Recensione di “Diseguali. Il lato oscuro del lavoro” di Maria Panetta.

paolozzi vicinanza

Un libro importante, quello di Ernesto Paolozzi e Luigi Vicinanza.

Ancora più importante, ora che siamo rimasti orfani del “filosofo gentile”: grande studioso di Croce, uomo politico entusiasta ed entusiasmante, chiarissimo professore presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, formidabile calciatore e, non da ultimo, amico fidato, sincero e preziosissimo. Un uomo di principi e di valori, che ha improntato la propria intera vita alla promozione e alla difesa dell’ideale della Libertà, il primo, il più necessario e indispensabile alla sopravvivenza: un vero galantuomo napoletano.

Il lascito di cui siamo eredi è fecondo e fertilissimo; e questo libro ne rappresenta una parte cospicua, trattando di un tema che a Ernesto stava particolarmente a cuore: quello del lavoro e, soprattutto, quello delle iniquità che purtroppo ancora oggi tristemente contraddistinguono il settore lavorativo. Un tema centrale, specie adesso che stiamo timidamente facendo i primi passi per uscire dal tunnel di questa terribile pandemia, che ci ha così limitato nelle nostre libertà personali, lasciando dietro di sé una scia di sofferenza e di morte a livello planetario.

Per la cosiddetta “ripartenza”, di cui tanto si discorre in questi giorni, è indispensabile affrontare seriamente la questione lavoro a tutto tondo, perché purtroppo i danni che il coronavirus ha provocato anche al mercato del lavoro e all’economia emergeranno in maniera drammatica solo nel prossimo futuro e, forse, causeranno problemi seri per tanti anni: andandosi ad aggiungere a una situazione che già in precedenza non era delle più rosee, e peggiorando inevitabilmente la condizione di milioni di lavoratori in tutto il mondo. Per tutte queste ragioni Diseguali. Il lato oscuro del lavoro è un libro attualissimo, nonostante sia uscito nel 2018.

L’introduzione di Luigi Vicinanza, che ben conosceva Ernesto (ricordo sempre con gran piacere il Convegno dal titolo Croce, il liberalismo, il metodo del 23 maggio 2016, che ci vide tutti relatori, presso la Fondazione Luigi Einaudi, assieme a Rosalia Peluso e Gennaro Sangiuliano)[1], mette bene in evidenza come la lotta di classe oggi venga presentata come un «residuato ideologico» (p. 5) otto-novecentesco, mentre di fatto «nel mondo contemporaneo otto persone da sole detengono una ricchezza smisurata» (ibidem). Il nuovo ordine mondiale è, infatti, contraddistinto, da alcuni decenni, dalla concentrazione della ricchezza in poche mani (con il corollario che la fuga dal fisco è diventato uno strumento di privilegio delle élite, in una situazione di globalizzazione senza regole), e quindi la lotta di classe nel nuovo Millennio si manifesta «al contrario» (p. 7), con «ricchi sempre più ricchi contro poveri destinati a rimanere tali, mentre arretra il ceto medio, o la working class nella definizione anglosassone» (ibidem). Il lavoro salariato, precario, impiegatizio, intellettuale è stato «costantemente svilito e mortificato in questi anni» (ibidem), denuncia Vicinanza, pure dalla nuova retorica sulla necessità di riformare il mercato del lavoro. Anche nel dibattito a sinistra il lavoro è, dunque, divenuto un «concetto astratto» (ibidem), ed è per questa ragione che, come si sottolinea nell’introduzione, il saggio di Paolozzi ha il merito, tra gli altri, di riportare al centro dell’attenzione i «valori etici e sociali del lavoro» (ibidem).

