Gli imprenditori under quaranta hanno una missione: inventare un nuovo capitalismo.

L’associazione dei giovani industriali svolse un ruolo importante negli anni del passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica. Io stesso fui testimone, nei vari dibattiti ai quali partecipai, della genuina volontà che quella associazione aveva di rinnovare radicalmente il sistema economico e politico italiano. Si trattava allora di dare al paese una spinta innovativa che attraversasse gli schieramenti politici e, soprattutto, che intersecasse le tante sfere dell’organizzazione economica, sociale, giuridica. Si trattava di rinnovare una classe politica che appariva ormai sclerotizzata; si trattava di rinnovare istituzioni che mostravano segni di evidente invecchiamento; si trattava di mettere definitivamente in moto l’economia del paese in senso liberale.

Non vi è dubbio che in quei giorni convulsi, fra la devastante azione giudiziaria e il nascere di tanti nuovi soggetti politici, perfino tra i giovani industriali serpeggiò un certo massimalismo, un certo, eccessivo, rivoluzionarismo. Ma, nel complesso, fu una stagione nella quale le esigenze di reale e chiaro rinnovamento furono interpretate anche politicamente, in senso buono, da una organizzazione che non ha fra i suoi scopi l’essere immediatamente impegnata in politica.

Forse oggi, come sempre accade, può serpeggiare un senso di delusione e di disillusione: non vi è dubbio alcuno che la cosiddetta seconda Repubblica non abbia saputo interpretare le speranze di quei giorni.

Eppure oggi si sente ancor più la necessità che le parti sociali e quelle giovanili in particolare tornino a svolgere un ruolo se non politico sicuramente etico-politico, capace di interpretare le nuove esigenze, le aspettative, i nuovi bisogni della società nel suo complesso.

Questo, a mio avviso, è il punto fondamentale, perché se è vero che le varie organizzazioni, dai sindacati a quelle degli industriali e dei commercianti e così via, devono essenzialmente adempiere il loro scopo specifico di rappresentare legittimamente, democraticamente, e vorrei dire civilmente, gli interessi di parte, è anche vero che vi è la necessità, in un momento di assoluta confusione politica se non di sostanziale vuoto, che ci si faccia carico degli interessi generali.

Ora a me sembra che la stagione del neoliberalismo italiano, cominciata alla metà degli anni Ottanta, si stia consumando non tanto o non soltanto perché partiti e istituzioni non riescono a svolgere coerentemente le loro intenzioni ( da destra a sinistra sono un po’ tutti liberali!) ma perché il liberalismo stesso rischia di svuotarsi dei suoi principii ideali e morali prima ancora che economici. Il liberalismo deve sempre poter promuovere nuove libertà, conferire nuovo senso alla vita, alla storia; essere, come pensavano filosofi di tradizione diversa, da Croce a Popper, da Dewey a Rawls, innanzi tutto una concezione della vita.

Per esempio, la richiesta di federalismo e di autonomismo è una richiesta che tende, quando è positiva, a federare le diversità, come nel caso degli Stati Uniti, e non a incoraggiare le particolarità, i settarismi, in ultimo il razzismo. Per esempio, l’unità politica dell’Europa non può ulteriormente ritardare, altrimenti il puro e burocratico governo dell’economia provoca un indebolimento complessivo dell’Europa e, alla lunga, una inevitabile crisi finanziaria ed economica.

Ancora. Il cosiddetto movimento di Seattle progredisce di giorno in giorno e, prima o poi, o troverà uno sbocco politico in grado di frenare la globalizzazione o provocherà nuove forti tensioni sociali, non prive di violenza.

In questo senso io penso che i giovani industriali possano svolgere ancora una volta un ruolo decisivo, tenendosi fuori il più possibile dalla politica politicante del nostro ristretto orizzonte italiano per cercare, invece, di prospettare un nuovo orizzonte per il capitalismo, onde evitare che, come è stato più volte efficacemente detto, possa esservi un divorzio fra capitalismo e democrazia, con grave danno per l’uno e per l’altra. Abbiamo oggi bisogno di immaginare rapporti sociali nuovi, in grado di non frenare lo sviluppo, di non tagliare le gambe alla concorrenza, di non imbrigliare l’evoluzione della tecnologia ma al tempo stesso di riconoscere che al centro di ogni iniziativa c’è sempre l’uomo, l’individuo, che è portatore di bisogni, necessità, speranze, dolori e gioie: l’uomo in carne ed ossa.

Ernesto Paolozzi

Da “Corriere economia” del 2 ottobre 2000