L’Istituto italiano per gli Studi filosofici ha chiamato a raccolta molti studiosi del comitato scientifico per discutere in due giorni di dibattito sullo stato della filosofia nell’attuale situazione storica.
Un ritorno alle origini della ragione sociale stessa dell’Istituto fondato da Gerardo Marotta e diretto da Antonio Gargano col contributo disinteressato di studiosi di filosofia come Vittorio De Cesare, Aldo Tonini, Arturo Martorelli e tanti altri ricercatori, giovani e meno giovani. Un ritorno che è la premessa per un nuovo impegno nello sforzo di comprendere la realtà contemporanea attraverso lo sguardo della filosofia. Un ritorno che non è l’impossibile ritorno dell’identico ma il ritorno del diverso, come aveva acutamente intravisto Gianbattista Vico. In altri termini, un richiamo alla responsabilità della filosofia e del pensiero critico che non solo comprendono la realtà ma la modificano, l’orientano e, dunque, fanno parte della realtà, sono la realtà.
Compito arduo, si dirà, forse velleitario o pretenzioso.
Ma, se adempiuto con umiltà e generosità, necessario, prezioso. A chi altro, infatti, spetterebbe l’incombenza di aiutare a comprendere, e a modificare, la realtà, il proprio tempo? A tecnici, a uomini di chiesa? A tutti, se ben si riflette, a tutti quelli che, volenti o nolenti, consapevolmente o inconsapevolmente, esprimono un’idea, si comportano in un certo modo, esprimono, dunque, una filosofia. Quale che sia.
Anche i negatori della filosofia sono filosofi.
Lo scetticismo e il prassismo utilitarista sono momenti della filosofia, sono visioni del mondo che hanno una immediata, talvolta tragica, ricaduta sulla realtà e la storia, fin negli aspetti più semplici e banali della vita. Lo scettico nega la verità e, con essa, la moralità: nell’orizzonte dello scetticismo tutto è lecito, tutto è possibile, tutto è giustificabile. Lo stesso discorso vale per gli apostoli della concretezza e della praticità come valore assoluto, i quali dovrebbero ammettere, ad esempio, che si potrebbe rivelare pratico eliminare vecchi e poveri per risolvere alcuni problemi economici di una società in crisi. E poi sarebbe veramente pratico? Se solo costoro riuscissero a ragionare in un orizzonte appena più complesso, che i filosofi definiscono sistemico, potrebbero forse immaginare altre ipotesi , costruire altri esiti possibili.
La filosofia è necessaria e pratica, dunque.
Si potrebbe fare a meno dei filosofi, naturalmente, se per filosofo si intende un membro di una categoria di tecnici, generalmente professori, che si occupano specialisticamente di storia della filosofia. Ma non è il caso di chi, da anni, collabora con l’Istituto per gli Studi filosofici sotto il segno dell’assoluta indipendenza di pensiero, dell’assoluto disinteresse accademico, del dialogo, del confronto, della responsabilità e dell’impegno.
Se dessimo un rapido sguardo a ciò che è accaduto alla filosofia e, come in una cascata, alle scienze umane, alle dottrine politiche ed economiche, ci renderemmo conto che la storia recente ci ha lentamente condotto verso una sorta di bancarotta del pensiero. Cadute le grandi narrazioni filosofiche di origine ottocentesca, il neopositivismo e il pensiero postmoderno hanno occupato la scena nell’ultimo ventennio. La filosofia sembra essersi tornata a rinchiudere nelle accademie incapace di dialogare con la società, in altri casi si è ridotta a spettacolo fra gli spettacoli nei tanti festival organizzati nei periodi estivi a scopo essenzialmente turistico.
Proprio nel momento in cui in tutto il mondo rinasce invece un forte bisogno di filosofia, un’esigenza profonda di ritornare a interrogarsi su quale sia il senso della vita, lo scopo ultimo del mondo o, sul terreno della dimensione esistenziale, sui destini dell’umanità.
Da un lato dunque una filosofia sempre più professorale, dall’altro una filosofia banalizzata, sostitutiva di quelle scienze umane, anch’esse in crisi e a loro volta sostitutive delle religioni intese come strumento d’interpretazione dei fini ultimi della vita. Da un lato una crisi di anemia, dall’altro un’inaspettata vitalità che si perde nei mille rivoli di una società dello spettacolo, inquieta e smarrita, che non sa più distinguere fra studiosi autentici e imbonitori.
Non sarà facile districarsi. Ma è un buon inizio cominciare a discutere, confrontare orientamenti, formazioni e tradizioni diversi in un periodo storico nel quale i momenti di incontro sono rari, nei quali al dibattito e , se si vuole, alla polemica, si è sostituito un dialogo fra sordi o, meglio fra chi non vuol sentire.
Per mio conto ho cercato di mostrare che una via percorribile è quella di un ritorno al pensiero dialettico o critico dialettico.
Ad uno storicismo in grado di comprendere la complessità , ad una filosofia che riconosce, innanzitutto, il diverso da sé, ossia l’autonomia della prassi come garanzia della libertà, del pensiero come dell’azione. Un ritorno, naturalmente come si è già detto, che è un andare avanti giacché nessuno vorrà riproporre la dialettica hegeliana o le tante riforme di essa compiute nei due secoli successivi come un feticcio da adorare.
La filosofia non ha un gran futuro se non riuscirà a superare la polarizzazione fra spiritualisti e scientisti, per usare una vecchia terminologia. Non ci si può rifugiare nell’assoluto irrazionalismo correndo il grave rischio, sul piano politico, di affidarsi a più o meno insidiosi uomini della provvidenza oppure, sull’altro versante, di adorare una presunta oggettività della realtà, delle scienze, imprigionandosi, di fatto, in un mondo privo di creatività, originalità, in ultima istanza, di libertà.
Ernesto Paolozzi
da Repubblica-Napoli 25 gennaio 2013 Repubblica archivio