In uno degli scritti più significativi prodotti dall’intellighenzia che si apprestava a divenire nazista, Carl Schmitt così delegittimava il liberalismo: «La questione è se si possa ricavare un’idea specificamente politica dal concetto puro e conseguente del liberalismo. La risposta è negativa» (Il concetto di Politico, 1932). Quel che il giurista proprio non poteva tollerare del liberalismo, di questa concezione solo «apparentemente politica», era la sua pervicace sfiducia nello Stato e, soprattutto, la sua fede nelle libertà dei singoli attori morali, la convinzione per cui ogni iniziativa politica debba trovare nel singolo individuo un terminus a quo e un terminus ad quem. A consuntivo del totalitarismo che lo vide protagonista, così come di tutti i totalitarismi partoriti dal terribile secolo che ci siamo lasciati alle spalle, è facile comprendere come le parole di Schmitt abbiano finito col tracciare la forza e non la debolezza del liberalismo. Ma facciamo un passo indietro.
Con l’ironia che lo contraddistingueva, quasi un decennio prima di Schmitt, anche John Maynard Keines si interrogava su cosa dovesse intendersi per liberalismo.

«Da un lato – osservava – il conservatorismo è un’entità ben definita: con una destra di reazionari, che gli infonde forza e passione, e una sinistra composta da quella che potremmo chiamare “la miglior specie” di conservatori liberoscambisti, colti e compassionevoli, che gli conferisce rispettabilità morale e intellettuale. E d’altro canto anche il laburismo è ben definito: con una sinistra di catastrofisti, che gli infonde forza e passione, e una destra composta da quella che potremmo chiamare “la miglior specie” di socialisti riformisti, colti e compassionevoli, che gli conferisce rispettabilità morale e intellettuale. C’è spazio per qualcos’altro in mezzo? Non sarebbe forse il caso – si chiedeva allora il grande economista – che ciascuno di noi decidesse se considerarsi un conservatore liberoscambista della “miglior specie” o un socialista riformista della “miglior specie”, chiudendo così la questione?».

Keynes dimostrò che, in effetti, «c’era qualcos’altro in mezzo». Perché in politica non si tratta di definire astratte geometrie, affascinanti quanto immaginarie, ma di fare i conti con la complessità e la storicità del reale. Questa era la lezione che del resto in quegli stessi anni impartiva da par suo Benedetto Croce. Ed è proprio a partire dal filosofo napoletano e dal suo “liberalismo metapolitico”, dalla sua “filosofia della libertà”, che Ernesto Paolozzi costruisce oggi l’ipotesi di un «metodo liberale». Non nel senso di una tecnica o magari di una ingegneria istituzionale, ma nel senso profondo e mai compiuto di «un’interpretazione della realtà attraverso il principio della libertà», principio che «guida l’azione del liberale nell’infinita fenomenologia delle scelte possibili. In questo senso è un’utopia concretamente operante che colloca la libertà dell’individuo, di un individuo in se stesso sociale e comunitario, all’inizio e alla fine del suo progetto». In Croce e il metodo liberale (Libro Aperto Editore, 15 €), Paolozzi raccoglie saggi e articoli prodotti negli ultimi anni, scritti spesso diversi per tematica e stile, eppure tutti proiettati a sviscerare la possibilità di formulare un liberalismo metodologico. Attento a superare ogni residuo metafisico ancora presente nel pensiero crociano, Paolozzi offre cioè le coordinate culturali e filosofiche per intendere il liberalismo come «concezione della vita in quanto metodologia di interpretazione della storia», ovvero come «una posizione morale o etico-politica in grado di guidare la storia, di indirizzarla nella concretezza della inesauribile lotta politica».
All’indomani della caduta del Muro e dell’implosione del sistema sovietico in molti vaticinavano la fine della storia, la stabilizzazione globale in nome dei valori liberali dell’Occidente, e invece abbiamo dovuto prendere atto che la storia non era affatto finita, che le contraddizioni non si sono affatto acquietate. La realtà eccede ogni sistema, anche quello apparentemente più dinamico, ed è da questa consapevolezza che deve prendere le mosse un liberalismo maturo. Nel saggio dedicato al “Nuovo Manifesto di Oxford”, in ricordo del Manifesto stilato nell’aprile del 1947, quando si riunirono ad Oxford i liberali di diciannove paesi per stilare una Carta di intenti e principi, Paolozzi per esempio osserva:

«Compito di un liberalismo moderno è quello di superare l’opposizione tra storia e natura, comunità e individuo, creatività e rispetto delle regole. […] Tutto ciò, naturalmente, nella costante consapevolezza che non esiste la soluzione definitiva; […] La Costituzione dei sistemi politici liberali coincide con la lotta per la continua riaffermazione dei principii liberali che quei sistemi intendono rappresentare».

Si pensi alle questioni bioetiche, cui pure lo studioso napoletano dedica un interessante saggio: come negare che i confini dell’autodeterminazione del singolo siano destinati a rimanere oggetto di incessanti definizioni e ridefinizioni, ogni volta cangianti, di fronte ai progressi della scienza? Come illudersi di poter trovare una «soluzione definitiva» di fronte al repentino modificarsi di realtà (pensiamo alla nascere o anche al morire) ritenute fino a ieri immodificabili?
Particolarmente bella, a tratti deliziosa, la parte del volume dedicata ai “ricordi”. Scritti dedicati a Giovanni Malagodi, a Salvatore Valitutti, a Raffaello Franchini, dai quali emergono spaccati di storia e di cultura per certi versi minoritaria, ma nei cui confronti forse oggi si farebbe bene a riconoscere qualche credito. Molto bello il ricordo di Malagodi, il “senatore”. Nel 1988 tenne a Napoli un importante discorso, in cui tra le altre cose parlò anche dell’utilità di un partito liberale in un momento in cui tutti si dicevano tali (più o meno come oggi). E bene, ricorda Paolozzi, il “senatore” non sposava affatto quello scetticismo, al quale rispose con semplici parole, parole crociane: «Ripropongo la mia fiducia nel riprendere a pensare». Il liberalismo, cioè, non ha la pretesa di afferrare l’enigma della storia, ha piuttosto l’ambizione di rispettarne la complessità.

Cristian Fuschetto

Da “il denaro” del 22 gennaio 2010

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