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Michele Sità
Università Cattolica Péter Pázmány
(Piliscsaba – Ungheria)
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Introduzione
La catena dei “se”
Quando si cerca di tracciare il percorso di un grande pensatore bisogna farlo con grande
cautela, come se si stesse maneggiando un materiale prezioso, tenendo tuttavia conto del fatto
che il pensiero non è mai univoco, è soggetto alle più varie interpretazioni, prende la forma di
chi lo legge, è ripreso, riadattato, talvolta è stravolto, violentato, talaltra ricalca le
sfaccettature del luogo in cui viene ripensato, scorre col ritmo di un tempo nuovo, quello in
cui, appunto, lo si rilegge tentando di riappropriarsene. Se poi ci si interroga sulla diffusione
del pensiero filosofico, letterario o artistico di un autore al di fuori dei propri confini, viene
spontaneo chiedersi quale fosse la situazione culturale del Paese in cui tale pensiero venne a
svilupparsi. Oltre a queste ed altre domande nasce la benevola curiosità, nonché una sorta di
gioioso orgoglio, dovuto al fatto che il pensiero di un connazionale abbia varcato la propria
dimensione portando le proprie idee al di là dei luoghi in cui queste sono nate e si sono
sviluppate. Benedetto Croce è uno straordinario esempio di pensatore europeo a tutti gli
effetti, un degno rappresentante della cultura italiana che è riuscito a ritagliarsi uno spazio di
rilievo all’interno di un importante dibattito europeo. In questa circostanza mi occuperò della
presenza di Croce in Ungheria, un Paese che ha dei forti legami storici e culturali con l’Italia,
dei legami che si sono esplicati anche grazie alla diffusione, nel corso dei secoli, del pensiero
artistico, letterario e filosofico.
Una delle caratteristiche principali della filosofia è quella di porre delle domande, di
indagare per cercare delle risposte, ma spesso il pensiero s’imbatte nei “se” e comincia un
percorso a ritroso per capire cosa sarebbe successo e cosa invece sarebbe potuto succedere
“se” un fatto fosse accaduto al posto di un altro, “se” un’azione fosse stata fatta al posto di
un’altra, persino “se” una parola fosse stata pronunciata in luogo di quella reale. Nella lunga
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catena dei “se” non è facile trovare un capo ed una coda, spesso ci si perde in cerebralismi e si
è soliti dire che si tratta di discorsi che lasciano il tempo che trovano, discorsi poco utili ai fini
di una reale conoscenza dei fatti, in particolare dei fatti storici. Tuttavia il discorso sui “se”
non è molto lontano dal ragionamento che viene attuato nel percorso a ritroso che, partendo
dagli effetti, tenta pian piano di risalire verso le cause. Anche nel caso in cui i “se” vogliano
essere lasciati da parte, l’interpretazione risulta essere sempre una sorta di ricostruzione
fittizia, in fondo cosa sarebbe successo “se” colui che si impegna a ripercorrere e descrivere i
fatti storici lo facesse partendo da un effetto piuttosto che da un altro, o rintracciando un’altra
causa invece di quella che parrebbe essere la più evidente? Oppure, semplicemente, cosa ne
sarebbe di quella ricostruzione se solo fosse avvenuta in altro luogo e circostanza? Lo stesso
Croce ci mostra quel che accade nel momento in cui si compone una
catena di cause ed effetti: che si entra cioè, in un regresso all’infinito, e non si riesce mai a trovare
la causa o le cause, alle quali si possa in ultimo sospendere la catena che si è venuta
industriosamente componendo. Veramente, da codesta difficoltà taluni o molti deterministi della
storia si cavano in maniera assai semplice: a un punto qualsiasi, spezzano o lasciano cadere la loro
catena, che è già spezzata dall’altro capo in un altro punto (l’effetto preso a considerare); e
operano col loro troncone di catena come con qualcosa di compiuto e chiuso in sé, quasi che una
retta tagliata in due punti includa spazio e sia una figura1.
Non è qui il caso di approfondire il discorso, tuttavia questa breve digressione può
esserci utile per capire anche quale e quanta importanza possano avere i fatti autobiografici
all’interno dello sviluppo di un’idea, di un pensiero, di una riflessione. A tal proposito sarà
utile ripercorrere alcuni fatti salienti della biografia crociana, si pensi ad esempio al
terremoto abbattutosi rovinosamente nel 1883 sull’Isola d’Ischia, dove Croce perse i familiari
e rimase intrappolato per ore prima di essere salvato. Si trovava a Casamicciola in vacanza,
con la famiglia, l’unico altro superstite fu il fratello Alfonso, che aveva lasciato l’isola poche
ore prima. Croce all’età di diciassette anni2 si trovò improvvisamente senza una famiglia, la
tragedia la si sente nelle parole di Ugo Pirro, che aveva intervistato Croce pochi anni prima
della sua morte:
la madre e la sorella furono inghiottite dalle macerie, il padre invece perì dopo lunghe
sofferenze aspettando invano soccorso, ad un passo da Benedetto che nulla poteva fare
perché incastrato con tutto il corpo dalle macerie della casa. Il giovane fu estratto con una
gamba fracassata e un braccio ferito. Benedetto fu tra gli ultimi feriti a essere trasportato a
Napoli, le sue condizioni non destavano soverchie preoccupazioni3.
1 Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1989, p. 72.
