Il Castello di Kafka.
La festa democratica delle primarie, come la denominò Prodi, ha rischiato di trasformarsi in una rappresentazione populistica di sinistra.
E’ questo lo stato d’animo, diciamocelo francamente, che serpeggia fra i tanti elettori e simpatizzanti del Partito democratico: vorremmo aiutare questo partito nuovo, vorremmo fare qualche cosa per farlo crescere, non sappiamo neanche a chi dirlo e a chi chiederlo. Qualcuno ha rievocato Il Castello di Kafka, quel romanzo in cui, l’agrimensore Kappa non riesce mai ad entrare nel castello, dove pure era stato chiamato, senza che un motivo chiaro ed evidente giustifichi tale impossibilità.
Il fenomeno della impossibilità kafkiana di fare politica si è presentato su due scene diverse, una nazionale ed una locale.
Sulla prima sembra che si reciti una commedia di contenuto berlusconiano ma con toni morbidi e affettuosi. Il leader decide tutto nel silenzio della sua stanza, mentre Berlusconi lo annuncia, come Lenin sulla famosa locomotiva, in una piazza gremita di Milano. A livello locale, dove nessuno sembra più in grado di governare il processo per evidente debolezza della leadership, le decisioni vengono prese allo stesso modo. Ma il giorno dopo si apprende che nessuno si è preso la briga di prenderle sul serio, nessuno ha veramente obbedito. Francamente non si può andare avanti così. Non volesse mai Iddio ci fosse un’opposizione vera ed attrezzata, il castello verrebbe espugnato in poche ore.
E l’errore più grande che i proprietari del castello possono commettere (già accadde ai tempi di tangentopoli) è quello di ritenere inespugnabili le loro fortificazioni.
Fortunatamente, in una recente intervista, il ministro Bersani, che è uno che conta, che è fra chi ha proposto le cose migliori nel governo e rappresenta un elettorato vero, non soltanto clientelare o addirittura presunto, ha posto, sia pure con garbo, la questione. Il partito che noi immaginiamo, per essere un partito democratico, dev’essere, per così dire, un partito permanente, che ogni giorno lavora sul territorio, incontra persone e persone, affronta problemi, propone iniziative, si scontra e si urta con la realtà quotidiana. Non può essere il partito che, una volta ogni tanto, propone una leadership oppure un programma e chiama gli elettori alla ratifica plebiscitaria.
Certo, non può essere il partito delle vecchie sezioni in cui si discuteva e si dibatteva e poi si portavano i risultati di questi confronti in un organismo centralizzato dove vinceva chi aveva più ragioni e più forza. Ma nemmeno, giova ripeterlo, può essere un partito del niente che, una volta ogni due anni, si riunisce fra mille gazebo seminati per le piazze cittadine.
Per questo motivo bisogna che i partecipanti alla festa della democrazia chiedano ora che dalla festa si passi al lavoro quotidiano e cioè che si creino le condizioni per espletare dei congressi veri e propri, nei quali si possa immaginare la partecipazione di veri e propri tesserati, come quella degli appartenenti ad associazioni e gruppi organizzati che intendano impegnarsi nell’ attività politica.
E’ da questo lavorio che dovrà nascere la classe dirigente del partito. Dove non conti certamente solo l’anagrafe (vecchio e nuovo) ma dove nemmeno conti soltanto chi si è già trovato, talvolta quasi per caso, ad occupare poltrone dirigenziali.
Non dico questo soltanto per esaltare la cosiddetta democrazia dal basso o la cosiddetta società civile di cui nessuno mai saprà dare una definizione. Ma perché sono convinto che la politica non possa che non essere lotta politica, ossia reale competizione fra coloro i quali hanno interessi e passioni da far valere.
L’esordio del Pd mi ha fatto tornare in mente un vecchio aneddoto. Un illustre uomo politico napoletano, rivolto ai suoi amici di partito, usava con tono accorato, ripetere di tanto in tanto: “Giocate le vostre carte. Voi dovete giocare le vostre carte, non abbiate paura”. Finché, un giorno, uno di loro gli rispose: “Professo’, dite bene, ma il problema è che voi, le carte sul tavolo, non le avete messe mai!”
Ernesto Paolozzi
da “la Repubblica Napoli”, sabato 25 novembre 2007 Repubblica archivio