Universale-particolare, essere-non essere, tutto-parte, oggetto-soggetto, razionale-irrazionale, Stato-individuo. Ecco una serie di opposizioni che travagliano da sempre il pensiero degli uomini e che, per certi aspetti, sembrano irrisolvibili.

Se un concetto è universale, ad esempio quello di bellezza, come può una singola opera d’arte, transeunte, distruttibile, essere bella, esaurire in sé il concetto di bellezza? Se quella individuale opera non viene più ritenuta bella significa forse che non si adegua ad un concetto astratto e universale di bellezza? E cosa sarebbe, in concreto, un tale concetto? Una pura definizione da vocabolario?

Ragionamenti analoghi potremmo fare per ogni altra coppia di opposizioni. Come è facile notare, la contraddizione, così posta, non è superabile e non resta altro dunque, o non resterebbe altro, che abdicare, rinunciare alla possibilità stessa di pensare.

Se dessimo un rapido sguardo a ciò che è accaduto alla filosofia e, come in una cascata, alle scienze umane, alle dottrine politiche ed economiche, ci renderemmo conto che la storia recente ci ha lentamente condotto verso la bancarotta del pensiero. Divisi in correnti secondo quelle distinzioni contraddittorie che abbiamo ricordato alla rinfusa, ci troviamo di fronte ad uno scacco matto della ragione. Positivisti e spiritualisti, neopositivisti e postmoderni, e così via passando per tante sottospecie filosofiche che ognuno ha provato a denominare e dominare senza venire a capo di alcuna soluzione. Chi si rifugia nell’assoluto irrazionalismo correndo il grave rischio, sul piano politico, di affidarsi a più o meno insidiosi uomini della provvidenza, chi in una presunta oggettività della realtà, delle scienze, imprigionandosi, di fatto, in un mondo senza libertà, creatività, originalità.

Nel 1960 Raffaello Franchini scriveva nella Prefazione al volume Le origini della dialettica : “Questo libro vuol essere non una semplice storia della dialettica (…) ma piuttosto e soprattutto un nuovo tentativo di parlare il linguaggio della ragione all’antistoricismo contemporaneo, che o ritiene di poter saltare al di là della propria ombra e far tabula rasa della tradizione dialettica (neopositivismo, esistenzialismo), o fa un cattivo e illecito uso della dialettica (….)”(1)

Dopo cinquant’anni il lento declino del pensiero dialettico si è accentuato e, dopo quella che potremmo definire la deriva relativistica del postmoderno, la filosofia è come fosse rimasta muta e le cosiddette scienze umane, divise e parcellizzate, si sono chiuse in piccoli fortilizi di scuola fra loro incomunicabili: dalla sociologia alla psicanalisi, dalla pedagogia all’antropologia. L’epistemologia stessa, la scienza che studia le scienze, si è arresa, mentre gli operatori, ossia gli scienziati, vivono alla giornata, lacerati da dissidi etici e politici che le loro ricerche, spesso involontariamente, aprono. Dovessimo tornare a discutere fra soggettivismo e oggettivismo, torneremmo al giardino d’infanzia della filosofia.

Ciò, naturalmente, non esclude che, in casi particolari fra filosofi, scienziati e pensatori liberi, non vi sia un dibattito, alto quanto travagliato, e che non si affaccino proposte e soluzioni di assoluto rilievo e originalità. Quanto abbiamo descritto sommariamente è il senso della nostra epoca, di un secolo fin troppo lungo così come appare nella rappresentazione dei media, dell’accademia, dell’editoria, dell’opinione pubblica.

Franchini accennava ai cattivi interpreti della dialettica. Il riferimento era ad alcune versioni del marxismo. Ma quei dibattiti e quelle discussioni sul capovolgimento della dialettica hegeliana e delle sue implicazioni etico-politiche, pur nel loro vizio riduzionistico, mantenevano pur sempre vivo un ragionamento filosofico all’altezza della situazione, della tensione speculativa. Oggi tutto ciò è solo un ricordo lontano. Eppure quelle discussioni, che avevano un’immediata ricaduta politica, si potevano ascoltare nei cortili delle Università, nelle piazze e nei bar dove giovani variamente impegnati, diversamente orientati, si incontravano.