2 Benedetto Croce nasce a Pescasseroli, in Abruzzo, il 25 febbraio 1866 e muore a Napoli il 20 novembre 1952.
3 Ugo Pirro, nel settimanale Oggi del 13 aprile 1950.
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Da quel momento Benedetto Croce si trasferì a Roma dallo zio Silvio Spaventa, che si
occupò di lui e della sua istruzione, permettendogli, tra l’altro, di respirare l’aria di un
ambiente culturalmente vivace, ricco di contatti con altri importanti pensatori dell’epoca come
Bertrando Spaventa e Antonio Labriola. Interessante anche un altro racconto che lo stesso
Croce ci fa di un altro terremoto da lui vissuto pochi anni prima, nel 1875, e dal quale si
riesce a capire il suo avvicinamento alla filosofia, quasi come “se” tra il terremoto e la sua
vocazione filosofica ci fosse uno stretto legame:
avevo meno di dieci anni e da poco tempo ero entrato in collegio. Una notte, a una sensibile scossa
di terremoto in Napoli, tutto il collegio si svegliò o fu svegliato; gli alunni, grandi e piccoli, si
rivestirono, e le classi o “camerate” si confusero nella stanza più ampia, allegri, come sono i
ragazzi quando accade qualcosa di improvviso e ne nasce confusione. Tra i presenti era un giovane
prete, sottile, ascetico, uno dei nostri preferiti, che leggeva, come sempre, tutto intento in un
fascicolo che aveva tra le mani. – Ma che cosa legge don Leonardo? – domandai a un compagno
bene informato. – Legge filosofia. – E che significa filosofia? – È una cosa di cui nessuno capisce
niente. – Io restai a lungo con questa definizione in mente e con la correlativa impressione: che è
poi l’idea che ne ha e ne avrà sempre la stragrande maggioranza degli uomini. E giova che ciò sia,
e la filosofia mantenga un certo carattere di esoterismo che segni lo sforzo con cui lo spirito passa
dalla conoscenza delle cose a quella del se stesso che le ha prodotte. Ma io rido talvolta tra me e
me, al ricordo di quello che fu il mio primo incontro con la signora Filosofia, alla quale ho poi
dovuto consacrare tanta parte del mio tempo4.
La “signora” filosofia, quindi, entrò in maniera forte nella vita di Benedetto Croce e, se
anche fosse vista come qualcosa di cui nessuno capisce niente, resterebbe comunque vivo
l’indispensabile compito di cui essa si occupa, quel traghettamento che porta dalla riva degli
effetti a quella delle cause che li hanno generati. Nello sviluppo del pensiero di Croce, come è
noto, suscitò stimoli e motivi di riflessione un incontro avvenuto verso la fine del 1800, si
tratta dell’incontro-scontro con Giovanni Gentile, che tanto influenzò il suo percorso
filosofico. La loro amicizia fu talvolta caratterizzata da dure e reciprocamente feconde
opposizioni tra Croce e il filosofo siciliano, che portarono alla rottura dell’amicizia in seguito
all’adesione di quest’ultimo al fascismo ed alla pubblicazione del Manifesto degli intellettuali
fascisti, che vide la luce nel 1925. In verità vi fu un’iniziale adesione al fascismo, ma dopo
poco Croce rifiuterà di assumere delle cariche pubbliche e romperà i suoi rapporti con il
Partito Fascista per aderire al Partito Liberale italiano. Risale invece al 1903 il primo
volume de La Critica, rivista di storia, letteratura e filosofia da lui fondata, e al 1919 il
prezioso saggio su Ciò che vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel. Nel periodo della
prima guerra mondiale tiene banco, per quel che concerne la partecipazione dell’Italia, una
inevitabile divisione tra “neutralisti” ed “interventisti”, Croce appoggerà senza riserve l’idea
4 B. Croce, articolo tratto da Quaderni della “Critica” diretti da B. Croce, marzo 1950 n. 16, pagina 126, rubrica
“Notizie e osservazioni”, articolo IV.
4
neutralista. Nel 1915 esce la versione tedesca del quarto volume della Filosofia dello Spirito:
Teoria e storia della storiografia, che verrà pubblicato in italiano nel 1917 e, nel frattempo,
esce anche il Contributo alla critica di me stesso. Questi sono solo alcuni degli eventi che
caratterizzarono la vita e l’opera di Benedetto Croce, ma a volte nella ricerca di cause ed
effetti, come già si è visto, si rischia di perdersi in un percorso a ritroso e, tramite una
selezione, di voler dare una logica ai fatti narrati. Secondo Croce la teoria dei cosiddetti
metodologisti della storia non sarebbe altro che
una foglia di fico, messa a coprire un procedimento, di cui lo storico, che è un uomo di pensiero e
di critica, si vergogna: l’arbitrio, un arbitrio che torna comodo, ma che appunto perciò è arbitrio5.
Per proseguire il nostro discorso bisognerà quindi far ciò che suggerisce lo stesso Croce,
ovvero dissipare l’ombra del determinismo che utilizza il “cemento della causalità” e l’ombra
della filosofia della storia che porta con sé, invece, la “bacchetta magica della finalità6”.
Le prime opere di Croce in Ungheria
Per quanto riguarda la diffusione di Croce in Ungheria possiamo subito affermare che
non si dovette aspettare a lungo, pur precisando che l’attenzione principale era rivolta alla sua
concezione estetica. L’interesse principale per l’estetica non sorprende, non solo perché
questo testo suscitò, anche in Italia, un intenso dibattito, ma anche perchè senza l’estetica non
si potrebbero capire a fondo le successive opere di Croce. Si ricordi inoltre che, se è pur vero
che in Italia egli era già molto conosciuto, fu proprio la sua concezione estetica che dette al
suo pensiero un respiro internazionale. L’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica
generale, uscita in Italia nel 1902, vede la luce in Francia nel 1904, in Germania nel 1905, in
Inghilterra nel 1909, in Spagna nel 1912 ed in Ungheria nel 1914, con la traduzione di Ern
Kiss ed un suo saggio introduttivo. A dir la verità Kiss aveva già cominciato ad interessarsi a
Croce qualche anno prima, intorno al 1912, data in cui uscì la traduzione de L’intuizione pura
ed il carattere lirico dell’arte. Queste date assumono un’importanza ancora maggiore se le si
accosta a quella relativa al primo storico dizionario ungherese-italiano, uscito nel 1910 ad
opera di K rösi, potremmo anzi dire che i primi anni del ‘900 videro un progressivo
avvicinamento non solo verso la cultura ma, per l’appunto, anche verso la lingua italiana.
