La categoria psicologica del narcisismo al potere.

Domenico De Masi, lunedì scorso su queste pagine, nel cercare di comprendere il perché del successo di Grillo, divide in modo un po’ caricaturale gli italiani in due categorie, come nella canzone di Giorgio Gaber sulla destra e la sinistra. Questa volta in analogici e digitali. Inutile dirlo, i digitali sono i grillini. Se volessimo abbandonare le categorie di questo tipo di sociologia e impugnare categorie psicologiche, ci si potrebbe sbizzarrire, e divertire (se la situazione non fosse tragica), con tante altre classificazioni di specie.

La categoria psicologica che viene immediatamente alla mente per indicare un tratto distintivo dei digitali è il narcisismo. Sono generalmente persone che non hanno fatto nulla nella vita o molto poco. In compenso sono soddisfatte dello loro ignoranza, che portano con estrema fierezza (quelle più ricche con garbo aristocratico) ma ritengono, comunque, di saperne più degli altri proprio in virtù di quella ignoranza. Sono persone comuni, dunque possono correggere tutti i mali che affliggono il pianeta. La loro precarietà, o il loro fallimento lavorativo, è sempre causato da altri: le università, le istituzioni europee, le banche mondiali e, innanzitutto, i politici italiani corrotti.

Sono una folla di geni incompresi che invocano una società del merito. Il Sessantotto incattivito e banalizzato.

Ma si sta materializzando una nuova dimensione di narcisista, il narcisista ricco e borghese, quello fallito perché la sua impresa, la sua piccola azienda, naturalmente all’ avanguardia (aveva pensato di mescolare due tipi di vino o di vendere in rete gadget della città di Napoli), è stata ostacolata dalla ottusità dei politici e dalla mediocrità della burocrazia, per tacere della scarsa lungimiranza degli istituti di credito. Ecco spiegato perché a Grillo arrivano voti da sinistra e da destra. Narcisisti di sinistra e di destra. Naturalmente anche la mia, come quella di De Masi, è una caricatura.

Alle spalle del movimento c’ è molto di più. Di meglio e di peggio.

La rabbia dei veri precari, l’ illusione ingenua che si possa modificare non la politica ma addirittura l’ animo umano con Grillo e Casaleggio, una lettura sagace della crisi del modello di sviluppo attuale, l’ insofferenza per una classe politica disarmantemente mediocre. Si avverte anche una schietta esigenza liberale o libertaria nel volere abbattere steccati e reticolati che imprigionano la nostra società. Il tutto tenuto insieme da un suadente, quanto pericoloso, democraticismo. Il mito della democrazia diretta (che funziona in piccole comunità ma è inattuabile su larga scala senza tramutarsi in demagogia) mette in discussione, giorno dopo giorno, le libertà individuali. Si trasforma in una dittatura democratica che può rivelarsi feroce come le dittature vere e proprie.

Trentamila persone, più o meno incompetenti, spesso narcisiste, quasi sempre anonime, che credono di poter rappresentare, e pretendono di rappresentare, i bisogni e le esigenze di tutti. Senza scampo per chi osa dissentire con il volere del popolo, di quei trentamila. Digitale o analogico, non è un fatto nuovo. In modi diversi la storia ha già conosciuto simili tragedie A Napoli abbiamo sperimentato il narcisismo al potere, il democraticismo assembleare che è il contrario della democrazia liberale. Ne stiamo pagando amaramente il prezzo.

Nessuno parla più di sviluppo, di crescita, di progresso, di piani urbanistici, di sbocchi professionali, di aperture ad altre città, regioni o paesi.

L’ unico segno di vita, la gara febbrile allo smascheramento del disonesto, che consuma come in un rituale satanico la nevrosi collettiva che i mass media alimentano; l’ unica speranza nell’ esaltazione di vecchie battaglie ecologiste più vicine all’ Arcadia che al Sessantotto che qualcuno interpreta come presagi di un mondo futuro. Una città ferita a morte, della cui condizione solo ora gli intellettuali cominciano a prendere coscienza mentre la borghesia continua a inseguire i vecchi miti di una destra plebea. Come del resto la borghesia delle province lombarde, che ancora sceglie Maroni con il suo fazzoletto verde.
Ernesto Paolozzi

da “la Repubblica-Napoli” del 7 marzo 2013                                                                                                                                        Repubblica archivio