Non esistono principii assoluti, tranne il principio della libertà che per sua natura non ammette assoluti La complessità della politica e la politica della complessità* Che l’umanità insegua e brami un principio assoluto, che riduca i tragici eventi della vita in una unica soluzione positiva, è un’affermazione che si può sostenere con tranquillità: è una considerazione tanto vera da essere ovvia. Non sarebbe nemmeno utile parlarne se non fosse che in nome dei principii assoluti sono stati commessi crimini così assurdi da far perdere ogni speranza nell’umanità stessa. D’altro canto, è altrettanto banale sostenere la tesi della non esistenza dei principii. Basta guardare ciò che accade nella storia e nella vita quotidiana per accorgersi che la vita si costruisce per proprio conto in un’infinita fenomenologia di avvenimenti o accadimenti. Considerazione che non meriterebbe ulteriori approfondimenti se non fosse che anch’essa ha scatenato sciagure ed ha prodotto sofferenze inaudite. Compito della filosofia, è dunque quello di cercare un’altra strada, che indichi un percorso in cui l’esigenza assolutistica o riduzionista (1) e quella pluralista o relativistica si incontrino in una sintesi che renda conto dell’una e dell’altra posizione. Ciò che può avvenire attraverso un recupero del più moderno e intelligente pensiero dialettico o storicista. Questa grande questione, che a qualcuno potrà apparire importante, certo, ma troppo legata alla pura teoria, troppo metafisica o, quantomeno troppo filosofica, diventa immediatamente urgente, pratica, fin troppo pratica, se si cala nella realtà storica, nella realtà politica. Se ci proviamo, sia pure rapidamente e forse anche un po’ superficialmente, a ripercorrere la storia delle teorie politiche più note, confrontandole inoltre con i concreti avvenimenti politici, ci si renderà conto immediatamente di quanto la posizione assolutista, che potremmo anche chiamare riduzionista, sia precipitata in pratiche di fatto totalitarie e liberticide. Naturalmente, prima di procedere è necessario un avvertimento metodologico: non è lecito sostenere un rapporto meccanico, di pura causalità, fra dottrine politiche ed eventi etico-politici. Se facessimo ciò, ricadremmo nell’errore che intendiamo combattere. “Ridurremmo” la molteplicità degli avvenimenti storici ad una causa unica. Ad esempio, comprendiamo benissimo le intenzioni politiche di Popper che nel suo celebre volume La Società aperta e i suoi nemici, condanna Platone, Hegel e Marx come responsabili ideali dei totalitarismi. Ciò non toglie che nulla ci autorizza per questo a sostenere che quegli autori siano direttamente colpevoli, siano le cause, delle scelte che altri uomini, ispirati o meno da loro, hanno concretamente compiuto. Sono costoro i responsabili delle proprie azioni, che avrebbero potuto decidere di non commettere, influenzati o meno che fossero stati da un clima culturale, dallo spirito di un’epoca, da convinzioni politiche più o meno radicali e radicate. Se dovessimo interpretare, per rimanere nell’esempio citato, i tre grandi filosofi con l’acume e l’onestà intellettuale necessari, soprattutto collocandoli nel loro momento storico, troveremmo molti motivi per comprenderne le ragioni, se non per assolverli. L’idea platonica di costruire una repubblica perfetta, uno Stato ben ordinato (idea, peraltro, mitigata nell’ultimo dialogo platonico, Le Leggi,) risponde ad un’esigenza non solo psicologica, ma anche politica ed etica dell’epoca di crisi in cui si trovò a vivere, ma anche ad una problematica filosofica generale: la ricerca della verità, intorno alla quale organizzare la vita sociale. E così per Hegel, che cerca di trovare un elemento unificante a quel processo dialettico attorno al quale aveva costruito la sua nuova visione della storia. E per lo stesso Marx, che ambisce a costruire una società libera da ogni ingiustizia, da ogni sopruso, nella quale le classi sociali in perpetuo combattimento trovino un assetto finalmente pacifico. Naturalmente, fra le dottrine citate è necessario soffermarsi sul marxismo perché più delle altre, negli ultimi tempi ha influenzato il dibattito e la prassi politica suscitando, come è evidente, le polemiche più aspre. La condanna del marxismo come di una teoria filosofica intrinsecamente totalitaria è stata proclamata da più parti e con argomentazioni molto diverse. Qui, per l’economia del