Ma perché, tra le opere di Croce, fu proprio l’estetica a trovare un terreno così fertile? In
questo caso, senza entrare in una discussione prettamente filosofica, basti pensare che il
5 Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 73.
6 Cfr. ivi, p. 80.
5
concetto stesso su cui si basa l’estetica, ovvero l’intuizione pura, ricopriva senza dubbio un
fascino che incontrava il favore di nuove spinte intellettuali che, in quegli anni, nascevano più
o meno in tutta l’Europa. Le critiche che imperavano in quel periodo erano rivolte al modello
positivistico di conoscenza scientifica, ovvero a tutte quelle concezioni che davano sempre
meno importanza al soggetto individuale. L’estetica dell’intuizione pura la si potrebbe
considerare come il primo passo verso una concezione nuova di filosofia, non più considerata
come una disciplina distaccata dalle altre, bensì come una scienza che si accosta alle altre per
arricchirle.
Per quanto riguarda il particolare caso dell’Ungheria bisognerà tener conto anche di altri
eventi storici, in primo luogo la costituzione, nel 1867, della Duplice Monarchia
austroungarica. Potremmo dire che fino ad allora non esisteva una cultura filosofica
propriamente ungherese, fu proprio in seguito a questo evento che si intraprese un cammino
all’insegna di una maggiore autonomia culturale. Questo desiderio portò, verso la fine del
1800 e l’inizio del 1900, alla nascita di varie riviste (un particolare rilievo ebbe la Magyar
Filozófiai Szemle, ovvero Rivista Ungherese di Filosofia) nonché alla fondazione della
Società Filosofica Ungherese (1901). Si ricordi inoltre che, prima ancora della traduzione di
Kiss, era uscito nel 1911 uno scritto di Béla Várdai che ha per titolo L’estetica di Benedetto
Croce e la nostra recente letteratura. Nonostante l’opera sembri proporsi di analizzare
l’influenza del pensiero di Croce nella letteratura ungherese ci si trova a leggere, invece, un
riepilogo della concezione estetica del filosofo italiano. Sembra tuttavia che il nome di Croce
fosse già apparso in Ungheria, per la prima volta, nel 1907, su una rivista politica, Az Újság,
in una nota di Artúr Elek.
Dopo la traduzione delle prime opere l’interesse nei confronti dell’estetica crociana
crebbe sempre più, nel 1917, a soli cinque anni di distanza dall’edizione italiana, uscì il
Breviario di estetica, tradotto da Zoltán Farkas. Tuttavia la diffusione del pensiero di Croce
incontrò vari ostacoli, il più grande fu forse il legame che era venuto a stabilirsi tra il regime
fascista italiano, con a capo Benito Mussolini, ed il regime fascista ungherese di Miklós
Horthy. Croce, che agli albori del fascismo, come già si è accennato, aveva aderito al partito
pensando si trattasse, come dirà in seguito, di un impeto disordinato ma generoso di
rinnovamento dell’Italia, pian piano se ne distaccò, giungendo ad una rottura totale nel 1924,
in seguito all’assassinio di Giacomo Matteotti, un politico antifascista che aveva avuto
l’ardire di denunciare i brogli del fascismo durante le elezioni che avvennero, appunto, nel
1924. Probabilmente anche per questo motivo, a parte Gli elementi della politica tradotti da
József Révai nel 1925 e un saggio su una scrittrice spagnola, uscito nel 1926 grazie al già
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citato Béla Várdai, per poter leggere un’altra opera di Croce in lingua ungherese bisognerà
aspettare il 1940. In questo lasso di tempo tuttavia furono scritti altri saggi su Croce, se ne
vuole ricordare qui uno del 1932, anno in cui János Mester pubblica un testo in cui viene
messa in evidenza anche l’importanza, e forse la preponderanza, della valenza storicistica del
pensiero crociano. La rilevanza di questo testo riguarda anche il fatto che si tratta del primo
saggio ungherese che non si limita alla concezione estetica di Croce ed offre spazio e
diffusione alla sua concezione della storia.
Le interpretazioni tuttavia sono varie e talvolta contrastanti, se da un lato per Mester
Croce rappresenta il soggettivismo europeo, per László Lontay il filosofo italiano viene ad
essere considerato come l’ultimo dei razionalisti. Lontay tuttavia non si limita a questo, si
spinge oltre e critica Croce per aver concepito la storia come se fosse opera esclusiva dello
spirito umano, lasciando Dio al di fuori di tutto. Ricapitolando possiamo osservare che tra gli
anni ’20 e ’30, in ogni caso prima del ’45, circolano otto libri sotto il nome di Croce, ma non
si tratta mai di intere monografie. Nel 1940 compare invece una raccolta di scritti politici
intitolata Storia e libertà, e non è un caso che esca proprio in quegli anni, quando la libertà
diventava un desiderio sempre più forte nella popolazione. Nell’introduzione a quest’opera
Croce viene definito il “filosofo della libertà”, colui che vede nella rivendicazione della
libertà dello spirito le basi della cultura e dell’umanità.
Attila József e l’estetica di Croce
Nonostante gli ostacoli a cui già si è accennato, il pensiero di Croce aveva ormai
attraversato i confini ed era giunto anche in Ungheria, dove alcune personalità di rilievo si
sono indubbiamente confrontate con le teorie crociane. Tra gli altri spicca il nome di Attila
József, un grande poeta ungherese che possedeva anche una profonda vena teoretica e che fu
influenzato dall’estetica di Croce, in particolare dalla sua concezione di intuizione. Se da un
lato i Frammenti estetici di Attila József rappresentano delle riflessioni apertamente
anticrociane, dall’altro bisogna anche ricordare che Croce, dopo aver letto, nel 1942, alcune
opere di József (in particolare la poesia Mamma), definì la sua lirica grande, infinita e
sublime, definizione che giungeva allorquando il poeta ungherese era pressoché sconosciuto.
