Fabbrica nuova Scienza nuova.
La scelta, da parte della dirigenza, di intitolare il rinnovato stabilimento della Fiat di Pomigliano a Giambattista Vico, non solo è una scelta opportuna, ma intelligente e originale. Lo si vedrà il 2 marzo, in occasione dell’inaugurazione, quando saranno esposte alcune delle Degnità vichiane più significative.
Il grande filosofo non è stato scelto soltanto per la sua importanza universalmente riconosciuta, o per la sua notorietà, come si sarebbe potuto fare per altri grandi della cultura napoletana, ma proprio per il significato particolare che il suo pensiero assume nella nostra epoca, complessa e difficilmente riducibile a formule e schemi elementari.
Non a caso, nell’edizione francese del volume Introduzione alla complessità, Edgar Morin dà un titolo italiano ad un capitolo: Scienza nuova. Il riferimento è, come è evidente, a Giambattista Vico, che lo studioso francese assume come simbolo filosofico della nuova epistemologia della complessità maturata fino in fondo nel Novecento.
Quella di Morin è una lettura per molti aspetti ardita, soprattutto per il mondo culturale francese e ancor più per quello anglosassone, ma pienamente condivisibile, e già in parte accettata, per la cultura italiana e tedesca.
Con l’aver posto al centro della sua filosofia una logica nuova, dialettica e storica, con l’aver collocato in primo piano la poesia come elemento cognitivo e produttivo, Vico si propone infatti come il rappresentante più alto di una cultura alternativa a quella razionalistica di stampo cartesiano.
Rappresenta una tradizione culturale alternativa, in alcuni momenti marginale ma che, soprattutto nell’ultimo secolo, si è riproposta come originale e nuova e ormai accolta dalle punte alte della cultura europea e mondiale.
Per la verità è l’intera storia culturale di Napoli e del Mezzogiorno d’Italia ad incarnare questa diversità, sin dai tempi di Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Lo disse, sorprendentemente, Roberto Benigni nell’ormai mitica serata in cui lesse il V Canto dell’Inferno di Dante davanti a milioni di spettatori. Nel vantare, forse con qualche eccesso, la grande tradizione umanistica del nostro paese e il ruolo fondamentale che essa ha svolto nella storia della civiltà, accanto al Rinascimento e alla creatività musicale, collocò come specifico contributo del Mezzogiorno il pensiero filosofico, quello che si può, a ragione, definire il pensiero critico dei nostri filosofi. Un pensiero complesso e articolato, nel quale si possono cogliere varie linee distintive, dalla laicità di Giordano Bruno e del dimenticato Giannone al senso della storia di Vico, di Cuoco e di Croce, al contributo che alla filosofia dell’arte diedero tutti, in modo ineguagliabile.
Ma sin qui, in fondo, si può rischiare di cadere nel generico o, peggio, nel moralismo, come accade quando si decanta e si vanta la filosofia civile, l’impegno morale, e via dicendo.
Il nostro paese è pieno di retori che si nascondono dietro le moralità filosofiche per commettere le più gravi e meschine nefandezze. E la mediocrità si nasconde sempre dietro la moralità.
E’ bene dunque mettere in risalto un’altra intuizione che è alla base della scelta compiuta da Marchionne e dalla dirigenza della Fiat: l’importanza che il pensiero di Vico ha per l’interpretazione della modernità, anzi della contemporaneità. La sfida del lavoro, oggi, come quella del mondo dell’impresa, si combatte essenzialmente sul terreno della creatività, della fantasia produttiva, della qualità. I vecchi modelli quantitativi, sia dell’analisi sociale che dell’organizzazione del lavoro, non sono, come qualcuno può ritenere, da rigettare come inservibili reperti del passato. Certamente non bastano più, da soli, a comprendere la realtà e a progettare il futuro.
La filosofia contemporanea è da troppi anni divisa in due opposti partiti: quello totalmente irrazionalista, relativista o post-moderno, e quello rigidamente razionalista, fondamentalista, legato alle logiche della vecchia filosofia. E’ la crisi della nostra filosofia. Lo sforzo da compiere è quello di riconquistare il senso dialettico della vita e della storia, nelle quali razionalità e irrazionalità, quantità e qualità, universalità e particolarità, si intrecciano nella complessità del divenire.
Nel mondo del lavoro conta l’abilità quanto l’entusiasmo, la preparazione quanto l’inventiva, il rispetto della tradizione quanto la coraggiosa, e spesso rischiosa, innovazione. E tocca agli uomini in carne ed ossa, nel momento storico in cui vivono, ossia nella situazione concreta, scegliere con responsabilità il proprio avvenire, farsi arbitri del proprio destino.
In questo senso Vico non è alle nostre spalle ma nel nostro futuro.
Ernesto Paolozzi
da “la Repubblica Napoli” del 27 febbraio 2008 Repubblica archivio