Turismo di massa la scomunica del Papa vuol colpire l’ideologia del divertimento.
Generalmente gli operatori turistici sono abituati a temere l’inquinamento, il maltempo, i repentini mutamenti delle mode e del gusto, le crisi economiche e, talvolta, perfino i troppo bruschi mutamenti dei regimi politici. Ma che a colpirlo questa volta potesse essere nientemeno che il Santo Padre proprio non se l’aspettavano.
Il Pontefice, infatti, non si è limitato a condannare soltanto il cosiddetto turismo sessuale (peggiore eufemismo non si poteva provare) che è, per così dire, una condanna ovvia e, comunque, almeno a parole, largamente condivisa. Stavolta ha colpito il turismo in uno dei suoi aspetti più normali, tipici dei nostri tempi. Ha battuto in breccia, vorremmo dire, più la stupidità che non la cattiveria; ha condannato, cosa inusueta per un uomo di religione, più l’inintelligenza che l’immoralità del turista di massa. Ha denunciato la pochezza del divertimento costruito in vitro dai villaggi turistici nei quali ci si diverte a vivere da buddisti piuttosto che da pescatori, da monaci indiani piuttosto che da ballerini cubani, e così via.
E’ una condanna che irrita perché coglie il ridicolo più che l’immorale, e tutti sappiamo che, in fondo, l’uomo teme il ridicolo molto più che non l’accusa di malvagità. Nel malvagio c’è del grandioso, nella trasgressione c’è dell’eroico, nella ridicola adesione a vieti luoghi comuni c’è solo del patetico.
Il Papa, indubbiamente, non metterà in ginocchio l’industria del turismo, e non credo che gli operatori che hanno pateticamente risposto al Santo Padre, spacciando i loro club per centri di autentica cultura e umana fratellanza, si debbano spaventare più di tanto. Ma, ciò nonostante, è stato un bene che il Papa abbia pronunciato le parole che ha pronunciato. Noi non possiamo sconfiggere, è troppo più forte di noi, il divertimento. E forse non sarebbe neanche giusto. Ciò che bisogna lottare è l’ideologia del divertimento, che è cosa diversa. E qui non intendiamo per ideologia nemmeno l’idea, già tante volte combattuta, che il divertimento si debba salvaguardare rispetto alla cupezza di una vita troppo dedita all’impegno o troppo pervasa di ascetismo. Già Leopardi, riecheggiando Pascal, affermava che non vi è nulla di meno filosofico che volere tutta la vita filosofica. E per dirlo Leopardi, che di pessimismo si intendeva, vuol proprio dire che è vero.
Qui si tratta di combattere l’idea che il divertimento sia un valore morale, paradossalmente, che sia più importante di qualsiasi altra cosa della vita. Divertirsi val bene un enorme sacrificio, economico, politico, morale, sociale, affettivo. I nostri giovani non vogliono divertirsi perché ritengono che sia meglio essere spensierati che impegnati, ma perché riconoscono nel divertimento la vera religione del loro gruppo, della loro sociologica etnia. Se qualcuno abbandona il cane o la mamma col femore rotto in uno ospizio, dovrà o non dovrà essere condannato? Dipende. Se avrà commesso questo atto perché costretto dal lavoro, dagli impegni politici, dai doveri dello studio, sarà ritenuto un uomo riprovevole. Ma se addurrà come giustificazione il fatto che aveva solo quei giorni di ferie a disposizione, per cui doveva liberarsi del cane o della madre, chi oserà mai condannarlo?
Pascal pensava al divertimento come a tutto ciò che ci diverte, nel senso latino della parola, rispetto al pensiero che abbiamo dietro la nuca, il pensiero della morte. Oggi il nostro vero pensiero nascosto, che ci portiamo come un fardello sulle curve spalle è il pensiero che potremmo, qualche volta, non divertirci. Paradossalmente, il divertimento è il pensiero dietro la nuca dell’uomo occidentale di questi giorni. Durerà ancora molto? Penso di no, perché, tutto sommato, come sono cadute le ideologie, prima o poi, cadrà anche l’ideale del divertimento. E sarà il trionfo della noia. Questa condizione, fra i nostri ventenni, è già, purtroppo, in gran parte realtà.
Ernesto Paolozzi
Dal “Corriere economia” del 25 giugno 2001