In merito è interessante un testo di Tamás Miklós intitolato La metafisica di József Attila,
considerato un poeta-filosofo che, negli anni ’30, ebbe anche il merito di introdurre in
Ungheria il pensiero di Martin Heidegger, in particolare il concetto di nulla, da lui ripreso.
Fino a quel momento nessuno aveva ancora nominato Heidegger in Ungheria, e si noti che
7
risale proprio allo stesso periodo la diffusione del pensiero heideggeriano in Italia, grazie ad
Ernesto Grassi. Tornando al concetto di estetica non si può dimenticare un importante saggio
di Géza Sallay, in cui viene evidenziato e messo a confronto proprio il concetto di intuizione
in Benedetto Croce ed in Attila József7. Sallay arriva a Croce attraverso Antonio Gramsci,
tuttavia questa la si potrebbe considerare come una nuova chiave di lettura. Si tenga conto che
nel secondo dopoguerra l’interesse per Croce riprese vigore, in particolare non si devono
dimenticare gli scritti di un italianista dell’epoca, József Szauder, secondo il quale l’opera di
Croce dovrebbe essere letta anche tenendo conto delle letture giovanili di Marx. L’altro
merito di Szauder fu quello di introdurre in Ungheria il pensiero di Gramsci e, nello stesso
tempo, di affiancare ed opporre a questa figura quella di Croce. Secondo Péter Sárközy
da allora in poi in Ungheria “studiare Gramsci” significa nello stesso tempo anche “studiare
Croce”, di cui altrimenti non si parlava affatto nei Paesi dell’Est-europeo degli Anni Cinquanta8.
Premettendo ciò che Sallay già aveva dimostrato, e cioè che la conoscenza che József
Attila aveva di Croce era parziale, nel senso che negli anni in cui vennero alla luce i suoi
Frammenti Estetici, le uniche opere di Croce che il poeta ungherese poteva avere tra le mani
erano L’intuizione pura ed il carattere lirico dell’arte e l’Estetica come scienza
dell’espressione e linguistica generale9, risulta evidente che la critica da lui portata avanti
non tiene conto degli sviluppi della concezione crociana di intuizione. In altre parole i
problemi sollevati da József erano stati trattati e superati da Croce in opere che già
circolavano, pur se non in lingua ungherese, nel periodo stesso in cui il poeta scrisse i
Frammenti Estetici. A ben vedere il titolo dell’opera di József già mostra quali siano gli
obiettivi del poeta, un frammento è una piccola parte, come se le sue riflessioni fossero
proprio tanti cocci messi assieme per cercare di capire cosa fosse e quale importanza
rappresentasse, dal punto di vista che più a lui interessava, ovvero quello poetico,
l’intuizione. Siccome pare comprensibile, riprendendo le parole di Croce, che
poeta ungherese, all’interno del mare che faceva capo al suo pensiero, per poi prendere una
direzione nuova, quella che porta, appunto, verso un’espressione poetica sempre più pura e
7 Cfr. G. Sallay, Az intuició József Attilánál és Crocénál, in AA.VV. A lét dadog csak a törvény a tista beszéd (a
cura di D. Gy. Feny , Z. Frater, Gy. Gelniczky, A. Nagy, ELTE, Budapest 1980, pp. 57-67.
8 P. Sárközy, Croce e Gramsci in Ungheria, in Benedetto Croce 40 anni dopo, a cura di J. Kelemen, Accademia
d’Ungheria in Roma, Roma 1993, p. 269.
9 Queste opere, come si è detto in precedenza, furono pubblicate in lingua ungherese, rispettivamente nel 1912 e
nel 1914.
10 Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 119.
8
personale. Secondo Sárközy l’importanza di questi frammenti la si deve ricercare non tanto
nelle sue riflessioni quanto
vuol però indirizzare verso un obiettivo ben preciso, quello della poesia, che risulta ben
chiaro già nelle sue parole, laddove il poeta identifica il concetto di intuizione con quello di
visione. Con questo presupposto è normale che l’arte diventi visione e che non vi siano
distinzioni a livello qualitativo e formale, di conseguenza per József Attila
l’arte non è visione, come per contro sostiene Croce. Essa, invece, opera in termini di visione, in
quanto viene in essere nella forma, e la forma per l’appunto è un’attività che si svolge nei termini
della visione. Ebbene io intendo affermare e argomentare che sul terreno della visione deve esserci
un momento ultimo. Questo momento è l’opera d’arte12.
L’opera d’arte per il poeta ungherese è un po’ come questi suoi frammenti, ogni singola
parte acquista valore solo se inserita in un quadro più ampio, solo se ogni tassello trova la sua
giusta posizione, una posizione che non può essere suggerita solo ed unicamente
dall’intuizione/visione ma deve essere anche determinata dall’azione e dalla forma. La visione
non è mai unica e non è mai in grado di offrirci un’immagine nella sua interezza, per questo
l’opera d’arte ha bisogno di continue visioni/intuizioni per giungere alla sua completezza, ha
bisogno di essere formata in maniera attiva, ha bisogno di un’ultima visione che, unita a tutte
le altre, indichi all’autore il momento conclusivo. Il richiamo alla forma, pur se non
sviluppato, suscita un certo interesse, anche perché nella stessa Italia era difficile trovare delle
valide alternative alla concezione estetica crociana. L’unica opera in grado di opporsi
all’egemonia crociana in campo estetico fu quella di Luigi Pareyson, che propose la sua
concezione estetica su una rivista filosofica (tra il 1950 e il 1954) poi pubblicata con il titolo
Estetica. Teoria della formatività13. In quest’opera al concetto di intuizione viene preferito
quello più attivo della formatività,
approfondire l’argomento, tuttavia mi pareva doveroso questo richiamo, soprattutto tenendo
conto del fatto che la stesura dei Frammenti Estetici di Attila József risale al 1931. Non
sappiamo se l’accenno del poeta ungherese15 alla forma sarebbe poi potuto sfociare in una
11 P. Sárközy, Croce su Attila József, József su Benedetto Croce, in Benedetto Croce 50 anni dopo, a cura di K.
Fontanini, J. Kelemen, J. Takács, Aquinqum Kiadó, Budapest 2004, p. 460.