La mancanza del senso dialettico della storia comporta immediatamente la mancanza del senso della storia, del divenire, del movimento: unici luoghi nei quali quelle contraddizioni possono trovare parziali, perché storiche, soluzioni. Così sentiremo discutere all’infinito, secondo formule astratte, se è un bene che lo Stato intervenga nell’economia o se, viceversa, il mercato debba essere completamente libero o parzialmente regolato da poche, scarne, leggi. Sentiremo discutere all’infinito se la legalità va o meno rispettata o se, al contrario, è necessario infrangerla per dare spazio all’individualità creativa e intraprendente. Vale l’individuo o l’istituzione? E può l’individuo vivere fuori dalle istituzioni? E cosa sarebbero mai le istituzioni se prive degli individui? E così via, lo scacco matto della ragione politica.

E’ la difficoltà di pensare la contraddizione, la relazione fra concetti opposti i quali, in virtù dell’opposizione, sembrano escludersi radicalmente. L’universale contro il particolare e viceversa: si sceglie l’uno o l’altro, e perché no, una volta l’uno una volta l’altro in un continuo tormento perché sembra di sbagliare sia nell’uno che nell’altro caso. Una scelta definitiva, come vorrebbe la logica, sembra impossibile. Il pensiero appare sconfitto. Esso sì definitivamente.

Nel 1906 , cinquant’anni prima di Raffaello Franchini, Croce scriveva:

“La effettività di codesta esigenza ha fatto sì che la mente umana si sia sempre travagliata, pur senza rendersene conto in modo sempre chiaro, nel problema degli opposti. E una delle soluzioni, alle quali si è andata appigliando nel corso dei secoli, è consistita nell’escludere l’opposizione dal concetto filosofico, sostenendo la non realtà di quella perigliosa categoria logica. (…) Codesta dottrina logica degli opposti si ritrova nei sistemi filosofici del sensismo, dell’empirismo, del materialismo, del meccanicismo, o come altro si chiamino. (…) Contro questa prima, ha spiegato, nel corso dei secoli, la sua forza l’altra dottrina logica, che pone come categoria fondamentale quella dell’opposizione. Essa si ritrova nei vari sistemi dualistici, che riasseriscono l’antinomia, fatta sparire dai primi con un leggero colpo di mano, e ne accentuano ambi i termini, l’essere e il non essere, il bene e il male, il vero e il falso, l’ideale e il reale, quelli dell’una serie in contrasto appunto con quelli dell’altra.”(2)

Croce tende a preferire questa seconda versione della questione degli opposti, quella che chiameremo in seguito dialettica. Ma aggiunge:

“Ma, intrinsecamente, contenta così poco come l’altra, perché, se la prima sacrifica l’opposizione all’unità, la seconda sacrifica l’unità all’opposizione. Al pensiero, continua il filosofo, entrambi codesti sacrifici riescono tanto incomportabili, che si vedono poi continuamente i sostenitori dell’una dottrina convertirsi, in modo più o meno consapevole, in sostenitori dell’altra. (…) A questo modo, gli uni e gli altri si avviluppano in contraddizioni e vengono a riconoscere di non avere risoluto il problema nel quale s’erano travagliati, e che rimane aperto come problema.” (3)

E’ difficile non scorgere analogie con la condizione attuale della filosofia. Il fatto che la storia sembra ripetersi non deve spaventare più di tanto perché, innanzitutto, non si ripete mai nel senso di riprodursi meccanicamente, come se nulla fosse cambiato. In secondo luogo perché quelle che a noi appaiono analogie o somiglianze sono il perenne ritorno dei problemi che la vita, prima ancora della filosofia, pone e sottopone al giudizio critico del pensiero.

Così oggi al posto di monismo e dualismo subentrano nuovi modi di dire e diverse sensibilità che rappresentano, a seconda dei momenti, esigenze diverse. Basti pensare, in tempi recenti, alla opposizione, apparentemente irrisolvibile, fra il pensiero utopico o ideale e quello cosiddetto realistico, che attraversa l’agonia della filosofia politica dei nostri giorni incapace, alla fine, di pensare la vita che è sempre, assieme, utopistica e realistica. Basti pensare, ancora, per toccare temi attualissimi, alle dicotomie che nascono nell’ambito del cosiddetto pensiero bioetico, dove ci si scontra e ci si urta su concetti quali quello della vita e della morte i quali, presi in sé e per sé, astrattamente, finiscono col non avere senso mentre, se è vero, come sostengono gli esistenzialisti, che la vita è per la morte, è altrettanto vero che la morte ha un senso solo perché c’è la vita e che, se la vita dà un senso alla morte, anche la morte dà un senso alla vita.

Giungiamo così al nucleo del nostro ragionamento. All’idea di fondo che, solo se si recupera il pensiero dialettico, si può recuperare il senso della filosofia e delle altre scienze umane che, in qualche modo, entrano con essa in relazione. E dar senso, come mostrano le più recenti acquisizioni epistemologiche alla stessa scienza propriamente detta. Un pensiero, dunque, della complessità che non può che fondarsi su una concezione critico-dialettica della storia, della vita.

