi sul piano storico e, in questo senso, e solo in questo senso, entrano a far parte del giudizio vero e proprio. Allo stesso modo è da intendersi la questione della tecnica la quale, certamente, accompagna l’attività artistica ma non può esaurire  per se stessa l’espressione artistica, che è sempre un atto creativo, un fare nuovo e originale. Se è fuori di dubbio che nessuna intuizione, anche la più elementare non può  non realizzarsi attraverso una specifica tecnica, non solo una complessa architettura o un lungo e articolato film ma anche due versi di una purissima lirica ermetica comporta la necessità di usare un linguaggio specifico. Questo è chiaro ed innegabile. E Croce non nega, come non negò, prima di lui, De Sanctis, la funzione necessaria dell’approfondimento tecnico per cui il poeta, l’artista, raramente intuiscono nel vuoto, in una sorta di romantica, mistica, illuminazione. Essi si calano nelle reali condizioni della loro vita e studiano le tecniche passate e presenti e, soprattutto, ne creano di nuove e originali. Ciò che conta però, ai fini del giudizio estetico, non è questo lavorio tecnico, che appartiene alla storia della cultura e della civiltà artistica e letteraria, ma è l’originalità e, dovremmo dire, l’originarietà della intenzionalità estetica. La prova, semplice, di quanto si sostiene è data dalla sperimentazione che tutti possiamo fare di apprendere una tecnica e non per questo riuscire “artisti”. Se non esiste l’arte senza tecnica, esiste la tecnica senza arte.

Identità di linguistica ed estetica

     L’arte è una in quanto è espressione e perciò Croce la identifica senz’altro con il linguaggio sin dal titolo della sua prima grande opera. Scrive, con estrema chiarezza, nelle Conclusioni della sua classica Estetica:

Ma quantunque l’Estetica, come scienza dell’espressione, sia stata studiata da noi sotto ogni aspetto, ci resta ancora da giustificare il sottotitolo di Linguistica generale, che abbiamo aggiunto al titolo del nostro libro; e porre e chiarire la tesi che la scienza dell’arte e quella del linguaggio, l’Estetica e la Linguistica, concepite come vere e proprie scienze, non sono già due cose distinte, ma una sola. Non che vi sia una Linguistica speciale; ma la ricercata scienza linguistica, Linguistica generale, in ciò che ha di riducibile a filosofica, non è se non Estetica. Chi lavora sulla Linguistica generale, ossia sulla Linguistica filosofica, lavora su problemi estetici, e all’inverso. Filosofia del linguaggio e filosofia dell’arte sono la stessa cosa[3].

 L’identificazione compiuta dal filosofo dell’espressione con il linguaggio, è di fondamentale importanza e rappresenta, per certi aspetti, una rivoluzione copernicana, sia nell’ambito strettamente filosofico che in quello delle discipline particolari.. Oltre a cercare di definire un concetto filosofico di fondo, il filosofo tendeva a superare le tante discussioni, di origine positivistica, tese a classificare meccanicamente il linguaggio. Croce intese  ricondurre al suo  giusto valore la funzione della grammatica, le dispute circa i rapporti fra lo studio grammaticale e la logica e  via via, le distinzioni fra lingue storicamente date e la congiunta ricerca di un modello linguistico universale. Ciò era possibile fare solo nel segno di una nuova concezione filosofica del linguaggio . Il linguaggio non è più inteso come una organizzazione meccanica o convenzionale di termini specifici, di singole parole, di astratte divisioni fra verbo e soggetto, fra proposizioni sintattiche di varia natura poi combinatesi in un unico atto linguistico. Al contrario esso è continua creazione. Afferma Croce:

ciò che viene espresso una volta con la parola non si ripete se non appunto come riproduzione del già prodotto; le sempre nuove impressioni danno luogo a mutamenti continui di suoni e di significati ossia a sempre nuove espressioni. Cercare la lingua modello è, dunque, cercare l’immobilità del moto. Ciascuno parla, e deve parlare, secondo gli echi che destano nella sua psiche, ossia secondo le sue impressioni.

E più avanti precisa:

Ricerca tanto assurda quanto è l’altra della lingua universale, di una lingua che abbia l’immobilità del concetto o, piuttosto, dell’astrazione. Il bisogno sociale del più facile intendersi non si soddisfa se non col diffondersi della cultura e col crescere delle comunicazioni e degli scambi intellettuali tra gli uomini[4].

Che Croce avesse ragione, lo sperimentiamo tutti i giorni quando vediamo tramontata l’esperienza della lingua universale, l’Esperanto, in parte sostituito dall’inglese e forse, un giorno, da una nuova lingua spontaneamente nata nella rete di Internet. Il linguaggio dunque, è espressione e, in quanto espressione è conoscenza e rappresentazione del mondo secondo il concetto estetico, ossia dell’arte, grande, piccola o infima che sia, espressioni di una condizione che si sviluppa nella libertà.  

Ernesto Paolozzi

                                       


[1] B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale,  Bari, Laterza, 1921

[2] B. Croce, Breviario di Estetica, Bari, Laterza,1913

           [3] B. Croce, Estetica,, cit., p.171.

           [4] B. Croce, Estetica, cit.,p.171.