Croce, il liberalismo, il metodo.

Per una serie di ragioni sono molto grata a Ernesto Paolozzi per avermi invitata a tenere una relazione nell’ambito di questo Convegno (“Benedetto Croce, il liberalismo, il metodo” presso la Fondazione Luigi Einaudi di Roma) , ma, in particolare, ne sono lieta dal momento che davvero ho trovato la lettura dei due volumi che oggi presentiamo (Il liberalismo come metodo, II ed., Napoli, Kairós edizioni, febbraio 2015 e Benedetto Croce. La logica del concreto e il dovere della libertà, prefazione di Giuseppe Gembillo, Roma, Aracne editrice, luglio 2015) assai stimolante.

Fondazione Einaudi Benedetto Croce, il liberalismo, il metodo

Sono testi molto diversi tra loro come impostazione, però, a mio avviso, il loro accostamento è assai opportuno: in primo luogo, ovviamente, perché delineano un percorso di ricerca e di riflessione dello studioso che ne è l’autore ma, soprattutto, perché sono idealmente collegati, rimandando l’uno all’altro.

Com’è noto, il saggio sul liberalismo era già uscito in prima edizione nel 1995 proprio per la Fondazione Einaudi ed è stato ampiamente rivisto e riproposto opportunamente, in questo delicato frangente storico, con l’aggiunta di due capitoli, a febbraio del 2015. L’agile profilo sul pensiero crociano, invece, è uscito a luglio dell’anno scorso e la mia impressione è che esista un filo rosso che collega le due opere, che idealmente prende origine nelle ultime pagine del volumetto su Croce: più precisamente, alla fine del capitolo VIII su Croce e il marxismo (specie a partire dalla pagina 94, la terzultima), infatti, da aggiornata e densa monografia sugli snodi fondamentali del pensiero crociano, il Benedetto Croce di Paolozzi si trasforma lievemente e si apre a considerazioni più “militanti” e a un confronto diretto con le problematiche del mondo attuale, specie al livello politico, temi ampiamente trattati nel precedente volume. Si viene a creare, pertanto, una specie di “circolo virtuoso” tra i due testi, che possono essere considerati l’uno completamento e insieme ideale approfondimento dell’altro.

Si dice spesso che l’Italia sia rimasta indietro, specie rispetto ad altri stati europei, per quanto riguarda la cultura dell’alta divulgazione. Leggendo il profilo di Paolozzi su Benedetto Croce, mi è capitato più volte di riflettere proprio su questo aspetto del nostro mondo intellettuale e accademico, e anche del nostro panorama editoriale; e il discorso si fa ancora più complesso proprio se parliamo di Croce, che, come ben sa chi cerca di studiarlo con attenzione e autentico interesse, per anni è stato trascurato, demonizzato, ridotto a una serie di vacue formule, che ne hanno banalizzato e distorto il pensiero, liquidandolo come una successione di fulminanti giudizi in tema di critica letteraria (si ricordi anche solo la sua provocatoria definizione di «dilettante di sensazioni», riferita a d’Annunzio), o di sterili coppie oppositive come “poesia e non poesia”, “poesia e struttura”, “poesia e letteratura” etc.

È ovvio che un confronto serio con la feconda complessità del pensiero crociano, pur nelle sue contraddizioni e nei suoi nodi critici irrisolti, richiede tanto tempo, concentrazione e applicazione costanti, oltre a serenità di giudizio, capacità e volontà di contestualizzazione storico-critica, e poi attenzione alla costante evoluzione di un cosiddetto Sistema che, in realtà, nonostante le apparenze, ha ben poco di sistematico e di “chiuso”.