Avendo scontato in anticipo le mode intellettuali, le rivolte aprioristiche contro la filosofia o le scienze, l’etica e la politica e così via secondo il senso comune, il qualunquismo filosofico, per così dire, dobbiamo rilevare che persiste una difficoltà di fondo ad accogliere la dialettica come strumento ermeneutico, come metodo interpretativo. E’ il persistere dell’idea, in parte anche di origine psicologica, che il principio regolatore della logica, e dunque della filosofia come delle scienze, non può che essere il principio di identità. Principio chiaro per se stesso che appare del tutto ineludibile. Ora quel principio sembra in assoluta e irriducibile contraddizione con la dialettica intesa come dialettica degli opposti.

Scrive Croce:

“L’opposizione pensata è opposizione superata, e superata appunto in virtù del principio di identità; l’opposizione disconosciuta, o l’unità disconosciuta è l’apparente ubbidienza a quel principio (di identità) ma, in effetti, la sua reale contraddizione. C’è tra il modo di Hegel e quello del pensare volgare lo stesso divario che tra colui il quale affronta un nemico e lo vince, e colui che chiude gli occhi per non vederlo, e crede così di essersene spacciato, e ne diviene invece preda. (…) La realtà è nesso di opposti, e non si sfascia e dissipa per effetto dell’opposizione: anzi si genera eternamente in essa e da essa. E non si sfascia e dissipa il pensiero che, come suprema realtà, realtà della realtà, coglie l’unità nell’opposizione e logicamente la sintetizza. (…) L’universale concreto, unità nella distinzione e nell’opposizione, è il vero e compiuto principio d’identità che non lascia sussistere separatamente, né come suo compagno né come suo rivale, quello delle vecchie dottrine, perché l’ha risoluto in sé, trasformandolo in proprio succo e sangue” (4)

E, in effetti, se noi riandiamo alle contraddizioni sopra elencate, ci rendiamo conto che esse vivono solo nella concreta vita della storia, nella quale sempre l’universale (l’idea di bellezza, l’idea di verità, etc) si realizzano concretamente in quello che sembra un opposto, una singola opera bella, una singola opera di verità. Singolarità e universalità finiscono, in questo senso, col coincidere. Ciò vale, ad esempio, anche per l’idea di libertà, che può sembrare universale e astratta e anche utopica ma realmente vive sempre quando si realizza come atto etico-politico individuale e concreto: si realizza come ribellione nei confronti di un ordinamento politico ma si realizza anche come costruzione di un nuovo ordine politico; si realizza come lotta nei confronti di un sistema economico e come costruzione di un altro, nuovo sistema economico.

Con queste argomentazioni Croce, agli inizi del secolo scorso rimise in circolo la dialettica hegeliana ed inaugurò una nuova stagione della filosofia italiana ed europea la quale conobbe una sorta di rinascita dopo la profonda crisi che aveva conosciuto negli anni posteriori alla morte di Hegel.

E’ superfluo accennare che il filosofo italiano non si fermò alla rivalutazione della dialettica ma riformò la logica hegeliana la quale, da logica degli opposti divenne logica dei distinti.

L’errore di Hegel, secondo la nuova prospettiva, consisteva nel non aver pensato i distinti all’interno dei quali gli opposti si contendono il primato e nell’aver confuso il piano ideale con quello reale. Tale confusione d’altro canto, che aveva condotto il filosofo di Stoccarda a inserire l’opposizione, che è la logica del pensiero, nella realtà concreta, per cui erano stati dialettizzati popoli e continenti , si era approdati alla filosofia della storia, era riuscita a spiegare il divenire che la nuova logica non intendeva certo negare. La soluzione crociana, com’è noto, propose l’esistenza di quattro categorie, i distinti, considerate vichianamente come categorie interpretative della realtà e come potenze del fare, ossia sostanza della realtà stessa che è a sua volta unitaria, distinguibile nei suoi diversi aspetti solo sul piano logico. Anche l’opposizione è logica ed è interna a ciascuna categoria che è sempre affermazione del valore sul disvalore, dell’essere sul nulla.

