Giovanni Ferrara e Benedetto Croce

Lunedì 19 novembre 2007 alle ore 16.30 nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2007-2008, Sandra Bonsanti consegnerà il manoscritto autografo del saggio di Benedetto Croce, “Perché non possiamo non dirci cristiani” (1942), che Giovanni Ferrara ha donato all’Istituto. Si tratta del manoscritto, del dattiloscritto e della bozza di stampa (con correzioni autografe di Croce), che furono donati a Giovanni Ferrara da Nina Ruffini nel 1953 (quando era borsista dell’Istituto). I testi verranno esposti al pubblico, insieme alle edizioni a stampa del famoso saggio crociano tornato oggi di cogente attualità.

Giovanni Ferrara fu borsista dell’Istituto negli anni 1953/54 e 1954/55 e lì nel 1964 pubblicò il volume “La politica di Solone”, nella collana delle “Monografie”. Nel corso della manifestazione, dopo l’introduzione di Natalino Irti e la relazione di Marta Herling, Gennaro Sasso presenterà il libro postumo di Ferrara, “Il fratello comunista”, edito quest’anno da Garzanti.

Una scelta, questa, che mi sembra particolarmente opportuna, nello spirito di Croce, che voleva che il suo Istituto fosse libero da ogni legame accademico e aperto ai temi della contemporaneità.

Quasi come nella scena iniziale di un film che ripercorra una storia a partire dal suo epilogo, Giovanni Ferrara, senatore repubblicano, rievoca l’episodio clou che illumina e spiega la natura del suo rapporto con il fratello Maurizio, dirigente del Partito comunista italiano.

La cognata Marcella, già collaboratrice di Togliatti, corre a casa di Giovanni pregandolo di raggiungere al più presto possibile il fratello maggiore in preda ad una grave crisi, piangente e disperato. Giovanni, preoccupato e quasi stupito, raggiunge Maurizio e lo trova con un fazzoletto bagnato di lacrime in preda alla depressione: era caduto il comunismo e, con esso, franava l’intera vita del senatore comunista. Scrive Giovanni:

“Ecco cos’era -allora sentii confusamente, ma ora trascorsi anni da quel pomeriggio d’estate e lui scomparso per sempre, comprendo chiaramente- ciò che accadeva tra noi due fratelli: la rivelazione segreta di una qualche radicale estraneità e mi dico: forse era sempre stato così, per una parte essenziale e decisiva delle nostre vite, Maurizio e io siamo stati estranei, stranieri l’uno all’altro. O almeno, se non stranieri, un enigma: lui per me e io per lui.”

Naturalmente, il Ferrara liberale e repubblicano cerca di consolare il fratello sconfitto dalla storia. Di una consolazione intelligente e argomentata, tendente a comprendere la natura profonda di quella sconfitta giacché, cita a memoria Vico, “Natura di cose è il loro nascimento in certi tempi e in certe guise”.

Ma un’altra figura risalta nel bellissimo libro di Ferrara, quella di suo padre Mario, liberale, crociano e amendoliano, avvocato antifascista, ferito nella prima grande guerra, impoveritosi negli anni del regime, firma di spicco de “Il Mondo” di Pannunzio. Figlio della cultura risorgimentale, scrive Giovanni Ferrara,

“come tanti altri, non odiava il regime fascista perché fosse un regime patriottico ma al contrario perché in quel gridato patriottismo tronfio di nazionalismo e xenofobia, e ora anche ridicolmente pervaso di retorica imperial-romana (…) vedeva il tradimento del patriottismo di tradizione risorgimentale, dell’Italia liberale in cammino verso la democrazia: quello per cui vent’anni prima era andato a rischiare la vita, giovane sottotenente dei granatieri”.

Ricordare questa nobile e sobria figura non è soltanto un atto di pietas ma, soprattutto, un modo di imporre, a noi stessi e ai lettori, un modello da seguire oggi che, faticosamente, si cercano di costruire nuovi soggetti politici come il Partito democratico di cui Giovanni Ferrara, per tanti aspetti, fu un lucido precursore.

Ernesto Paolozzi

da “la Repubblica Napoli” del 17 novembre 2007                                                                                                                         Repubblica archivio