 

La sfida, per Paolozzi, dunque, è stata davvero ardua, a mio avviso, specie vista l’esile “mole” del suo volumetto, che conta 96 pagine in tutto: eppure, alla fine di questa interessante lettura, ritengo che quella sfida sia stata vinta, perché il suo profilo crociano riesce a cogliere gli snodi più importanti del pensiero del filosofo, a illustrarli in modo chiaro e con un linguaggio accessibile ma sempre rigoroso e preciso, e, infine, a collegarli agilmente sia con la filosofia precedente sia con gli sbocchi di quella successiva. A fine lettura, quindi, si padroneggia una mappa sicura dei fondamenti del pensiero crociano, tra i quali muoversi per approfondire Ë— grazie anche ai selezionatissimi e (per questo) utili rimandi bibliografici presenti Ë— e, insieme, si dispone di un contesto storico-filosofico di riferimento nel quale inserire criticamente Croce e le sue idee. Ritengo, pertanto, che il profilo crociano, data anche la difficoltà estrema dell’argomento e dell’impresa, sia da considerare un brillante esempio di alta divulgazione accademica da prendere a modello per utili operazioni future di coinvolgimento di un pubblico più ampio in questioni che finora hanno riguardato quasi soltanto l’ambiente universitario e intellettuale.

 

Soffermarsi su questo aspetto, però, sarebbe riduttivo perché, a mio avviso, un percorso come quello tracciato da Paolozzi giova moltissimo anche agli specialisti di Croce, che hanno la possibilità di misurarsi con una rielaborazione del tutto personale, anche se rigorosissima, di nozioni di grande complessità, che ancora oggi a tratti possono risultare, a volte, di non immediata penetrabilità, nonostante la prosa limpidissima di Croce, che è assai nota come modello difficilmente eguagliabile. Confesso che alcune pagine del volume hanno suggerito anche a me, che comunque da tanti anni “frequento” le opere crociane Ë— sebbene specialmente con l’ottica dell’italianista, della filologa e della storica dell’editoria Ë— delle associazioni di idee cui non avevo mai pensato; mi hanno giovato nel rivedere alcune convinzioni, mi hanno stimolato a ripensare criticamente certe questioni che negli anni mi sono sempre apparse come problematiche e irrisolte, mi hanno proprio chiarito – infine – alcuni passaggi di più ardua e controversa interpretazione.

 

Ho trovato, innanzitutto, molto intelligente il taglio iniziale del volume: l’idea di chiedersi preliminarmente «con chi polemizzasse» (p. 13) Croce e «quali problemi intendesse risolvere» (ibidem). Quindi, la scelta di partire giustamente dalla sua avversione al Positivismo, attribuendo il giusto peso all’episodio biografico della tragedia di Casamicciola del 1883, che tanto influì sulla psicologia e sulla direzione presa dalla vita di Croce stesso.

 

In queste prime pagine, in un periodo snello e fulminante, ad esempio, Paolozzi chiarisce subito la «differenza tra lo storicismo di Croce e l’idealismo italiano» (p. 15) e lo identifica nell’«atteggiamento teologico nei confronti della filosofia» (ibidem), con una nettezza e una semplicità costanti in tutto il volume; in un unico periodo, dopo aver accennato alle giovanili letture desanctisiane, alla «concezione platonico-scolastico-herbartiana» (p. 16) e agli «studi di economia, in parte legati all’interpretazione del pensiero di Marx» (ibidem), si ricostruisce il retroterra culturale di Croce, accennando agli empiriocriticisti, a Mach, Avenarius, Poincaré. Nel periodo successivo si precisa: «Dall’herbartismo deriva a Croce, almeno in parte il senso delle distinzioni e della chiarezza del pensiero, da De Sanctis la capacità di concepire l’attività artistica nella sua autonomia (ancora una volta la distinzione) e dal marxismo l’individuazione dell’Utile come categoria spirituale positiva» (ibidem).

