La funzione della borghesia in una società complessa. Una breve considerazione metodologica

Non è possibile definire in astratto il concetto di borghesia. Via via, nella storia, ha assunto significati diversi, anche molto diversi, e, al mutar dei significati cambiavano anche i giudizi storici, etici, politici, strettamente connessi ad esso. Non staremo, naturalmente, qui a ripercorrere la storia della borghesia o del concetto di borghesia. Equivarrebbe a scrivere una storia dell’età moderna e contemporanea.

Possiamo però cercare di circoscrivere l’idea di borghesia rispetto a quello che è il nostro problema politico: ossia il ruolo che la classe media svolge oggigiorno nella società e, più precisamente, in una società liberaldemocratica.
Per grandi linee potremmo affermare che l’avvento della borghesia come soggetto politico avviene negli anni precedenti la Rivoluzione francese e si presenta, sia nelle interpretazioni marxiste che in quelle liberali, come un fattore positivo di progresso nella storia. Soltanto una certa destra tradizionalista si oppone veementemente a questa linea interpretativa considerando la formazione del nuovo ceto economico e politico come un fattore negativo, disgregante il vecchio ordine costituito del cosiddetto Ancien Regime.

Le interpretazioni liberali e marxiste si differenziano, ad un certo momento, per la qualificazione che al ruolo del borghese si deve conferire nella costruzione delle società future.

Per il liberale la borghesia, pur con tanti limiti e difetti, rimane il centro propulsore del progresso complessivo dell’intera società. E’ una classe fra le classi ma la sua conformazione è tale che le consente, per interessi e per ideali, di svolgere un ruolo positivo. Innanzitutto è una classe aperta, non è una casta. Borghesi si può diventare. Ogni individuo, quale che sia la classe cui appartiene, può ambire a diventare un borghese. Questo rappresenta l’elemento democratico che si introduce nella tradizione liberale e la qualifica come democrazia liberale. Per il marxista la borghesia, pur avendo svolto un ruolo fondamentale nella storia del progresso umano, della civiltà complessiva delle intere società, pur rappresentando insomma un gigantesco passo avanti rispetto alla società medioevale, alle società chiuse, o teocratiche o come altro le si voglia definire, ha esaurito la sua spinta propulsiva una volta che, con le rivoluzioni del Seicento e del Settecento, ha conquistato il potere economico e politico. La borghesia ora resiste all’avanzata del nuovo; non rappresenta più la classe fondamentale perché ad essa è destinato a sostituirsi il proletariato. In questo luogo teorico, è bene sottolinearlo e tenerlo a mente, il concetto di borghesi assume un significato ulteriore e restrittivo. Diventa il ceto che detiene il possesso dei mezzi di produzione e, attorno ad essi organizza lo sfruttamento dei lavoratori. Il borghese comincia a confondersi con il capitalista e, in quanto tale, diventa autoreferenziale avendo perso la spinta propulsiva di cui si era dimostrato capace.

Come che sia di queste interpretazioni, possiamo dire che negli ultimi anni il concetto è ulteriormente mutato cominciando ad assumere sempre più connotazioni psicologiche se non antropologiche. Il borghese diventa un tipo umano, oltre che un soggetto economico e politico. Esaltato o criticato aspramente. L’atteggiamento borghese sembra incarnare l’atteggiamento dell’uomo medio, dell’uomo mediocre. Duramente fatto segno di disprezzo o di ironia sia dalla destra reazionaria che dalla sinistra rivoluzionaria.
Questo fenomeno conosce momenti di grande tensione all’inizio del Novecento, con l’avvento dei totalitarismi e, di nuovo, negli anni Sessanta con la contestazione giovanile culminata nel Sessantotto.
Che ne è oggi di tutto questo?

La condizione attuale della borghesia.

Da fulcro, come si è visto, dell’analisi storiografica e fulcro della lotta politica, la borghesia sembra oggi quasi sparita dal dibattito politico. Il termine stesso viene utilizzato poco, se non raramente, dalla politologia e, più in generale, dalla letteratura, dal linguaggio comune.
L’assenza del nome significa assenza del fatto? Per taluni aspetti sì. La destra reazionaria, aristocratica o populista, ha rinunciato a polemizzare con questo presunto ceto economico e sociale. Cerca altre strade e si costruisce nemici nuovi o, almeno, differenti: lo straniero, il diverso. La sinistra rivoluzionaria, nel suo travagliato tentativo di riconvertirsi in sinistra riformista se non liberale, avverte quasi come una forma di vergogna l’avere per tanti anni demonizzato la classe media che, sempre più, si andava connotando come classe borghese.