12 A. József, La coscienza del poeta, a cura di Beatrix Töttössy, Lucarini, Roma 1988, p. 23.
13 Cfr. L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Bompiani, Bologna 2002.
14 Ivi, p. 18.
15 Com’è ben noto József Attila morì suicida nel 1937, all’età di 32 anni.
9
teoria simile a quella di Pareyson, tuttavia, pur non volendo ricadere nella solita catena dei
“sé”, resta comunque il fascino sprigionato dalle sue poesie che, in alcuni versi, sembrano
opere d’arte dettate proprio da
un procedimento in cui si fa e si esegue senza saper preventivamente in modo preciso che cosa si
ha da fare e come lo si deve fare, ma lo si scopre e inventa via via nel corso stesso dell’operazione,
e solo dopo che questa è riuscita si vede chiaramente che ciò che s’è fatto era precisamente il da
farsi e che il modo tenuto nel farlo era l’unico in cui lo si poteva fare16.
Lajos Fülep e la critica al concetto crociano di intuizione
Un altro nome notevole è quello di Lajos Fülep, uno dei più importanti storici dell’arte
ungheresi del secolo scorso che, tra l’altro, trascorse molto tempo in Italia collaborando con
Giovanni Papini. Questa loro amicizia la si potrebbe considerare come un ponte che collegava
l’Ungheria all’Italia, in primo luogo perché Fülep prese parte attivamente al circolo del
Leonardo, una rivista fondata da Papini ai primi del ‘900 con il compito di presentare filosofi
e idee, dando vita a dibattiti e confronti per far sì che la filosofia potesse uscire, in certo qual
modo, dai circoli più ristretti. Fülep, durante uno di questi incontri presso la Biblioteca
Filosofica di Firenze, presentò una relazione che suscitò un interessante dibattito ed ebbe un
grande successo. La relazione verteva su La memoria nella creazione artistica, si trattava di
una riflessione sul pensiero di Croce che, tuttavia, non risparmiava delle critiche alla sua
concezione estetica. János Kelemen, che più volte si è soffermato sull’argomento, ci fa notare
come
delle più grandi concezioni estetiche che videro la luce nel ‘900 ungherese. Kelemen nota
tuttavia che Fülep, pur portando avanti e sostenendo in maniera valida le sue idee, non è mai
riuscito a delineare e concretizzare, racchiudendola in un’opera, una teoria estetica che avesse
la forza speculativa di proporsi come una valida alternativa ad un’altra grande concezione
estetica del secolo scorso, quella di György Lukács. Ciononostante viene messa in luce,
d’altro canto, la grande finezza teoretica di Fülep, secondo il quale l’estetica di Croce sarebbe
l’”epilogo tardivo” dell’impressionismo, una diagnosi che Kelemen considera felicissima,
anche perché
16 L. Pareyson, Estetica, cit., p. 69.
17 J. Kelemen, Idealismo e storicismo nell’opera di Benedetto Croce, Rubbettino, Soneria Mannelli 1995, p. 129.
18 J. Kelemen, Profili ungheresi e altri saggi, Rubbettino, Soneria Mannelli 1994, p. 49. Cfr. pp. 37-55.
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La critica fondamentale che Fülep muove a Croce riguarda proprio l’intuizione,
concezione che lo studioso ungherese vorrebbe sostituire con la memoria. Per Fülep
in ogni intuizione o percezione nostra entra tutto il nostro passato – in più – ogni intuizione o
percezione, per quanto sia breve, dura un certo periodo di tempo, ha dei momenti che devono
essere legati al vincolo della memoria19.
Non si tratterebbe quindi di far combaciare intuizione ed espressione, come faceva
Croce, bensì memoria ed espressione, perché ogni espressione è, di per sé, memoria. Secondo
Kelemen sono due le direzioni in cui Fülep sviluppa il suo ragionamento:
da una parte, cerca di sostenere, con argomenti positivi, l’identificazione della memoria con
l’espressione, e dall’altra parte, cerca di rigettare, con argomenti contrari, la tesi dell’identità
dell’intuizione con l’espressione20.
In effetti il ragionamento di Fülep è plausibile, ma cerchiamo di portarlo in termini
concreti per capirne meglio le motivazioni. Nella creazione di un’opera l’artista non risponde
mai ad una sola unica intuizione, ma ad una serie di intuizioni che si susseguono l’una
all’altra. Ne risulta che l’opera non può assolutamente nascere dall’intuizione del presente ma
da qualcosa che va oltre la semplice intuizione: per Fülep si tratta della memoria. La memoria
riunisce in se le varie intuizioni e permette all’uomo di esprimere non il presente ma il
passato: tutto ciò che scorre nel momento creativo viene racchiuso dalla memoria e poi
espresso. L’artista sceglie, talvolta anche involontariamente, i pezzi di memoria che vuol
mettere in opera, non crea tramite un’intuizione totale né può creare uno stato d’animo o un
oggetto nella sua completezza, quel che crea è solamente ciò che lo ha colpito e che, di
conseguenza, si trova nella sua memoria. Per Fülep non è possibile esprimere il presente,
perché nel momento stesso in cui lo si vorrebbe esprimere lo si sta già ricordando, d’altro
canto entrano in gioco anche dei fattori soggettivi. In verità lo studioso ungherese pone le basi
per una riflessione che potrebbe andare oltre e che, purtroppo, è quasi sconosciuta nell’ambito
degli studi crociani. La prima conseguenza di ciò che egli dice riguarda il risultato dell’opera
d’arte, un risultato che è ovviamente diverso perché diverso è il modo di ricordare di ognuno
di noi. In questo modo, tenendo conto della varietà delle esperienze di vita e non
dimenticando i movimenti soggettivi dei ricordi, si avrà una differenziazione nel modo
espressivo, non solo all’interno di una stessa forma d’arte ma anche distinguendo, in base alla
propria scelta dettata dalla memoria, la forma d’arte che più si addice al nostro desiderio di
espressione: <19 Lajos Fülep, La memoria nella creazione artistica, in Benedetto Croce 40 anni dopo, Roma 1993, p. 292.