 

Il volume procede, dunque, mettendo a fuoco con sicurezza e semplificando, senza mai banalizzare, gli snodi centrali del pensiero crociano: al lettore è, ovviamente, richiesta una buona cultura di base per comprendere e apprezzare adeguatamente i riferimenti filosofici citati, ma un testo simile può essere agevolmente, a mio avviso, adottato anche in un corso di laurea, specie se il docente ha cura di illustrarne qualche passaggio più complesso per degli studenti, magari fornendo loro qualche coordinata per orientarsi sul pensiero di altri autori cui Paolozzi accenna e allude, ma sul quale – giustamente, coerentemente con il significato e il senso del profilo – non si sofferma.

 

Altro approccio che ho trovato molto utile è la volontà e la capacità dell’autore di mettere sempre in evidenza le peculiarità e la novità del pensiero crociano, che ben pochi sottolineano: ad esempio, quando rileva che la «posizione di Croce, fra razionalismo e irrazionalismo, è […] originale nel pur frastagliato panorama della filosofia a lui contemporanea. Antipositivista e antiirrazionalista, il filosofo italiano partecipa e non partecipa, potremmo dire, del generale movimento antipositivista di inizio secolo» (p. 17).

 

Paradigmatico della capacità di visione sintetica di Paolozzi è anche un paragrafo della fine del primo capitolo del Croce, laddove rintraccia il “filo rosso” del pensiero crociano nella «libertà come principio morale e metodo d’interpretazione della realtà: non solo e non soltanto perché durante e dopo il fascismo egli delineerà una vera e propria concezione liberale della vita ma perché sempre il suo pensiero è teso a liberare l’attività umana da ogni vincolo esteriore o naturalistico, fosse la vecchia e sempre ritornante metafisica dell’essere, del principio, del tutto, o l’apparentemente opposta metafisica della materia come assoluto determinante; fosse il determinismo naturalistico tendente ad imbrigliare l’uomo in opprimenti leggi scientifiche o il sensualismo irrazionalista che riduce la libertà creativa a mera sensazione psicofisica» (p. 18). Passaggio da me scelto, in questa occasione, a titolo esemplificativo anche perché, com’è immaginabile, si ricollega direttamente ai temi trattati nel saggio sul Liberalismo.

 

Il volume crociano prosegue, delineando con finezza e concretezza i quattro pilastri del cosiddetto “Sistema” di Croce, con un’intelligente attenzione alle loro evoluzioni nel tempo: l’Estetica (cap. II), la Logica (cap. III), il mondo della prassi (cap. V, nel quale si discorre di economia, politica, etica, vitalità); specifici capitoli sono, poi, riservati al controverso e dibattuto problema delle scienze (cap. IV), al liberalismo metodologico (cap. VI), alla concezione della storia e alla storiografia; e, infine, al rapporto col marxismo. La scelta di questi “affondi” risponde sempre, a mio avviso e per esplicita ammissione dell’autore, alla volontà di trattare i nodi critici più “vivi” della filosofia crociana, quelli sui quali giova ancora discutere e che possono davvero rappresentare fecondi spunti di approfondimento anche per la contemporaneità: ad esempio, come studiosa di letteratura e critica letteraria, ho trovato assai pertinente l’invito di Paolozzi a studiare le affinità tra l’estetica crociana e il «simbolismo francese, le intuizioni di E. Allan Poe, le teorie di T. S. Eliot, la sensibilità di Joyce […]. Dal che [commenta Paolozzi, e concordo con lui] emergerebbe, molto probabilmente, un Croce attualissimo nella concezione della modernità e perfino della post-modernità» (p. 31).

 

Varie pagine pongono problemi ancora da risolvere e offrono lucidi spunti di riflessione; per ragioni di tempo, accennerò solo a quelle finali, che, come anticipato, a mio parere rappresentano un evidente ponte di collegamento col volume sul Liberalismo.

