Il padre, Mario, liberale, crociano e amendoliano. Il fratello, Maurizio, comunista. Il libro autobiografico del liberale lamalfiano Giovanni Ferrara scorre, piacevole e interessante, ironico e amaro, fra la polarità di queste due figure familiari.
Qualche citazione perché appaia chiara la figura di questo avvocato antifascista, ferito nella prima grande guerra, impoveritosi negli anni del regime, firma di spicco de “Il Mondo” di Pannunzio. Figlio della cultura risorgimentale,

“come tanti altri, non odiava il regime fascista perché fosse un regime patriottico ma al contrario perché in quel gridato patriottismo tronfio di nazionalismo e xenofobia, e ora anche ridicolmente pervaso di retorica imperial-romana (…) vedeva il tradimento del patriottismo di tradizione risorgimentale, dell’Italia liberale in cammino verso la democrazia: quello per cui vent’anni prima era andato a rischiare la vita, giovane sottotenente dei granatieri”.

fratello comunista

Questa la formazione di Mario Ferrara, che segnerà profondamente tutta la sua esistenza. L’antifascismo lo condusse a vivere una vita di dignitosa povertà, nella quale furono coinvolti la moglie e i figli. Negli anni del regime l’avvocato Mario abbraccia, come in un’unica visione, le idee e i simboli dell’antifascismo democratico, liberale e socialista. Il Gobetti de La rivoluzione liberale, l’Amendola de La nuova democrazia, il Carlo Rosselli de Il socialismo liberale. Ciò delineava con evidenza l’adesione ad un liberalismo democratico, progressista, non conservatore. Ma sempre nell’ambito del crocianesimo, tanto è vero che non aderì al Partito d’azione. Scrive infatti il figlio Giovanni: “Questo anche perché nel fondo era un crociano: tendeva cioè a risolvere il dominante problema sociale e democratico nel superiore problema della libertà.”

Eppure, quell’accomunare personaggi e dottrine che, sul piano ideologico, e forse anche sul terreno della prassi politica, sono oggettivamente distanti, trova un fondamento non solo nel comune antifascismo ma anche nella visione del mondo che solo dopo molti anni avrebbe trionfato fra gli opposti totalitarismi.

“Del resto, dice invece con un certo pessimismo Giovanni Ferrara, Benedetto Croce e Gaetano Salvemini -oggi che li ripensiamo (se non siamo interamente imbarbariti, abbiamo anche pensieri come questi), e riconsideriamo i loro profondissimi contrasti e diverse storie e destini e stili intellettuali- ci possono apparire prima ancora che idealmente diversi (oltre che, Croce, di ben più alta statura e complessità di pensiero) profondamente uniti nel contesto di una grande civiltà a quel tempo già in crisi e oggi in gran parte scomparsa (…)”

Come abbiamo detto, ci sentiremmo di essere più ottimisti perché, se è vero che di quella civiltà si è perso lo stile e, per così dire, l’aura, è altrettanto vero che, sul terreno del metodo torna prepotentemente ad essere all’avanguardia, a condizionare gli uomini politici più avvertiti.
Se la ricostruzione della figura paterna è rispettosamente affettuosa, ammirata, per ciò che il padre fu e rappresentò, le pagine dedicate al fratello comunista, Maurizio, sono spietatamente sincere, quasi imbarazzate nel pur mai assopito legame fraterno.

Quasi come nella scena iniziale di un film che ripercorra una storia a partire dal suo epilogo, Giovanni Ferrara, senatore repubblicano, rievoca l’episodio clou che illumina e spiega la natura del suo rapporto con Maurizio, dirigente del Partito comunista italiano. La cognata Marcella, già collaboratrice di Togliatti, corre a casa di Giovanni pregandolo di raggiungere al più presto possibile il fratello maggiore in preda ad una grave crisi, piangente e disperato. Giovanni, preoccupato e quasi stupito, raggiunge Maurizio e lo trova con un fazzoletto bagnato di lacrime in preda alla depressione: era caduto il comunismo e, con esso, franava l’intera vita del senatore comunista. Scrive Giovanni:

“Ecco cos’era -allora sentii confusamente, ma ora trascorsi anni da quel pomeriggio d’estate e lui scomparso per sempre, comprendo chiaramente- ciò che accadeva tra noi due fratelli: la rivelazione segreta di una qualche radicale estraneità e mi dico: forse era sempre stato così, per una parte essenziale e decisiva delle nostre vite, Maurizio e io siamo stati estranei, stranieri l’uno all’altro. O almeno, se non stranieri, un enigma: lui per me e io per lui.”

