Il popolo di Seattle contro i globalizzatori.
I temi suscitati dall’aspra polemica, che vede contrapposti i movimenti antagonisti contrari alla globalizzazione e i cosiddetti moderati impongono una riflessione, com’è stato molte volte detto, che va al di là dei meri problemi d’ordine pubblico, sicurezza dei cittadini, e così via. Ma è troppo semplice, una volta accettata questa idea, affermare, come oramai fanno tutti, o quasi tutti, che la globalizzazione è per tanti aspetti un bene perché promuove lo sviluppo in tutte le parti del mondo ma che, d’altra parte, provoca gravi danni all’ambiente e alla giustizia sociale, per cui è necessario governarla. Questa posizione è così carica di buon senso che incomincia a preoccupare chi, forse per una sorta di deformazione professionale dovuta alla lunga militanza liberale, teme che l’eccessiva concordia nasconda un sostanziale conformismo.
Per esempio, non è un riflesso veteromarxista, sia pure inconsapevole, quello di dividere in due il mondo, da una parte i capitalisti che difendono i propri interessi, qualche volta con violenza, qualche altra con suadente affabilità, e dall’altra i non capitalisti, che anch’essi attaccano talvolta con indiscriminata durezza e altra con persuasive argomentazioni. Il giorno in cui, ad esempio, i paesi che una volta si definivano del Terzo Mondo riuscissero a sviluppare un capitalismo indigeno, fondato sull’abbondanza di forza lavoro a buon mercato, per il capitalismo occidentale si avvierebbe un confronto sul terreno della competizione strettamente economica estremamente duro e pericoloso. Sarebbe difficile per gli stessi lavoratori del mondo occidentale reggere al confronto dei loro omologhi “stranieri”.
In uno scenario del genere, che oggi sembra fantascientifico ma che ha dei precedenti, come ad esempio l’impetuoso sviluppo del Giappone negli anni Ottanta, mostra come la globalizzazione non soltanto non è un destino che determina il corso della storia, ma, soprattutto, non necessariamente genererà uno scontro tra cosiddetti ricchi e poveri. Potrebbe accadere che si riaprano confronti, e forse anche scontri, fra regioni geografiche del mondo, Stati, nazioni o sistemi di Stati e di nazioni. Già oggi è latente, all’interno del mondo occidentale, un urto fra Europa e Stati Uniti americani, nell’ambito del quale sarà difficile sostenere la tesi che gli interessi dei lavoratori americani ed europei sono gli stessi e sono contrapposti in maniera unitaria e troppo semplice a quelli del capitalismo americano ed europeo.
Ecco perché il cosiddetto movimento di Seattle, per il quale credo di avere sempre mostrato interesse e, perché no, simpatia, pur essendo la mia una formazione tipicamente liberale, appare oggi ancora troppo ancorato ad analisi politiche semplicistiche, a categorie interpretative ancora vaghe, prive di un reale sbocco politico. Limitarsi, sostanzialmente, a denunciare i disastri ambientali o le ingiustizie sociali è un esercizio di testimonianza importante ma incapace di colpire seriamente il presunto nemico.
Per mettere in campo un altro tema, questa volta già ampiamente discusso, risulta evidente che quella tecnologia messa sotto accusa dai difensori dei diritti dei più poveri e degli sfruttati, appare oggi come l’unica possibilità a nostra disposizione per alleviare, almeno, le condizioni di quei poveri e di quei diseredati. Non vorremmo che i primi a prendere le distanze dal popolo di Seattle siano proprio coloro i quali il popolo di Seattle vorrebbe rappresentare. Nella nostra storia, locale ma simbolicamente così importante, gli illuministi napoletani pagarono un altissimo prezzo per non aver pienamente compreso le reali condizioni storiche del Sud d’Italia. Non vorrei che anche oggi si commettesse, a livello planetario un errore simile, per non riuscire a capire i bisogni reali, le concrete esigenze di quella gran parte del mondo che vive in condizioni così drammatiche, senza contare i problemi sociali e morali che viviamo nel nostro Occidente e che sembrano oscurati certamente dal troppo luminoso ottimismo di liberisti e monetaristi, ma anche dai fuochi d’artificio di una contestazione che sembra più un movimento neoromantico che non un movimento decisamente politico.
La globalizzazione dunque va governata secondo l’autentico principio liberale delle garanzie istituzionali per tutti gli attori della scena politica. Ma perché si riesca a immaginare delle Istituzioni adatte allo scopo bisogna compiere lo sforzo di analizzare con maggiore e più concreta attenzione il reale sviluppo delle economie e delle condizioni morali del mondo. Sarebbe ridicolo negare l’esistenza di una questione meridionale, perché esistono tanti Sud, e poi pigramente accogliere l’idea che, nientemeno, esiste un Sud del mondo uguale e indifferenziato che occupa gran parte del globo terraqueo.
Ernesto Paolozzi
Da “Corriere economia” del 2 luglio 2001