“Il Mattino”
13 Febbraio 1990
Nostalgie di moralità
Vicende ed esperienze dell’estetica secondi Ernesto paolozzi.
Di Eugenio Mozzarella

Libro di grande sincerità, il secondo suo dopo I problemi dell’estetica italiana del 1985 dedicato all’argomento, questo ultimo di Ernesto Paolozzi sulle “vicende dell’estetica” nella cultura contemporanea. Molto netta la tesi storiografica che sorregge il suo studio – con una precisa nostalgia. Questa è per il “primato” condiviso con l’altra “scienza mondana” :l’economia , dell’estetica nella cultura tra Otto e Novecento, quando seppe reagire – rianimando lo spessore dell’esperienza della realtà – all’egemonia positivistica, offrendo una strada per rimpossessarsi, pur nello specifico dell’esperienza estetica, del”vivo delle cose” per dirla con Vico. Questo è ciò che per Paolozzi non ha saputo fare, dopo la grande stagione dell’estetica primonovecentesca, ed esemplare è in questo senso la lezione crociata, e il ritorno neo-positivistico quando la riflessione sull’arte si è confinata nella semiotica, nella sociologia dell’arte e nella psicologia dell’arte, l’estetica del secondo Novecento.
“La crisi teorica del positivismo e dell’estetica ad esso legata non ha provocato – scrive Paolozzi – una reazione nel mondo dell’erte paragonabile a quella avvenuta agli inizi del secolo.L’eredità lasciataci da questa vicenda è un’eredità di povertà, che ha provocato una sorte di generale disinteresse per il mondo dell’arte e dell’estetica. Il mito della mera razionalità, di una razionalità matematizzata, ritenuta, illuministicamente, l’unità di misura di tutte le cose, non poteva che provocare uno smarrimento generale, una indifferenza morale, una perdita del gusto”
La diagnosi, come si vede piuttosto amara di Paolozzi, muove in sostanza dalla convinzione che le vicende ultime dell’estetica testimonino che la riflessione sull’arte, che pure avverte e traduce l’inconsistenza dell’esperienza di sé della coscienza del mondo che vive sotto il segno della tecnica e più banalmente del “telecomando2 della comunicazione artificiale e artificiosa, esprime una condizione, piuttosto che una posizione. Esprime cioè il disagio di un uomo che è posto nel mondo della mera utilità, ma non vi si pone contro, finendo nel vivere nell’estraneità assoluta, e persino nell’insincerità giacchè, più ancora della polemica e della persecuzione, teme del mondo in cui vive il riso e l’ironia; rispetto al cinismo del suo mondo risponde sostanzialmente con la più forte delle censure, l’autocensura.
L’esperienza estetica pare avere cessato, in altri termini, di essere il luogo di considerazione, e magari di scontro, di valori. L’esigenza di “cultura” che a questa situazione lo studio di Ernesto Paolozzi oppone è che l’estetica, come riflessione sull’arte, “cosa viva” che riflette su “cosa viva”, riprenda la funzione propriamente sua di banco di prova della possibilità di tornare a dialogare sui valori e con i valori: ” nell’arte, kantianamente, si esprime il valore nella sua più intima capacità espressiva, nel suo essere disinteressato ma utilmente operante nelle vicende umane. L’opposizione anch’essa falsa fra utilità e moralità, si risolve, in questo senso, nell’arte, in quanto atto morale ed utile, pur non essendo di per sé stesso, né eticità né utilità”. E’ la ripresa di una filosofia dell’arte, non dissolta e risolta nelle tecniche cognitive del fenomeno artistico, che può darsi un momento essenziale della ricerca di quel nuovo equilibrio filosofico e morale di cui la situazione attuale reca urgente bisogno.