Tutto ciò potrebbe rappresentare un elemento positivo, di maggiore consapevolezza da parte di larghi settori della cultura politica. Ma è anche vero che, nel perdere quel riferimento, ossia la borghesia, nelle tante, possibili accezioni, intesa fondamentalmente come quel ceto sociale di piccoli imprenditori, professionisti, intellettuali, che più degli altri avverte la responsabilità del governo della società, la politica ha finito con lo smarrire il senso e la missione della politica stessa. Quando si parla, giustamente, di morte delle ideologie, di crisi delle grandi narrazioni storiche, si pensa generalmente ai grandi valori, o disvalori, che hanno caratterizzato i movimenti politici dell’Ottocento e della prima metà del Novecento. Ma, in realtà, con essi si è consumata anche quella dimensione borghese, a quei movimenti strettamente connessa, che ha determinato lo sviluppo economico e civile delle società contemporanee avanzate.

E’ così che riaffiorano, e diventano anzi prepotenti, ideologie identitarie, comunitarie se non razziste, ed è così, sul terreno economico, che quell’ampia classe media che oggi possiamo definire per comodità borghesia, si va da un lato proletarizzando e dall’altro riducendo a mero ceto autoreferenziale, pronto a difendere soltanto i propri più meschini interessi.

Un fenomeno che attraversa tutto il mondo e che assume caratteristiche ovviamente peculiari nel nostro paese.

La vittoria di Obama in America segna, forse, una controtendenza, se è vero come è vero che il leader democratico ha condotto l’intera campagna elettorale non solo o non soltanto in difesa dei più poveri e degli emarginati quanto, soprattutto, a favore di quella middle class che ha fatto la grandezza degli Stati Uniti d’America. Negli anni precedenti anche nella democrazia liberale americana il divario fra le classi e i ceti sociali era pericolosamente aumentato. Troppi poveri e pochi ricchi. Si era di fatto bloccata quella mobilità sociale, ossia la capacità “passare” da una classe economica all’altra, vero fondamento della società aperta americana, simbolo del sogno americano.

Negli ultimi tempi anche in Italia abbiamo assistito ad un fenomeno di divaricazione sociale che stenta a diventare coscienza politica. Naturalmente non si può rozzamente semplificare secondo lo schema della proletarizzazione della borghesia e dell’arricchimento di pochi gruppi. La situazione è complessa e confusa. Il precariato giovanile attraversa le classi, colpisce la borghesia come le classi più umili. Il divario nord sud si insinua nella crisi italiana proponendo, o riproponendo, una diseguaglianza non identificabile con particolari gruppi sociali e così via.

Ma, sostanzialmente, l’appannamento della borghesia come quella classe media capace di mediare fra gli interessi in campo per il bene comune, è innegabile. Causa o effetto della crisi dei partiti e, più in generale, della politica italiana?

Nella storia non esiste un rapporto di causalità fra gli eventi. Esistono connessioni, connessioni, congiunture.

Ciò che possiamo affermare è che, per tanti aspetti, si avverte la mancanza di quel ceto medio attorno al quale si organizzava un progetto di società, si indicava una strada di governo complessivo della comunità.

E’ probabile che si debba ripartire da questa constatazione per poter pensare di nuovo in un orizzonte ideale il futuro del nostro paese e, per certi aspetti, del mondo occidentale. Con ciò non vogliamo dire, sia chiaro, che la costituzione di una classe sociale sia, di per sé, il fulcro attorno al quale far ruotare tutte le altre scelte, private e pubbliche, che una società avanzata ha il dovere di compiere. Borghesia, è meglio insistere, è concetto astratto, empirico, che si sottrae ad una definizione assoluta, oggettivamente valida. E’ un concetto funzionale, questo sì, a comprendere alcuni aspetti e movimenti di una società. E’ allora forse meglio dire cosa noi intendiamo per borghesia in questo momento storico. Alludiamo a quel ceto di professionisti, piccoli e medi imprenditori, dirigenti, burocrati, insegnanti, i quali, generalmente, nel perseguire i propri interessi personali o di gruppo, sono consapevoli che essi non devono intaccare oltre un certo segno, gli interessi generali della comunità in cui vivono.