Dalla fine della Seconda Guerra mondiale – sottolinea Vicinanza – non si è mai registrata una distanza fra governanti e governati quale quella che si percepisce adesso, in un periodo in cui i partiti non appaiono più in grado di affrontare la complessità delle dinamiche dell’oggi, fra recessione economica, immigrazione disperata, tensioni etniche, paura del terrorismo, espansione del fanatismo islamico etc. è sempre più evidente che la convinzione della generazione dei baby boomer che democrazia e pace fossero valori acquisiti per sempre in Europa si sta sgretolando, anche perché la globalizzazione ha portato con sé uno «scardinamento delle classi sociali e delle faticose conquiste dei ceti produttivi» (p. 15). Ne derivano il ricorrente auspicio dell’avvento al potere dell’uomo forte e risolutore dei problemi, la delegittimazione dei corpi sociali intermedi, il fenomeno del sovranismo e della lotta contro le istituzioni europee e internazionali, e l’individuazione del nemico nello straniero. «Una ragione in più – conclude Vicinanza nella propria lucidissima introduzione – per provare a rimettere insieme i cocci di un pensiero liberale e socialista per gli anni a venire» (p. 18).

L’incipit del saggio di Ernesto è fulminante: «Sul fronte del lavoro sta naufragando l’umanità» (con un geniale implicito riferimento amaro anche alla tragedia dell’immigrazione).

La condizione di tanti bambini e ragazzi nel mondo, nella differente gravità di ogni singola situazione, però, «non assume i contorni della tragedia» (p. 22), ed è quindi ancora più subdola da individuare: «si consuma attraverso una lenta e strisciante sottrazione di dignità che somiglia alla banalità del male denunciata da Hannah Arendt» (p. 22). Paolozzi descrive con assoluta precisione le caratteristiche e il repertorio del “perfetto umiliatore”: i lavoratori sono un costo, devono ritenersi fortunati di avere un lavoro e di essere stipendiati; e infine la “chicca”, ovvero «l’elogio ai dipendenti che seppur malati venivano comunque al lavoro, portati come esempio da seguire» (p. 23), abitudine che è stata finalmente del tutto stigmatizzata (avremmo preferito in altro modo) dalla pandemia in atto, che, almeno in questo, ha riportato nella deontologia professionale alcune regole basilari e fondamentali del vivere civile, tra le quali quella che chi sta male deve stare a casa e curarsi, per non arrecare danno alla salute altrui con atti di inutile e sconsiderato “eroismo”.

Con amarezza Paolozzi commenta in Diseguali che «pochi avrebbero potuto immaginare che quelle conquiste civili e politiche, costate lotte e sacrifici immensi, si sarebbero dissolte, o almeno in parte dissolte, nel giro di qualche decennio con lo svilupparsi della cosiddetta globalizzazione dei mercati» (p. 23), invitando liberali e socialisti ad abbandonare «dottrinarismi accademici per recuperare il metodo di interpretazione della storia, l’umanità che è a fondamento» (ibidem) degli ideali.

Il filosofo vi evidenzia lucidamente che per uscire fuori dalla stagnazione politica ormai in atto da troppo tempo sarebbe necessario ipotizzare una forza politica con una «visione del mondo umanistica» (p. 27), in grado di riconsiderare la democrazia e soprattutto la questione sociale nel suo legame fondamentale con quella del lavoro, e di rimodulare il «vocabolario dei diritti fondamentali di libertà» (p. 26). In particolare, rinverdisce il sacrosanto slogan del “lavorare meno per lavorare tutti”, disegnando nuovi spazi di libertà a partire dal diritto alla «liberazione dal lavoro nel senso di restituire una rinnovata dignità al lavoratore, da considerarsi, per dirla con Kant (e, in un certo senso, con il Vangelo) un fine e non un mezzo» (pp. 26-27).

Paolozzi mette in guardia anche contro l’«iperdemocrazia» (p. 28), la tirannia dell’opinione pubblica, che, attraverso internet, rischia di essere manipolata, sebbene la rete sia nata come «strumento di libertà per eccellenza» (p. 29). Avvisa anche che il capitalismo può divorziare dalla democrazia, «lasciandola in pasto ai movimenti populistici» (pp. 29-30) e che, quindi, un «rinnovato socialismo democratico e liberale deve poter coniugare il riformismo con il più intransigente radicalismo sul terreno della giustizia sociale, sul recupero del valore del lavoro come elemento essenziale per l’affermazione della dignità umana» (p. 30). E, infine, nel proprio appassionato Prologo ricorda che «i più deboli non sono solo i poveri» (p. 31).