 

Di grande rilevanza sono vari temi cui Paolozzi accenna; mi ha colpito, ad esempio, un periodo che sottolinea che attraverso il marxismo s’insinuò in Croce il «dubbio che quelle verità enunciate nei cataloghi dei diritti, nei catechismi del popolo, nelle Carte delle libertà, nelle Costituzioni civili, non fossero verità assolute, sebbene, talvolta, sedimentazioni astratte del concreto dominio di una parte sull’altra, di alcuni su altri. La libertà borghese, le libertà formali, contro le quali ci si doveva battere per realizzare le libertà sostanziali, la giustizia sociale» (pp. 94-95). Sono questioni di stringente attualità e – oserei dire – drammaticità, cui non è facile dare risposta; ma, di certo, Paolozzi ha il merito di proporle oggi, sostanziate con argomentazioni lucide e concrete di carattere storico, politico e filosofico, che sicuramente meritano attenzione.

 

Ho trovato, infine, oserei dire “poetica” la chiusa del Croce che suona così: «L’utopia comunista, come già le utopie liberali e democratiche del Settecento, nata dallo slancio etico per migliorare le condizioni dell’umanità intera, si capovolge nel più tragico e cupo totalitarismo. Sembra essere il destino dell’utopia: senza la quale è difficile che l’umanità compia veri e durevoli progressi ma che facilmente diviene strumento d’oppressione nelle mani di fanatici o di interessati opportunisti» (p. 96).

 

Il passo che citavo prima sulle “verità” delle carte e delle costituzioni mi sembra da collegare, come accennato, proprio alla Prefazione programmatica del denso saggio sul liberalismo, laddove si precisa: «I catechismi, i cataloghi dei diritti e dei doveri, le dichiarazioni di principio, i Manifesti, hanno un fondamentale valore pratico ma guai a dar loro valore teorico» (p. 9).

 

Devo ammettere che mi risulta più problematico parlare di questo secondo volume, forse perché è troppo attinente all’attualità di questi giorni e solleva questioni assai delicate e complesse sia nei loro aspetti teorici sia nei loro risvolti pratici: davvero condivisibile mi appare l’invito di Paolozzi a «ripensare il ruolo del liberalismo» (ibidem) nell’ambito dei nuovi orizzonti etico-politici. La sua analisi storico-politica del mondo odierno e delle sue contraddizioni è di impressionante lucidità, toccando temi scottanti come quelli dei diritti di cittadinanza, della crisi della democrazia, della rappresentanza e della partecipazione; di quella degli stati nazionali (e, oserei dire, dell’Europa come comunità), del lavoro tradizionalmente inteso; non meno tragicamente, dei rapporti tra etnie e religioni diverse.

 

In tale contesto, l’invito di Paolozzi a ripensare il liberalismo come visione della vita che tenga conto delle reali condizioni storiche, aggiornandosi, mi sembra, di certo, assai opportuno; imprescindibile il suo suggerimento di rivalutare la dimensione del conflitto, del pensiero critico e divergente quale elemento dialettico fondamentale; e tragicamente attuale il monito a non adagiarsi sulla fiducia che le «libertà classiche» (p. 11), a partire da quella di espressione, non siano «costantemente in pericolo anche nel mondo formalmente libero» (ibidem).

 

La libertà prima di tutto deve essere considerata «categoria fondante la convivenza umana, drammatica o pacifica che sia» (p. 23), suggerisce Paolozzi; e a mio parere opportunamente ricorda che l’ingovernabilità e l’inefficienza possono essere necessariamente annoverate fra i rischi insiti in qualsiasi forma di potere democratico, ma che, in particolare in Italia, la crisi della democrazia «è nata dalla mancanza di controllo democratico della necessaria trasparenza degli atti di governo» (p. 25): storicamente, quindi, non è stata una crisi di ingovernabilità.

 

Alla decadenza delle democrazie, secondo Paolozzi, si reagisce sostanzialmente in due modi: o con derive totalitarie o tramite una risposta liberale. Il vero problema connesso a questo clima è la crisi del sentimento democratico del rispetto della libertà delle minoranze, e dell’individuo considerato come persona intera. L’autore ribadisce, però, che una democrazia senza conflittualità è impensabile e irrealizzabile: e che, infatti, il liberalismo tende, per propria natura, a regolare i conflitti, non a eliminarli.