20 J. Kelemen, Idealismo e storicismo nell’opera di Benedetto Croce, cit., p. 129.
11
per forza, al dilettantismo21>>. Di certo ci troviamo di fronte ad una formulazione interessante
che, come si diceva prima, meriterebbe una maggiore attenzione, tuttavia è indubbio che
Fülep, nel definire Croce un dilettante, si sia lasciato prendere forse un po’ troppo
dall’entusiasmo. Nonostante il giudizio un po’ eccessivo di Fülep resta il fatto che, come
afferma Kelemen,
la pietra di paragone di una teoria estetica è la sua capacità di rendersi conto della realtà del mondo
delle opere d’arte, cioè, delle differenze e delle specificità dei generi distinti dell’arte […]
L’estetica crociana non può e, soprattutto, non vuole descrivere e spiegare queste differenze e
specificità poiché, in conformità del suo punto di partenza, cioè dell’intuizione e dell’espressione
semplice dell’intuizione, ribadisce in maniera programmatica la non-esistenza di esse22.
Tra coloro che erano presenti all’esposizione della relazione di Fülep, c’è chi lo aveva
elogiato per la sua chiarezza, ad esempio secondo Calderoni egli avrebbe addirittura chiarito
valevole presentazione, si basa su un fraintendimento della teoria crociana:
Su Fülep si sofferma anche un altro studioso ungherese, József Takács, che in un saggio
su Croce e le riviste italiane e ungheresi del primo Novecento nota proprio come la sua
interpretazione abbia <>. Takács, oltre
a ripercorrere in maniera chiara il ragionamento di Fülep, ricorda anche le influenze che in
quest’ultimo furono suscitate dalla filosofia di Henri Bergson, notando come la critica su
Croce fosse per lo studioso ungherese un punto di partenza per una trattazione autonoma del
problema.
Nonostante tutto quel che è certo è l’importante ruolo ricoperto da Fülep nella diffusione
delle idee di Croce in Ungheria, anche grazie ad una rivista (A szellem26, in italiano Lo spirito)
di cui era direttore, assieme ad un altro grande nome ungherese, quello di György Lukács.
21 Lajos Fülep, La memoria nella creazione artistica, cit., p. 295.
22 J. Kelemen, Idealismo e storicismo nell’opera di Benedetto Croce, cit., p. 131.
23 Lajos Fülep, La memoria nella creazione artistica, cit., p. 307.
24 Ivi, p. 305.
25 J. Takàcs, Croce e le riviste italiane e ungheresi del primo Novecento, in Benedetto Croce 50 anni dopo, cit, p.
432. Si ricordi anche il saggio di J. Takàcs, Fülep Lajos Croce-kritikája, in Tudományos ülésszak Fülep Lajos
születésének századik évfordulójára, Pécs 1986. Non si dimentichi inoltre un suo testo del 1981 sul problema
della storia dell’arte in Croce (Benedetto Croce m vészetelméleti nézetei).
26 La rivista ebbe tuttavia vita breve, uscirono solo un paio di numeri. József Pál ricorda che in Ungheria
però, la rivista “A szellem” (Lo spirito) di cui sono usciti solo due numeri e che aveva due direttori: Lajos Fülep,
il più rilevante storico dell’arte ungherese del secolo, e – nome non meno importante – György Lukács>> (La
presenza di Benedetto Croce in Ungheria, in in Benedetto Croce 40 anni dopo, cit., p. 259.
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Croce e Lukács
Tra i vari pensatori ungheresi anche György Lukács, che in Italia è il filosofo ungherese
più conosciuto, si è occupato di Croce. Nel 1915 scrive una recensione di Teoria e storia della
storiografia, ma anche in uno dei suoi testi più interessanti, La distruzione della ragione,
parla di Croce in maniera molto critica definendolo un irrazionalista. Secondo Lukács vi era
in Croce una imperdonabile confusione tra lo spirito oggettivo e lo spirito assoluto, ma tra i
due vi sono anche dei punti di contatto. A farceli notare è Kelemen che, oltre ad essersi
occupato di diverse questioni inerenti al pensiero di Croce, ha organizzato vari convegni su
tematiche crociane. Ciò che i due pare abbiano in comune riguarda, ancora una volta, la teoria
estetica:
Secondo Kelemen sia Lukács che Croce hanno mostrato in maniera chiara l’inevitabile
contrasto tra la forma estetica, che è qualcosa di universale, e l’opera d’arte nella sua
individualità, solo in tal modo si può delineare un approccio serio verso la sfera artistica. Vi è
tra i due, tuttavia, una differenza sostanziale: per Croce
Per quanto riguarda invece l’identificazione crociana della filosofia con la storia, Lukács
esprime alcune riserve, a volte sembra quasi che egli la consideri un passo indietro rispetto
alle concezioni storiche che fino a quel momento erano state elaborate. In altre parole è come
se la storia ne uscisse sconfitta e dovesse limitare o condividere il suo campo di ricerca con
un’altra disciplina, la filosofia, che sconfina in maniera ingiustificata nel mondo dei fatti.
Come osserva István M. Fehér in un interessante saggio sulle sorti del pensiero crociano in
Ungheria,
quando Croce definisce il progresso – un termine chiave della sua teoria – come passaggio dal
“bene” al “meglio”, respingendo la contrapposizione del bene e del male, tale operazione, a parere
di Lukács, appare come propria di una “metafisica panlogistica-dommatica”, in grado bensì di
costituire il filo conduttore di una filosofia della storia, ma non il principio della scienza storica, la
quale ultima è, e rimane, una scienza empirica […] Quella del Croce, sostiene Lukács, è
conseguentemente solo una metafisica più fine, più raffinata e sottile, più “pallida” e svuotata di
ogni contenuto rispetto alle precedenti, ma non meno dogmatica29.