La trattazione di Paolozzi si dispiega per diciannove capitoletti successivi al suddetto Prologo, nei quali si affronta la tematica del lavoro dal punto di vista storico, filosofico, etico-politico, sociale. Si parte dalla disoccupazione e dalla precarizzazione del lavoro come fenomeni divenuti strutturali nel mondo occidentale e si toccano tematiche di scottante attualità quali quelle della schiavizzazione del lavoratore da parte della tecnologia, nata invece per agevolarlo; della delocalizzazione operata dalle grandi aziende; della loro elusione del fisco e dei loro investimenti finanziari; dello sradicamento del lavoratore, della sua emarginazione e del suo sfruttamento, della sua condizione di iperspecializzazione e al tempo stesso di inconsapevolezza; dell’aumento del numero delle ore di lavoro richieste, della rinuncia alla tredicesima e all’indennità per le vacanze; dell’esercizio della volontà di potenza dei “capi” attraverso la costrizione al lavoro inutile, dell’obbligo del rispetto del «cosiddetto orario di servizio» (p. 53) anche nel caso in cui non ci sia nulla da fare e la presenza del lavoratore risulti del tutto superflua.

Paolozzi si serve, durante la propria trattazione, di riferimenti a tutta la migliore letteratura sull’argomento, da Rifkin a De Masi, da Ford a Naomi Klein, da Marx a Max Weber, da Machiavelli a Voltaire, da Smith a Ortega y Gasset, da Kant a Vico a Hegel, Croce, Giordano Bruno, Foucault, Sorel, passando per Stevenson, Prigogine, Morin, Freud, Lombroso, Mach, Heisenberg, Dewey, Popper, Heidegger, Husserl, per gli esponenti della Scuola di Francoforte, Luigi Einaudi, Goethe, Fortunato, Tocqueville, Horkheimer, Marcuse etc.

La dovuta attenzione viene dedicata anche al movimento dei no global e al loro monito inascoltato riguardo all’acuirsi delle disuguaglianze sociali, alla devastazione dell’ambiente, alla «strumentalizzazione e commercializzazione del sistema dell’istruzione» (p. 38), alla mercificazione dell’uomo etc., monito che – sottolinea senza mezzi termini Paolozzi – agli inizi del Millennio si è scontrato con la colpevole indifferenza sia della classe politica sia degli intellettuali.

Il filosofo liberale lo scrive nero su bianco: «Accettare il principio della concorrenza fra mercati, sistemi di produzione e modelli giuridico-politici rappresenta, per il mondo occidentale, una sconfitta» (pp. 44-45). Laddove è giusto competere con Cina e India sul piano dell’innovazione tecnologica e della ricerca, infatti, farlo su quello dello sfruttamento della manodopera e del dumping salariale, farlo «ai livelli bassi […] costituisce un tragico passo indietro» (p. 45).

Premettendo che tutto ciò che è profondamente immorale si rivela anche inutile e dannoso, Paolozzi invita alla «resistenza a un ordine disumano e assurdo» (p. 59) in situazioni in cui il buon senso soccombe e si afferma la volontà di potenza, il «dominio dell’uomo sull’uomo» (p. 58); e alla fine attribuisce ancora una volta agli intellettuali – «termine consumato per i troppi falsi intellettuali che occupano la scena mediatica» (p. 59) – la funzione di «contribuire ad aprire gli occhi e guarire i sordi» (ibidem). Rileva, però, che nel pensiero neoliberista questa semplice idea di buon senso della «proficua disobbedienza alle regole quando queste palesemente non funzionano» (p. 61) è percepita come una «bizzarria filosofica» (ibidem). L’economicismo diviene, infatti, il «“Dio ascoso” che tutto muove, giudica, dirige, garante di tutti i diritti» (p. 63). La conclusione è che:

La concezione […] tipica dell’atteggiamento neoliberista, secondo la quale l’opposizione, il contrasto alle forme di regolamentazione generate dal mercato e garantite dallo Stato, che a sua volta a quelle regole deve soggiacere e ubbidire svolgendo il ruolo di mero regolatore tramite una burocrazia tecnocratica, sono dannosi, è un’idea estranea, a nostro modo di vedere, alla storia stessa e allo spirito del liberalismo. Confondere tale concezione tardo novecentesca del liberalismo con l’intero movimento liberale è un’offesa alla sua storia […]. (P. 64)