Naturalmente, il Ferrara liberale e repubblicano cerca di consolare il fratello sconfitto dalla storia. Di una consolazione intelligente e argomentata, tendente a comprendere la natura profonda di quella sconfitta giacché, cita a memoria Vico, “Natura di cose è il loro nascimento in certi tempi e in certe guise”. Ma la giustificazione, che è comprensione storica, non impedisce a Giovanni di ricordare a se stesso i profondi, terribili, limiti culturali di Maurizio in quanto fedele rappresentante del comunismo:

“Mentre vi affannavate a spiegarci che Stalin, lo sterminatore, il fucilatore di quel Partito comunista che aveva fatto la rivoluzione, oltre che di una quantità incalcolabile di avversari e di innocenti, era un grande linguista e un oracolo in musicologia, e che Francesco De Sanctis era stato un precursore di Gramsci, che Benedetto Croce aveva capeggiato il blocco reazionario agrario-industriale scrivendo la Storia d’Italia, e magari Ariosto, Shakespeare e Corneille, insomma, mentre vi coprivate di grottesco e ridicolo con questa roba, tra intrighi e prepotenze (…) di fatto, credendo di fingere e invece facendo sul serio magari senza saperlo, aiutavate a realizzare il classico-romantico impegno ideale inciso in cima all’orrendo Vittoriano- Patriae Unitati, Civium Libertati (…)”

Con ciò Giovanni Ferrara, pur condannando senza appello la politica culturale del Partito comunista che in altre pagine del libro pone in antitesi alla grande cultura paterna, non solo per pietà fraterna ma per educazione, direi crociana, alla comprensione del senso della storia, riconosce l’importanza del ruolo svolto dal Partito comunista italiano nella ricostruzione dell’unità italiana dopo il fascismo.
Ed è così, perché pur nella radicale diversità delle posizioni in campo, il linguaggio politico era lo stesso, le lontane tradizioni culturali, a cui si attingeva, le medesime. La vera frattura o cesura storica si ebbe soltanto negli anni Settanta, quando ormai la personalità di Maurizio era già ben definita e determinata e sull’onda lunga del Sessantotto declinavano l’intera cultura e civiltà europea.

Solo oggi, per vie diverse e con linguaggi diversi, con metodi e strumentazioni che sembrano lontanissimi dallo storicismo di Vico piuttosto che dal liberalismo classico, si torna invece a riproporre quelle questioni e quelle soluzioni di cui il padre di Giovanni, l’avvocato Mario Ferrara, fu intelligente e intransigente difensore.

Lo diciamo spesso. Ma mai come in questo caso repetita iuvant: i liberali moderni non possono e non devono configurarsi come meri storiografi di se stessi. Devono provarsi, con il metodo liberale, a reinterpretare la nuova realtà, e ad adoperare tutti gli strumenti che il nuovo millennio offre loro. Che le idee di Croce possano diffondersi con il linguaggio di Morin, che Giambattista Vico possa riproporsi all’attenzione dei lettori attraverso la mediazione del chimico Prigogine, che il liberalismo abbia bisogno, dopo tanta astratta politologia, di nutrirsi dell’arte, della letteratura e soprattutto di nuova filosofia (che è quella antica ritornata), non deve sembrare una stranezza ma il compito che ogni sincero liberale deve assegnarsi. D’altro canto, se noi scorressimo le pagine de “Il Mondo” di Pannunzio, del quale Mario Ferrara fu collaboratore, ci accorgeremo di come quel geniale e colto giornalista, autentico liberaldemocratico, si provò negli anni Cinquanta a tradurre in un nuovo linguaggio il liberalismo classico e quello crociano in particolare.

L’esperienza de “Il Mondo” rappresentò e rappresenta uno dei rari elementi di vera modernità del nostro paese e perfino dell’Europa contemporanea. Tradurre in un nuovo linguaggio come abbiamo imparato è poi, in sostanza, prospettare con modestia ed umiltà un nuovo pensiero.

Ernesto Paolozzi
(da “Libro Aperto”, n.49, aprile-giugno 2007)