27 Due critici ungheresi di Croce: Fülep e Lukács, in Il veltro, Rivista della civiltà italiana, 1-2 Anno XXXVII –
gennaio-aprile 1993, p. 134.
28 Ivi, p. 135.
29 I. Fehér, Il pensiero crociano in Ungheria, in Rivista di studi crociani, Anno XIX – Fascicolo I, Napoli,
gennaio.marzo 1982, p. 17.
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Il bene e il male per Lukács rimangono in contrapposizione, tuttavia pare che a volte la
vita, l’arte e la storia si intersechino tra loro e tentino di confondere le idee. Può quindi
capitare che Lukács, ripensando agli eventi della propria vita, si chieda quel che rimarrà del
passato, che cosa ne sarà delle proprie personali esperienze. Tuttavia il discorso può ben
essere ampliato ed abbandonare, pur se in modo apparente e provvisorio, la sfera personale,
in particolare tenendo conto che Lukács, nell’approccio agli altri pensatori, amava vederne la
continuità dialettica, cercava di riscoprirne, in altre parole, una parte “giovane” ed una
“vecchia”, come in un cammino naturale, laddove il Croce, di contro, a detta dello stesso
filosofo ungherese, pareva fossilizzarsi, come aveva fatto per Hegel, nel desiderio di
mostrare ciò che di un filosofo era “vivo” e ciò che, al contrario, risultava ormai “morto” e
privo di vita30.
L’incontro-scontro tra il pensiero di Croce e quello di Lukács presenta indubbiamente
dei risvolti interessanti, le loro riflessioni si sono più volte sfiorate, alimentate, influenzate,
dando vita ad un dialogo ancora aperto e dibattuto.
Croce in visita a Budapest
Ma se finora abbiamo parlato solo di opere non bisogna tuttavia dimenticare che
Benedetto Croce venne in visita a Budapest nel 1931, un periodo in cui, come abbiamo avuto
modo di vedere, era già abbastanza conosciuto in Ungheria. Un ampio saggio che documenta
il viaggio di Croce in Ungheria è quello di Tibor Szabó31 che, osservando l’avvenimento da
vari punti di vista, offre un quadro di quella che era la temperie culturale del tempo. Molte
sono le informazioni che Szabò riprende dai giornali dell’epoca, tra le pagine dei quali la
visita di Croce veniva trattata con un entusiasmo e un ottimismo tali da permettere di guardare
al futuro con occhi più benevoli. La notizia del suo arrivo non passò inosservata, un
quotidiano, il Pesti Napló, scrisse: “È arrivato a Budapest, e rilascia un’intervista, il più
grande filosofo vivente”32. Il motivo principale della sua visita fu un convegno internazionale,
dedicato alla metodologia della storia letteraria moderna, che si tenne all’Accademia
30 Si ricordino qui almeno due titoli: il testo di Lukács Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica,
(vol. II°, Einaudi Editore, Torino, 1975) e il saggio di Croce su Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di
Hegel (in B. Croce, Saggio sullo Hegel, Bibliopolis, Napoli 2006, p. 9-145).
31 Cfr. T. Szabó, La visita di Croce a Budapest nel 1931, in Benedetto Croce 50 anni dopo, cit., pp.58-68.
Importanti per questa ricostruzione sono anche i Taccuini di lavoro di Croce, in particolare il terzo taccuino in
cui Croce parla della sua visita a Budapest. Szabó accenna inoltre alle ricerche di Zsanett Kovács che, nel 1995,
aveva ripercorso, nella sua tesi di laurea, le tappe del viaggio di Croce in Ungheria.
32 Ivi, p. 58.
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Ungherese delle Scienze e presso l’Università Péter Pázmány. Sono interessanti anche le
descrizioni che i giornalisti dell’epoca fecero di Croce, sembravano molto interessati anche al
suo aspetto e non solo al suo pensiero. Così se da un lato notiamo come vengano riportate
delle frasi significative e d’effetto che riguardavano, ad esempio, l’unione dei popoli
d’Europa, dall’altro abbiamo delle caratteristiche descrizioni della sua persona: “Signore
bassotto, un po’ anziano con la faccia solcata da rughe, vestito negligentemente, con la faccia
pensierosa”, oppure “sotto la fronte alta e voltata si vedono, attraverso gli occhiali, il suo
sguardo sottile, attento e grigio, i suoi gesti impetuosi da italiano, e, malgrado la sua età, la
freschezza ammirabile del suo essere” ed ancora “ Croce è un uomo basso, grassetto, con le
maniche sgualcite, la cravatta storta: in una parola, si vede che dà poca importanza
all’esteriorità33”. Negli articoli viene definito, assieme a Bergson, il più grande filosofo
vivente, nonché un “buon europeo”, neoidealista, esteta, storico e filosofo della storia. Il
giornalista György Balint fa addirittura una comparazione tra lui e Socrate, principalmente per
il coraggio tutto socratico con cui espone le sue idee34. Quando gli si chiede se conosce degli
studenti ungheresi all’Università di Napoli lui risponde che, essendo libero docente,
all’Università ci va molto raramente, dice anzi di non essere un vero professore e confessa
anche che, in verità, insegnare non gli piace neanche. Si dimostra molto attento agli eventi
storici, racconta del libro al quale stava lavorando all’epoca, Storia d’Europa, ed afferma di
voler fare molta attenzione alle lacerazioni subite dai Paesi europei35. Croce Europeo quindi,
con una grande spinta ideale verso l’unità: “i popoli d’Europa devono unirsi e dovranno unirsi
– afferma Croce – non c’è altra via”36. In quest’occasione Croce incontrerà diversi filosofi e
studiosi ungheresi, tuttavia non conosce molto i personaggi di spicco dell’epoca. Fra i poeti
ungheresi nomina Sándor Pet fi, ma ammette: “purtroppo so pochissimo della letteratura
ungherese. Benché avessi avuto alcuni amici ungheresi ed essi mi avessero informato sulla
situazione della letteratura ungherese, ho letto, però soltanto le opere di pochi scrittori
ungheresi37”. In seguito, forse anche grazie a questa sua visita a Budapest, scriverà su Attila
József. A proposito dell’intervento di Croce al convegno di Budapest János Hankiss confessa
di aver apprezzato la sua onesta intellettuale e di aver ammesso che, nell’evoluzione del suo
pensiero, ha commesso degli errori ma si è impegnato a superarli. Szabó accenna inoltre alle
due parti in cui potrebbe essere diviso l’intervento di Croce a Budapest, mettendo in evidenza