Pertanto, pur augurandosi ovviamente che nel nostro mondo – nel quale male e bene, guerra e pace sono «dialetticamente, irrimediabilmente, congiunti» (p. 68) – possano prevalere la tolleranza e la capacità di convivere pacificamente, Paolozzi lancia un altro monito: «Senza dimenticare che ciò è possibile solo se cittadini, partiti, sindacati, associazioni, Stati ed organismi internazionali, assieme a deprecare la violenza, si impegnino a ridurre le ingiustizie sociali, a combattere con ogni forza i soprusi e le iniquità» (p. 69).

Egli individua negli anni Ottanta il momento in cui una «società pragmatica ed antiideologica cominciava a rivelarsi […] la società cinica» (p. 72), e «la classe politica e l’intera classe dirigente (dai dirigenti industriali agli intellettuali) si chiusero in se stesse» (p. 75), limitandosi alla mera conquista di privilegi e alla ricerca del proprio tornaconto e facendo riferimento (è accaduto anche nel mondo editoriale, come ben sappiamo) solo ai «meschini calcoli di infiniti ragionieri del benessere edonistico» (p. 77). I dati statistici e scientifici iniziarono ad essere adoperati cinicamente per giustificare e legittimare le politiche che s’intendevano realizzare: competizione, deregolamentazione, aumento del PIL e, in caso di crisi, «rigore, cioè […] sacrifici imposti ai popoli» (p. 81). E aumentò il divario fra «percezione politica e percezione della realtà» (ibidem).

A partire dagli anni Ottanta, infatti, abbiamo assistito a un «tacito ritorno del positivismo, della mentalità scientista» (p. 83) che aveva già caratterizzato la fine dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento: un’epoca in cui è stato epurato tutto ciò che sfuggiva al mero calcolo, condizionando vari settori della vita pubblica, dalla gestione del sistema sanitario (ne stiamo pagando le conseguenze proprio oggi, con la pandemia) a quella delle università e delle scuole, dal mondo dell’economia a quello dell’amministrazione. Allo stesso tempo, però, per fortuna si ponevano anche le basi per ritornare alla filosofia, alla storia, all’arte, tanto che la stessa medicina, come ha sottolineato giustamente Paolozzi, ha rinunciato ai propri classici protocolli per ritornare alla storicità, alla molteplicità e all’individualità. La politica, a suo dire, dovrebbe farsi carico di assecondare questa inversione di tendenza perché il

Pensiero calcolante, cronometrico, classificatorio, svolge il ruolo dell’ideologia, della falsa coscienza per richiamare Marx, che copre interessi particolari e finisce […] non soltanto con l’acuire le diseguaglianze e col restringere le libertà individuali, ma anche col negare se stessa costruendo un mondo nel quale perfino la ricerca dell’utile diventa sempre più difficile. (P. 88)

Il modello formativo prevalente oggi nel mondo occidentale è, infatti, quello che punta alla formazione del lavoratore e del consumatore, invece che del cittadino «consapevole, intelligente, creativo, politicamente ed eticamente responsabile» (p. 89). Suo corollario, il mito della valutazione oggettiva, con il proliferare di test come quelli INVALSI e organismi quali l’ANVUR (aggiungerei); con l’aggravante, come ribadisce Paolozzi, che dirigenti scolastici e docenti, «se indirettamente controllati attraverso le prove dei loro discenti, si adegueranno anch’essi allo spirito meramente quantitativo» (p. 91), finendo per addestrare le nuove generazioni ad esercitarsi nell’interpretare e «rispettare le verità imposte da un capo, da un padrone, da un governo» (p. 92). Ma aggiunge Ernesto, provocatoriamente: «Non ci resta che confidare nell’istinto ribelle dei giovani» (ibidem).

Pur mettendo in guardia contro la retorica dell’esaltazione del dilettantismo, Paolozzi ammonisce anche a non farsi irretire da quella opposta degli esperti cui «dovremmo affidare i nostri destini individuali e quelli dell’intero mondo» (p. 94), figure dietro le quali si possono celare anche la peggior specie di imbonitori o avventurieri. Invita, dunque, a mantenere sempre desto il pensiero critico e a non farsi intimidire, continuando a professare il pensiero divergente da quello unico: a contrastare, quindi, la “barbarie dello specialismo”.