nostro discorso, ci interessa sottolineare le riflessioni condotte da Popper ma anche quelle condotte, sul versante storicistico, da Croce. I due filosofi, pur non intendendosi sull’uso linguistico del termine storicismo (2), condannano in realtà ciò che potremmo definire la filosofia della storia che, per tanti aspetti, informa il pensiero di Marx. Ossia l’idea che l’intero percorso storico si possa leggere e spiegare secondo alcuni principii unificanti ed esplicativi in senso univoco. In altre parole, il tentativo di ridurre l’intera fenomenologia della vita, i suoi aspetti culturali, psicologici, politici e perfino etici, ad una legge specifica, quella dell’economia intesa come lotta di classe per la detenzione dei mezzi di produzione. Anche lo storicista ed hegeliano Marx, antiilluminista ed antiscientifista, ricadrebbe in una forma di meccanicismo, oggi diremmo riduzionismo, o determinismo tipico della scienza newtooniana. Naturalmente, non bisogna dimenticarlo, sia Popper che Croce apprezzano tanti altri aspetti del marxismo e il filosofo italiano si spinge addirittura a proporne una revisione metodologica, definendo il materialismo storico, l’interpretazione che pone in rilievo gli aspetti economici della storia, come un canone di interpretazione storiografica molto spesso felicemente utilizzabile. Un canone, non il canone assoluto. (3) Ciò detto, pagato il nostro debito con la storia e con l’ermeneutica, in base a questo stesso principio ermeneuico, non possiamo esimerci dal dire la nostra, e non vi è dubbio che l’interpretazione di queste teorie politiche o, come direbbe Croce, etico-politiche, possa condurci a ritenere che il tentativo di ridurre il dibattito e la lotta politica ad un unico principio, sia esso quello del rafforzamento dello Stato, o quello della realizzazione del comunismo, contiene in se stesso un vizio totalitario. La complessità della vita non può essere ridotta o ricondotta mai ad un solo principio, perché in tal caso si annulla la complessità e, con essa, la libertà. La libertà, infatti, è assieme la condizione e l’effetto della complessità.E’ necessario,dunque,tornare a confrontarsi con la teoria politica introducendo nella discussione le nuove sensibilità della ricerca contemporanea o riscoprire metodi filosofici da troppo tempo ridotti a pure formule . Anche se non è ancora vinta la battaglia per la diffusione della nuova sociologia della complessità che fa riferimento alla vasta opera di Edgar Morin nelle nostre istituzioni culturali; anche se le nuove suggestioni provenienti dalla moderna epistemologia e dalla ridefinizione dello storicismo(4) non potranno facilmente sostituire nelle accademie e nei centri tradizionali di ricerca la vecchia mentalità positivista, non vi è dubbio che passi avanti sono stati compiuti e, almeno a livello di èlite culturale, il muro della conservazione è stato abbattuto. Si tratta ora di estenderla al mondo della prassi, della politica dove il metodo liberale ha certamente conseguito notevoli successi ma continua a rimanere prerogativa di una minoranza. Ciò certamente, come si è accennato, da un lato per una condizione psicologica generale, quella che potremmo definire dell’ ansia della certezza e della semplificazione, ma, dall’altro, perché nel liberalismo stesso il residuo riduzionista è ancora molto resistente. Nel primo caso, se è vero infatti che, attraverso la pratica quotidiana, è sempre necessario raggiungere momenti di accordo e condividere valori comuni, e dunque tendere alla semplificazione, è altrettanto vero che non è possibile governare la complessità con la semplicità: la complessità della vita sociale si governa con la complessità dell’indirizzo politico. Non basta la governance, è necessario il government. All’ansia della ricerca della semplicità bisogna sostituire il gusto per la complessità, il gusto per la libertà, come avrebbe detto Alexis de Tocqueville. Nel secondo caso, quello del liberalismo, la faccenda si complica. Sin dal suo nascere come dottrina politica agli albori dell’età moderna ( ciò che non va confuso con la storia della libertà, che ha origine con la storia stessa dell’umanità), il liberalismo si connota, naturalmente, come una dottrina, potremmo dire, dell’apertura, dell’accoglienza della diversità, della tolleranza, come ci ricorda la classica Epistola di Locke, simbolo stesso del liberalismo moderno. E non vi