Il liberalismo ha un futuro? È la domanda che si pone Ernesto Paolozzi, docente di Storia della Filosofia Contemporanea presso l’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, nel suo ultimo libro “Croce e il metodo liberale” (Edizioni Libro Aperto, pagg. 158, euro 15), che raccoglie alcuni scritti pubblicati dall’autore nel corso degli anni sulla prestigiosa rivista “Libro Aperto”, dedicata alla discussione sul liberalismo.

Croce e il metodo liberale

In un’epoca contraddistinta da una forte rivalutazione dei temi del liberalismo (“una sorta di galoppante inflazione” la definisce Paolozzi) e in cui la parola “libertà” non è più pronunciata con disprezzo, l’urgenza è di evitare la banalizzazione di una tradizione nobile nel panorama politico italiano, perché “dove tutti diventano liberali rischia di non essere liberale più nessuno”.

In particolare il liberalismo di Benedetto Croce, pur nella sua complessità, rappresenta un riferimento essenziale per comprendere pienamente lo sviluppo dell’idea di libertà nel nostro paese.

Con l’opera crociana entra nella tradizione liberale il metodo di interpretazione della storia e l’idea di un liberalismo dell’azione e dell’impegno individuali, che influenzò molti dei maggiori intellettuali italiani del Novecento. La produzione storiografica di Croce fu rivolta interamente alla valorizzazione delle forze morali che operano all’interno dei processi storici, da cui poi scaturì l’idea della storia intesa come storia della libertà e della libertà come ultima religione dell’umanità.

Per Croce la libertà era sempre un valore etico, non riducibile ad altri valori: la sua complessità non consentiva di attribuire alla sfera economica il principio fondativo da cui potessero derivare tutte le altre libertà, morali, civili e politiche.

Paolozzi prende spunto dalle teorie di Benedetto Croce per sottolineare come un vero liberalismo che voglia tutelare l’individualità deve pensare l’individuo nella sua complessità e quindi deve saper scegliere di volta in volta quali sono le soluzioni più efficaci da adottare, riuscendo ad adattarsi alle diverse situazioni che si possono presentare. Da qui la necessità di non rinchiudere il liberalismo in un insieme di dottrine e formule statiche, come spiega l’autore nelle pagine del libro: “ Il liberalismo va messo sempre in movimento. Va collocato nella storia, nella realtà. Aggiornato continuamente. In questo senso il liberalismo è sempre metodo liberale. Non è una tecnica o soltanto una tecnica. Non è metodo nel senso dell’ingegneria istituzionale. Non è nemmeno un fiducioso adagiarsi sugli sviluppi spontanei dell’economia. La libertà, infatti, non può trovare nessuna autorità esterna a se stessa, esterna agli individui che, concretamente, la realizzano nella storia. Il liberalismo è sempre un’interpretazione della realtà attraverso il principio della libertà. Ed è un’assunzione di responsabilità nei confronti della realtà stessa.”

Governare la complessità della società moderna significa, quindi, costruire politiche della complessità: politiche necessariamente fondate sul principio della libertà, l’unico principio che non ha bisogno di essere provato attraverso spiegazioni scientifiche perché vive spontaneamente all’interno delle nostre coscienze.
Ne parliamo di seguito con l’autore.

 Paolozzi: il ritorno all’Europa
Paolozzi, oggi quali sono i pericoli maggiori per la democrazia liberale?

“Tanti. Quelli classici: il populismo e la mancanza di decisionalità. Con i governi di centrodestra abbiamo sperimentato quanto pericoloso potesse essere il costante richiamo al popolo in nome della democrazia come paravento per attuare disegni personali o di gruppi sociali molto determinati. Eclatante, ad esempio, il caso nel quale si giustificava l’evidente violazione della libertà di stampa con il richiamo alla maggioranza degli elettori che avrebbero legittimato qualunque scelta del Governo. Con i governi di sinistra abbiamo sperimentato come la democrazia possa arenarsi sul terreno della incapacità di prendere decisioni tempestive, o in contrasto con l’opinione pubblica preda di emozioni e passioni indotte dai mass-media.
Ma i nuovi attacchi vengono dalla cosiddetta globalizzazione, dalla perdita di senso della politica tradizionale in un sistema economico e sociale talmente complesso da risultare ingovernabile. Come è evidente questo è un problema non solo italiano.
L’unica soluzione che vedo è in un ritorno all’internazionalizzazione della lotta politica. Io sogno partiti europei, sindacati europei che organizzino passioni e interessi su scala sovranazionale. Personalmente penso che socialisti e liberali abbiano nella loro storia la possibilità di rintracciare i motivi per rilanciare una proposta politica su scala internazionale secondo i principii di libertà e redistribuzione del reddito.”