Ricorda, poi, come Croce e Luigi Einaudi concordassero sul fatto che il liberalismo ha senso solo se è «liberalismo morale» e produce «uno Stato migliore, una condizione generale etica, politica, giuridica e sociale di progresso» (p. 99); e rammenta come Einaudi fosse anche attento alla difesa dell’ambiente e alla tutela del bene pubblico, concludendo: «Oggi il problema del rapporto fra ragioni della tutela dell’ambiente, rispetto delle condizioni economiche, difesa dei posti di lavoro e della sicurezza dei lavoratori, è centrale in tutto il mondo» (p. 101).

L’ultima parte del libro affronta il tema della crisi del lavoro in rapporto a quella della democrazia rappresentativa come «sistema migliore per autogovernarci» (p. 111), manifestatasi soprattutto come «crisi della partecipazione popolare, dei cittadini, alle scelte dei governi» (ibidem). Sfumato il sogno della democrazia diretta sognata da chi riteneva internet un’occasione per «coinvolgere grandi masse di cittadini nelle scelte politiche in tempi rapidi» (p. 112), Paolozzi sottolinea comunque l’importanza del preservare la libertà della rete, purché la si adoperi come strumento per una crescita consapevole della democrazia cognitiva.

Infine, pone l’accento sul crescente impoverimento linguistico dell’oggi, segno anche della banalizzazione del pensiero e dell’involgarimento dei gusti, perché «senza cultura non c’è giudizio, non c’è capacità di scelta, non vi è dunque responsabilità» (p. 119), la grande lezione dell’Illuminismo.

Come tiene a sottolineare Ernesto, però, il declino non è mai inevitabile: la democrazia parlamentare, a suo giudizio, è insufficiente, se i cittadini non si riorganizzano, se la politica non favorisce nuove forme di aggregazione che possano sostituire i sindacati, i partiti e le associazioni religiose in crisi. A tal fine, è necessario essere ottimisti, disegnando «un’utopia operante, possibile, un dover-essere (Sollen) che deve orientare l’essere (Sein)» (p. 129). L’utopia è, infatti, assai utile in quanto «ideale di vita da realizzare» (p. 130) che può essere motore per l’azione. Ne consegue che il progresso scientifico deve poter consentire all’uomo di liberarsi dalla percezione del lavoro come fatica fisica e alienazione psicologica nonché come svilimento della sua capacità creatrice. E allora l’invito è quello a tornare prima di tutto alle antiche “virtù” cristiane e liberali, alla giustizia sociale e alla solidarietà umana.

Il saggio di Ernesto si conclude con una domanda che racchiude una speranza: «Lavorare meno per lavorare tutti, lavorare meglio per vivere dignitosamente, redistribuire i profitti per costruire una democrazia autentica. Un’utopia? Forse. Ma che altro possiamo immaginare?» (p. 133).

Diseguali si chiude, quindi, con un richiamo all’immaginazione, alla forza creatrice e creativa dell’uomo, con un appello alla volontà: è un saggio militante e contiene in sé i germi di una rivoluzione. Ernesto era un uomo mite, ma al tempo stesso pronto a lottare per l’attuazione e la difesa degli ideali, purché fossero sempre calati nel reale: anche questo denso saggio, sulla linea di tanti altri suoi scritti, lo testimonia con passione.

In Diseguali c’è una doppia “consegna”: quella dello studioso che suggerisce, tra le righe, un ben preciso e documentato percorso di conoscenza attraverso i classici del pensiero filosofico di tutti i tempi; e quella del politico che lotta per un mondo migliore e adopera la scrittura – sempre chiara, sempre accessibile, sempre cristallina – per veicolare il proprio messaggio di impegno, sprone e solidarietà.

(Grazie, Ernesto. E scusa se non ne ho scritto prima).

  1. Cfr. l’URL https://www.fondazioneluigieinaudi.it/croce-il-liberalismo-il-metodo/ per il video girato alla fine del Convegno. 

da Diacritica (fasc. 38, 28 maggio 2021)