è dubbio che, sul piano storico e nella concreta azione politica, il liberalismo e la liberaldemocrazia, nel Seicento, nel Settecento e nell’Ottocento, hanno fornito, nelle loro tante forme e rappresentazioni, un esempio inimitabile di lotta ad ogni forma di totalitarismo o di riduzionismo politico, se così vogliamo denominarlo. O che combattesse i privilegi dell’antico regime, o che si istituisse come constitution of Liberty, o che fornisse gli strumenti per l’avvento e l’estensione della democrazia, come nelle rivoluzioni americana e francesi, o che sostanziasse la lotta per la liberazione di popoli e nazioni dal dominio straniero, come nel Risorgimento italiano e nel Romanticismo in generale, il liberalismo si è sempre connotato come una dottrina assieme rivoluzionaria e di governo, ma sempre tendente ad organizzare un nuovo ordine, una nuova costituzione politica e sociale. Ora, sia ben chiaro, noi non vogliamo negare che scopo di ogni dottrina sociale debba essere quello di organizzare la società stessa, altrimenti cadremmo in una sorta di anarchismo romantico e letterario non praticabile sul terreno della concreta vita associata. Ma non possiamo non ricordare che il liberalismo, nel corso della sua storia, per realizzare i suoi fini etico-politici, ha spesso dovuto, date le condizioni della storia, presentarsi esso stesso come una dottrina chiusa e, dunque, per certi aspetti, compiere un atto di riduzionismo politico e sociale. Non solo o non soltanto perché al suo sorgere esso si fondò su filosofie di stampo empiristico o razionalistico, ma soprattutto perché, per poter combattere i miti su cui si fondavano i vari regimi totalitari, si trovò costretto a costruire una teoria altrettanto forte e simbolicamente rappresentativa: ci riferiamo essenzialmente al cosiddetto giusnaturalismo, o diritto naturale. Era l’idea, all’epoca dirompente e rivoluzionaria, già per certi aspetti anticipata nello stoicismo greco e nel giusnaturalismo cristiano, che i diritti di libertà e giustizia fossero diritti nturali, e perciò eterni e inviolabili. Una tale concezione della vita, della quale non ci stancheremo mai di sottolineare la valenza rivoluzionaria, conteneva, come è facile ormai comprendere, un elemento statico, in qualche modo deterministico o riduzionistico e, perfino, metafisico. Quali fossero i diritti naturali, e perché naturali e perché inviolabili, non è possibile sostenere in astratto. In realtà quei diritti che i liberali ritenevano eterni, erano i diritti che si reclamavano in quell’epoca storica, e che erano conculcati da gruppi sociali più o meno oppressivi, più o meno odiosi (5). E’ oggi ancora possibile fondare il liberalismo su un’idea semplice, per così dire, del mondo, dopo che quelle teorie sono state messe a dura prova non solo dalla critica filosofica ma anche dalla storia stessa? Quante volte in nome di quei diritti ritenuti eterni sono state commesse ingiustizie, e quante volte si è concretamente conculcata la libertà nel nome dello stesso liberalismo? Non tocca a noi rispondere a questi interrogativi, poiché le risposte sono sotto gli occhi di tutti. Chiunque oggi volesse intrattenersi sui cosiddetti temi della bioetica, scoprirebbe immediatamente come anche il diritto dei diritti, il diritto apparentemente più inviolabile di tutti e “più eterno” degli altri, il diritto alla vita, non è così scontato come si crede. Basterebbe riferirsi al caso classico del possibile contrasto fra il diritto alla vita del nascituro con quello della puerpera, per rendersi conto di come, a voler affrontare queste tragiche vicende col solo strumento della logica razionalista, analitica o riduzionista, si cade in irrisolvibili contraddizioni. Sembra quasi, quando si leggono alcune sofisticherie “morali” che si giochi con la vita e la morte di uomini e donne concreti in una sorta di inutile sciarada filosofica. Un altro equivoco persistente e duraturo, che ingombra il campo del liberalismo contemporaneo è quello del cosiddetto liberismo economico o, al di fuori dei confini italiani, del privilegio del libero mercato considerato condizione necessaria per l’attuarsi della libertà politica. Un’antica questione che trascinò in una famosa querelle i due più grandi esponenti del liberalismo italiano, Croce ed Einaudi, che, pure, finirono col concordare sull’impostazione generale. Il punto non è se le libertà politiche o civili