Non esiste, né concettualmente, né concretamente, la non-arte, o il non-vero ma sempre e solo il bello che è affermazione di tutto ciò che ad esso si oppone o il vero, e così via. Il luogo del divenire andava dunque spostando la propria sede dalla dialettica degli opposti al rapporto teoria prassi, nel quale vive concretamente la dialettica senza irrigidirsi in forme metastoriche. Il Giudizio, sintesi di universale e particolare diventa il perno della nuova filosofia dialettica, del pensiero critico.(5)

Ma qui non vogliamo ripercorrere l’itinerario crociano e quello dei suoi interpreti più acuti e originali. Abbiamo scelto Croce come un esempio, forse l’esempio fondamentale, di ciò che può e deve essere il pensiero moderno per uscire dalla palude nella quale sembra essersi persa la filosofia, la cultura contemporanea.

Ci è venuta alla mente una pagina meno nota del filosofo nella quale con ironia e con quella vis polemica che caratterizzava (non senza qualche esagerazione) spesso la sua prosa, motteggiava la figura del filosofo tradizionale, del “puro” filosofo caricatura del filosofo vero. Il filosofo si fa merito di avere, per certi aspetti, distrutto all’inizio del Novecento quell’atteggiamento speculativo estraneo alle reali vicende della vita e della storia, diciamo riassuntivamente, quella metafisica deteriore, sia essa materialistica o idealistica, che caratterizza l’intera storia del pensiero , a sua modo eterna perché eterna è la lotta fra il positivo e il negativo.

Perciò Croce scrive:

“Mi si potrebbe contrastare l’asserzione di fatto che la figura del “Filosofo” non viva più in Italia, additandomi le egregie persone che pur la rappresentano. C’è, infatti, il Filosofo che (come scrisse una volta un giornalista spiritoso: altra prova che quella figura si presta alle facezie) sta da anni e anni seduto al suo tavolino, rimirando il calamaio e domandandosi:-questo calamaio è dentro di me o è fuori di me?- c’è il Filosofo che celebra questa intensità e perpetuità d’interrogazione senza risposta e la chiama la “tragedia del Filosofo”, destinato a non risolvere mai il proprio problema; e atteggia sé a personaggio tragicomico o, se si vuole, comico-tragico e si dispone a esibirsi con quell’atteggiamento sulla cattedra, vita durante, con la speranza della propagazione della specie, cioè di generare intorno e dopo di sé altri simili personaggi tragicomici e inconcludenti.” (6)

Non possono non venire alla mente le ritornanti discussioni sull’Essere e la Realtà, fra “relativisti” e “realisti” le quali, quando non sono una trovata pubblicitaria, esprimono certamente un’ansia di verità, un comprensibile timore per la nostra sorte collettiva e individuale, ma non per questo rappresentano il pensiero critico nel suo concreto svolgimento. Piuttosto la filosofia può, come chiese Croce nella Logica, asciugare tutte le lacrime?

Malauguratamente non può. Ciò nonpertanto può dare una mano e può darla se è pensiero dialettico, se riesce a concepire l’universale nel particolare. Così, non senza qualche ironia ma con un certo orgoglio, nel volume I delle Nuove pagine sparse, Croce poteva scrivere:

“C’è la formula della saggezza e della sapienza? C’è, ed è questa: riconoscere che senza il male la vita e il mondo non sarebbero, e tutt’insieme combattere sempre, praticamente e irremissibilmente, il male e cercare e attuare sempre indefessamente il bene: negare come assurda la felicità e cercar sempre la felicità, negare come assurdo il trionfo definitivo della libertà sulla servitù, della figlia di lei giustizia sull’ingiustizia, del sapere sull’ignoranza, dell’intelligenza sulla stupidità, e praticamente volere e procurare in ogni istante quel trionfo, il trionfo di quell’istante.”

Franchini origine della dialettica                                                                     Saggio sullo Hegel

Ernesto Paolozzi

Da “Libro Aperto”, Numero 69, Aprile – Giugno 2012

Note:
1- Raffaello Franchini, Le origini della dialettica, Giannini, Napoli, 1976 (IV edizione), p.1.
2- Benedetto Croce, Saggio sullo Hegel, Laterza, Bari, 1967, p. 10.
3- Ibidem, p.11.
4- Ibidem, p.21.
5- Si confrontino Alfredo Parente, Il tramonto della logica antica, Laterza, Bari, 1952, Carlo Antoni, Commento a Croce, Neri-Pozzi, Venezia, 1955, Gennaro Sasso, Benedetto Croce, la ricerca della dialettica, Morano, Napoli, 1975, Giuseppe Brescia, Questioni dello storicismo, Salentina, Galatina, 1980, Lanfranco Di Mario, Dialettica e libertà, Fondazione Ignazio Silone, Roma, 2005.
6- Benedetto Croce, Ultimi saggi, Laterza, Bari, 1963, p. 399.