Nel libro lei afferma che la libertà è assieme la condizione e l’effetto della complessità della vita. La politica deve nutrirsi di questa complessità?

“Assolutamente sì. La complessità non si deve intendere soltanto come sinonimo di difficoltà a governare sistemi sempre più vasti. Ma come un paradigma o metodo con il quale si deve affrontare la realtà storica che non è mai schematica, determinata, meccanica. Ciò significa che non si può rimanere legati alle ideologie intese come pure dottrine me nemmeno scivolare nel cosiddetto pragmatismo senza valori che è anch’esso una ideologia. Un’ ideologia della meschinità. Complessità significa confrontare i valori con la contingenza storica; essere consapevoli che ogni singolo provvedimento incide sulla realtà tutta e, dalla realtà è condizionato. Penso che una democrazia liberale debba nutrirsi di responsabilità, e la responsabilità coincide con la libertà, con la complessità della vita. Il pensiero della complessità è un pensiero critico che ci insegna a vivere nell’incertezza, a dominare l’incertezza. Lanciai uno slogan che ha avuto un certo successo: l’incertezza è sul piano psicologico ciò che la libertà è sul piano etico politico.”

Un tema di stretta attualità è la gestione della cosa pubblica affidata ad amministratori tecnici. La politica sta perdendo il primato nel governo della società?

“Sì. È quello che abbiamo detto prima. Intendiamoci, un governo tecnico è sempre politico, nel senso che si fonda sulla scelta politica secondo la quale la tecnica ha un primato nel governo della società. Ora questo assunto è semplicemente errato. La tecnica non è neutrale, tantomeno garantisce un buon governo sia sul terreno utilitario che etico. In sostanza diremmo meglio: la tecnocrazia potrebbe insidiare la democrazia. Il fenomeno va affrontato sul terreno locale e globale assieme. È una lotta fra due politiche. Nel caso dell’Italia, il governo tecnico è la semplice e drammatica conseguenza della difficoltà dei partiti. Bisogna partire da questa constatazione per andare avanti e costruire una nuova politica.”

Lei individua nell’inattualità del pensiero di Benedetto Croce un riferimento per la crisi odierna. In che senso?

“Dico inattuale in senso polemico, se si vuole paradossale. Il liberalismo crociano è in realtà attualissimo. La crisi mondiale dei mercati mostra quanto Croce avesse ragione nel non appiattire il liberalismo sul sistema economico fondato, in teoria, sulla concorrenza. Il che, naturalmente, non significa demonizzare il cosiddetto mercato.”

La filosofia della libertà di Croce fu definita “anomala” rispetto alla tradizione del liberalismo classico anglosassone. Questa anomalia derivava dalla scelta crociana di intendere il liberalismo come metodo di interpretazione della storia?

“Girolamo Cotroneo definì anomalo il liberalismo di Croce per intendere, appunto, il legame con lo storicismo, con la tradizione vichiana ed hegeliana. Ho usato una terminologia diversa per evitare equivoci: ho preferito denominarlo metodologico. Croce lo definì meta politico. Ma questa definizione crea ancora più equivoci in chi non s’intende di filosofia. Credo sia meglio parlare di liberalismo metodologico.”

Croce pubblicò con la casa editrice Laterza quasi tutte le sue opere e come consulente ispirò le collane più innovative della casa, che ebbero una grande influenza sulla nostra storia culturale. Eppure fu accusato di aver provincializzato la cultura italiana…

“È una storia ancora tutta da scrivere quella riguardante la furibonda polemica anticrociana che è durata fino a qualche anno fa e, per certi aspetti ancora dura. La radice politica, direi strumentale, di quelle discussioni è evidente. Ma non sottovaluterei l’odio delle accademie nei confronti del grande filosofo antiaccademico. Certo è che il vero provincialismo della cultura italiana consiste proprio nel programmatico abbandono della più alta e innovativa filosofia italiana, quella crociana, appunto. D’altro canto dopo sessanta anni mi saprebbe dire cosa ha prodotto l’Italia?”

di Mario Scarpa

Da “Il mondo di Suk”, 9 gennaio 2012

https://www.ilmondodisuk.com/paolozzi-e-il-metodo-liberale/