siano possibili in un sistema di completa statalizzazione dell’economia o di soffocamento di libero mercato. Nella condizione attuale delle democrazie liberali e delle politiche economiche degli Stati occidentali, non si può negare che non è facilmente immaginabile un sistema politico privo di basi liberali in economia. Da questo punto di vista, la posizione einaudiana non fa una piega. Ma, e questo è il tema che ci interessa ed è coerente con la nostra impostazione filosofica, si può ridurre la complessità della libertà ad un principio fondativo che pone nella sfera dell’economico l’assoluto a cui sempre riferirsi? Qui è l’equivoco. Lo stesso Luigi Einaudi, infatti, tenne a precisare che concordava con Croce, per il quale la libertà è sempre valore etico, un valore, per così dire, plurale, non riducibile ad altri, sia pure importanti e decisivi valori. Innanzitutto, infatti, non potremmo sostenere la tesi, meccanicistica che la libertà del mercato (liberalismo economico) di per sé genera le altre libertà, morali, civili, politiche. Sia in termini di puro ragionamento, sia per le dure smentite della storia, tale argomentazione non è sostenibile. Nessuno può dirci se in futuro si potrà costituire una società libera in condizioni economiche diverse da quelle che conosciamo e, d’altro canto, sarebbe abbastanza azzardato sostenere la tesi che prima del libero mercato la storia non abbia conosciuto momenti di alta e forte libertà. Ancora più azzardato sarebbe equiparare sistemi economici antichi, premoderni con l’economia di mercato, utilizzando suggestione e analogie che tutti possono facilmente trovare senza alcun fondamento rigorosamente storico o scientifico. Poiché la libertà è un concetto complesso, che permea e deve permeare tutta la realtà, essa certamente deve esercitarsi anche nell’ambito economico ma può darsi il caso, tra l’altro abbastanza frequente, in cui lo sviluppo libero dell’economia può produrre non solo formidabili ingiustizie sociali ma, con esse e attraverso esse, anche forti limitazioni della libertà individuale. E qui veniamo ad un ultimo ma essenziale aspetto della questione, il cosiddetto individualismo liberale. Il liberalismo è considerato, come è noto, la dottrina che pone al centro della sua concezione della vita l’idea che l’individuo sia il fulcro della storia stessa, il termine ultimo verso il quale è necessario commisurare ogni altra attività umana. Da qui l’esaltazione della creatività dell’individuo, la difesa delle sue prerogative essenziali, la costruzione di sistemi sociali di garanzia sempre più raffinati e, da qui ancora, la critica, spesso anche veemente, ad ogni forma di statalismo, di potere superindividuale che potrebbe conculcare la libertà individuale. In questo luogo, anzi, si situa il legame stretto fra la concezione economica del libero mercato e l’idea filosofica dell’individualismo liberale. Concezione forte, rivoluzionaria e prorompente, che ha segnato la storia dell’umanità, probabilmente la segnerà ancora e che trova punti di contatto perfino col personalismo di origine cristiana posto in polemica con l’organizzazione del cristianesimo stesso, con le Chiese realmente esistenti, che sembrerebbero aver smarrito quella iniziale, primigenia e spontanea “santificazione” della persona umana. Un liberalismo individualista che, per taluni aspetti, può anche accompagnarsi a forme di deciso e radicale anarchismo. Fin qui tutto bene, e credo sia difficile non accogliere in linea di massima tale concezione generale della vita. Ma,anche in questo caso, il punto è un altro. Cosa dobbiamo intendere per individuo? Ponendo questa domanda non penso, naturalmente, soltanto alla questione squisitamente filosofica, di sottile filosofia, circa la definizione che si può dare dell’individuo, da Aristotele a Leibniz fino a Croce. Questione rilevante, naturalmente, che per tanti aspetti precede ogni altra considerazione. Penso, essenzialmente, alla questione dell’individuo dal punto di vista etico-politico, ossia alla funzione sociale oltre che esistenziale, che si assegna, di fatto, alla persona umana nel suo svolgersi ed affermarsi. E allora, anche in questo caso, il rischio che ha corso e corre il liberalismo moderno è quello di chiudersi in una posizione riduzionista o, come si usa dire più genericamente, economicista. Se la difesa dell’individuo diventa la difesa dell’individuo egoista