 

Assai problematici e fecondi di spunti di riflessione sono, a mio parere, anche i paragrafi che Paolozzi dedica al rapporto tra liberalismo storicista e giusnaturalismo; non è scontato, infatti, che si accettino le critiche rivolte alla concezione illuminista della libertà, secondo le quali nessun diritto dell’uomo, neanche quello alla vita, è «eterno, naturale» (p. 30). Non è facile accettare affermazioni come quelle che attribuiscono alla storia il ruolo di stabilire «di volta in volta la gerarchia dei diritti e dei doveri» (p. 31), ma non si può non concordare con Paolozzi quando afferma che l’astrattezza dei grandi principi è il «male oscuro che mina le visioni intellettualistiche della società» (p. 32). Sono pagine mosse e drammatiche, sofferte e meditate, e vi si intravede, in controluce, tutto il travaglio del pensiero che è pervenuto a certe conclusioni dopo essersi interrogato a lungo sul rapporto tra Principi e Realtà.

 

Essenza del liberalismo, aggiunge in seguito Paolozzi, è «porre i limiti del potere» (p. 47), si tratti pure di quello dello Stato. E puntualizza che nello «smarrimento delle coscienze, nel dubbio lacerante dei comportamenti, nella relatività insormontabile della nostra condizione storica, la difesa del principio dell’individualità può rappresentare l’idea-guida per le nostre azioni» (p. 58) e la nostra politica. Laddove l’individuo è inteso come «individuo comunitario» e si costituisce come relazione con il mondo, essendo soggetto, dunque, a un’etica della responsabilità.

 

In passaggi densissimi Paolozzi dialoga agilmente davvero con tutta la tradizione filosofica a partire dalle sue origini, dedicando, alla fine, svariati paragrafi alla proposta crociana in relazione al liberalismo.

 

Davvero centrale, oggi, mi sembra, tra le tante, anche la questione della «liberazione dal lavoro» (p. 112), ovvero dell’improcrastinabilità della ricerca di soluzioni adeguate per ridurre la quantità del lavoro stesso, ridistribuendo le ricchezze e impedendo che il capitalismo soffochi i diritti di democrazia e libertà.

 

Concordo, infine, con la chiusa del saggio, nella quale si ribadisce che la politica dovrebbe riconquistare il governo della società, a discapito dell’egemonia incontrastata dell’economia; in tale ottica, anche a mio avviso sarebbe necessario rafforzare organismi internazionali come l’ONU e infondere nuova fiducia nel concetto di Europa unita, in modo che certe istituzioni che – almeno teoricamente – dovrebbero essere fondate sulla democrazia e la libertà possano porre un argine allo svilupparsi di quel capitalismo selvaggio che sembra dominare oggigiorno.

 

Il principio della libertà – concordo con Paolozzi – si può sicuramente considerare un principio assoluto, e deve guidare le nostre scelte nell’ambito della complessità del reale. E, in tale quadro, molte pagine crociane (come quelle sofferte dell’ultimo Croce, alle prese con la forza dirompente della Vitalità, o quelle così ispirate, dedicate alla “religione della libertà”) dimostrano ancora oggi tutta la loro forza espressiva.

 

Maria Panetta

 

 

 


 


[1] Si propone il testo della relazione tenuta, il 23 maggio 2016, al Convegno Benedetto Croce, il liberalismo, il metodo, presieduto da Giuseppe Benedetto, presso la Fondazione Luigi Einaudi di Roma: relatori Rosalia Peluso, Gennaro Sangiuliano, Luigi Vicinanza, Ernesto Paolozzi, oltre alla sottoscritta (cfr. http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/evento.html?event-id=EV2770).