33 Ivi, p. 60.
34 Cfr. ivi, p. 61.
35 Cfr. ivi, p. 62.
36 Ivi, p. 63.
37 Ivi, p. 65.
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come
rilevante, racconta <>.
Il fatto che Benedetto Croce abbia visitato Budapest mostra un altro importante punto di
contatto tra Italia e Ungheria, non solo perché, come si può ben capire, l’opera ed il pensiero
di Croce, in seguito alla sua visita, richiamarono un interesse sempre maggiore, ma anche
perché lo stesso Croce ne subì qualche pur leggero influsso. Grazie alla curiosità tipica dei
filosofi Croce fu portato a documentarsi su alcuni esponenti di spicco della vita culturale
ungherese, mostrando, com’era ovvio, un particolare interessamento per la produzione
letteraria e filosofica.
Croce in Ungheria, tra il presente e il futuro
Ci si avvicina pian piano ai giorni nostri e, per quanto riguarda le traduzioni possiamo
ancora ricordare La storia come pensiero e come azione, tradotta da József Balogh nel 1964,
una selezione di scritti sulla storia tradotti da István M. Feher, nonché La filosofia dello
spirito, uscita nel 1987 e tradotta da Márton Kaposi39. Le uniche opere di Croce pubblicate in
ungherese dal 1987 in poi sono La professione della libertà, edita nel 1990 (A szabadság
hitvallása, Kossuth, Budapest 1990), ed infine il Manifesto degli intellettuali antifascisti,
tradotto da József Nagy ed uscito nel 200440.
Ripercorrendo quanto detto finora si può semplificare brevemente il percorso del
pensiero crociano in Ungheria affermando che, indicativamente fino al 1945, Croce era
considerato principalmente il filosofo della libertà, un pensatore da prendere in
considerazione e con il quale confrontarsi. Dopo il ’45, pur se si scrive e si pubblica poco di
lui, si potrebbe dire che Croce fu visto principalmente come un filosofo borghese del quale
tessere le lodi. Benedetto Croce fu quindi considerato, prima di tutto, un’autorità nel campo
dell’estetica, era ritenuto il maggior filosofo vivente, una luce che credeva nella libertà e, di
conseguenza, faceva crescere la speranza in un futuro migliore.
38 Ivi, p. 67.
39 All’interno del volume tradotto da Kaposi, B. Croce, A szellem filozófiája – válogatott írások (Gondolat,
Budapest 1987) ritroviamo anche un elenco delle opere di Croce tradotte in lingua ungherese fino al 1987 ( p.
647).
40 Si tratta per il momento dell’ultima traduzione di un testo crociano, pubblicata all’interno della rivista Magyar
Filozófiai Szemle, nr. 2004/4, pp.534-537.
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Nella premessa che Kelemen fa al libro da lui scritto su Idealismo e storicismo
nell’opera di Benedetto Croce riecheggiano delle domande semplici ma fondamentali che, se
da un lato esigono una risposta, dall’altro ci offrono più di una delucidazione:
Croce è attuale? Merita, oggi, attenzione il pensiero crociano? Ha qualche ragione porre la questione. La
possibilità stessa di porre la questione dimostra, alla fine del nostro secolo, il cambiamento radicale del clima
filosofico. Croce, agli occhi di molti, è un pensatore anacronistico nonostante la sua opera, che abbraccia più di
mezzo secolo, abbia influito profondamente sulla cultura europea41.
Queste parole, scritte verso la fine del ‘900, mostrano non solo che Croce e il suo
pensiero sono ancora capaci di far riflettere e di creare interrogativi nuovi, ma anche che il
valore di questo filosofo italiano va ormai al di là del tempo che lo ha visto nascere e dello
spazio in cui questo si è sviluppato. Chiedersi se Croce sia attuale significa renderlo attuale
nel momento stesso in cui lo si chiede, significa voler dare attenzione al suo pensiero, volersi
ancora interrogare su argomenti da lui trattati e approfonditi. Questi argomenti diventano
attuali se vi è un interesse presente, cosa di cui è convinto lo stesso Croce, perché se non vi è
un interesse non vi sarà, di conseguenza, alcun desiderio di saperne di più su un determinato
argomento. Un pensiero, un evento, una parola… ogni cosa diventerà storia nel momento in
cui l’interesse la risveglia:
Croce in Ungheria fu principalmente conosciuto per la sua teoria estetica, molte e varie sono
le riflessioni che il suo pensiero offre al lettore di oggi. Egli non si limita a seguire questa
scia, non vuole scindere e disperdere le suggestioni crociano bensì
Croce è stato e sarà un nostro contemporaneo, anche perché, com’egli stesso affermava,
<>.
Lasciamoci quindi illuminare dalle idee portate avanti da Croce, lasciamolo dialogare ancora
con diverse culture, sicuri del fatto che, anche in Ungheria, la sua luce non si spegnerà.
41 J. Kelemen, Idealismo e storicismo nell’opera di Benedetto Croce, cit., p. 11.
42 B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 15.
43 B. Croce, Idealismo e storicismo nell’opera di Benedetto Croce, cit., p. 13.
44 B.Croce, Motivi pratici nella storiografia. II. Nell’intimo della genesi storiografica, in Filosofia e
storiografia, Bari 1949, p.86.