Due esempi molto semplici, quasi ovvi.

Il medio imprenditore deve avere la consapevolezza che il bene della sua azienda, il suo profitto personale, non può crescere e affermarsi con duratura solidità se il territorio nel quale vive si degrada, culturalmente, civilmente, ecologicamente, e se il paese in cui vive non progredisce sul piano politico ed economico. L’insegnante può essere colto e dotto quanto si vuole ma deve comprendere che la sua cultura non ha senso, o ha poco senso, se non riesce ad incidere sulla realtà che lo circonda, se egli non si dota di quegli strumenti necessari alla diffusione del suo sapere. L’imprenditore può mietere dei successi momentanei ma, alla lunga, imboccherà la via del declino. L’insegnante può gloriarsi della sua cultura ma, senza riconoscimento pubblico, è destinato a chiudersi in un poco splendente isolamento.

Si è sempre detto, ed è in parte vero, che il problema dell’arretratezza del nostro Mezzogiorno è stato quello della mancanza di una borghesia attiva, illuminata, progressista in senso ampio. La borghesia meridionale si sarebbe rivelata incapace di svolgere quella funzione civilizzatrice dell’intera società come è avvenuto in altri paesi dell’Europa avanzata e nell’Italia settentrionale.

Il problema che si pone oggi, a mio modo di vedere, non è, purtroppo, soltanto quello di costruire una nuova dimensione della politica meridionale in grado di favorire la crescita e l’affermazione di un forte e consapevole ceto medio. Ma è quello di prendere innanzitutto consapevolezza che è il nostro paese intero ad essersi, da questo punto di vista, meridionalizzato. Abbiamo detto all’inizio come in generale sia la borghesia dell’intero mondo occidentale ad essere entrata in crisi. Dobbiamo aggiungere che questa decadenza si avverte con maggiore evidenza nel Nord. E’ forse questo il senso profondo dell’affermazione per la quale, accanto ad una questione meridionale si pone, oggi, una questione settentrionale.

Il leghismo incarna l’espressione politica della crisi di valori e di identità della borghesia settentrionale.

La difesa di interessi meschini, la mancanza di respiro europeo, l’incapacità di coniugare sviluppo e progresso, l’abbandono di quella missione morale, prima ancora che politica, di guida della società: è questo il leghismo così come lo stiamo conoscendo in questi anni. Non si tratta di discutere le singole esigenze che quel mondo esprime ormai da un ventennio. Non è in discussione, ad esempio, il federalismo in sé e per sé. Come nessuno mette in dubbio che le imprese del Nord avvertano con fastidio la presenza dello Stato burocratico italiano ed, oggi, anche europeo. Ma solo chi vuol chiudere gli occhi di fronte alla realtà, mira a strumentalizzare tali esigenze, o preferisce sofisticare per dar prova di arguzia, può negare che il movimento leghista è un movimento regressivo, nel suo complesso tendente a modificare in peggio l’intero corpo sociale della nazione. Lo si desume dal linguaggio, dai comportamenti e da tutto ciò, insomma, che l’astratta analisi politologica non è in grado di cogliere ma che la politica dovrebbe, invece, intendere e fronteggiare con vigore e fermezza.

In conclusione potremmo dire che compito dei partiti, o di quel che rimane di essi, e, più in generale, della cultura politica del nostro paese, sarebbe quello di prospettare un’azione politica in grado di ricostruire quel tessuto forte che teneva insieme la borghesia italiana per proiettarla in una dimensione europea e mondiale. Come dire, piantare radici solide affinché il liberalismo, il riformismo, perché no lo stesso federalismo, possano realizzarsi in un concreto movimento sociale e di opinione, mentre rimangono, oggi, dei puri ideali politologici nobili quanto astratti.

D’altro canto un fenomeno analogo dovrebbe promuoversi fra gli attori principali della vicenda storia italiana, ossia in quella borghesia che deve, ancora un’altra volta, assumere su di sé il compito di guidare la ricostruzione morale, prima ancora che economica, di un paese ormai inesorabilmente avviato sul viale del tramonto.

* “Il cerchio”, Napoli, 2010