o egotista (6), se alla storia si applica una sorta di darwinismo sociale o, all’opposto, di nietzschianesimo sociale, per cui la libera esplicazione della creatività individuale diventa semplicemente la vittoria del più forte, dell’individuio scientificamente selezionato o del superuomo, unico giudice della propria volontà di potenza, siamo fuori da ogni etica della responsabilità. L’individuo non è una monade; è piuttosto un “animale politico”. Esso è le sue relazioni ed ha reale esistenza solo nelle sue relazioni che è come dire nella sua storia o, più semplicemente, nella sua vita. Da un punto di vista politico, dal punto di vista dell’etica, l’individuo non può che pensarsi nella sua complessità e, se ci è concesso esprimerci così, nelle sue infinite possibilità. Un liberalismo che voglia tutelare, garantire l’individualità non può prescindere da queste considerazioni e deve adattarsi all’idea che non vi è una soluzione finale che tuteli perennemente l’individuo, ma soltanto e sempre condizioni reali nelle quali, di volta in volta, si deve scegliere fra le tante possibilità in campo. E se questa posizione fosse accusata di relativismo morale (fondato sullo scetticismo filosofico) si potrebbe rispondere che ciò che garantisce l’universalità di questa posizione è la posizione stessa, ossia l’orizzonte etico-politico entro il quale si inserisce la difesa dell’individualità intesa come difesa della libertà morale e non della libertà puramente esistenziale, vitalistica o economicistica. Un nuovo liberalismo, se vuole seriamente candidarsi a governare la complessità della società moderna, una volta entrate in crisi le vecchie ideologie totalitarie e in presenza di nuovi fondamentalismi religiosi che cercano di coprire, talvolta anche solo strumentalmente, il grande vuoto lasciato dalle filosofie dell’Ottocento, deve tener conto, a mio avviso, di tali considerazioni. Il liberalismo come metodologia Se tutto ciò che abbiamo detto possiede una qualche verosimiglianza, dobbiamo pensare la dottrina politica liberale in un ambito filosofico diverso, non più fondato esclusivamente sull’empirismo e sul razionalismo di origine seicentesca. E’ necessario che si introduca nell’ambito della teoresi generale una concezione della vita che tenga presente che nulla avviene della nostra vita fuori dalla vita stessa, che è come dire fuori dalla storia, e che l’unico elemento di conoscenza possibile in questo ambito è il giudizio. Le costruzioni politologiche o, come pure si dice, di ingegneria sociale, non devono necessariamente essere considerate inutili o dannose, anzi. La questione è non ritenere quelle costruzioni come delle verità assolute ed eterne, delle pure oggettività. Anche se si presentano nella forma astratta del ragionamento logico ( o giuridico, costituzionale etc), esse nascono sempre nella storia per risolvere problemi particolari di un dato momento storico e sulla storia operano contribuendo a creare nuove condizioni di vita sociale che sfuggono ad interpretazioni puramente astratte. In questo luogo teorico si situa la novità del liberalismo che si potrebbe definire storicista, o anche complesso, che si affida alla capacità di giudicare. Capacità che implica una scelta morale e politica che si compie concretamente nell’azione. Volendo chiudere in una formula semplificatoria, ma forse efficace, è la prospettiva di Aristotele, dell’ Etica Nicomachea, contro il Platone de La Repubblica. Una moderna teoria della libertà non può che non fondarsi sulla phronesis, ossia sulla capacità di giudicare. Tenendo presente, rispetto alla posizione aristotelica, che la capacità di giudicare nasce in un contesto, è spinta, per così dire, dalla prassi, dai bisogni reali dell’umanità, che cerca di veder chiaro per poter agire. Se a questa pura constatazione logico-filosofica si aggiunge che l’azione morale e il giudizio filosofico (storico o complesso) si muovono nell’ambito di un’utopia possibile, di una idea regolativi alla Kant, che è l’idea della libertà morale come momento essenziale e sostanziale della vita dell’uomo, la saldatura con il liberalismo è pienamente compiuta. Questo tipo di atteggiamento filosofico, che diventa poi concreta prassi politica, fu parzialmente accolta e sviluppata da Benedetto Croce che definì il suo liberalismo metapolitico e la sua, in ultima istanza, una filosofia della libertà. Non è un caso che Girolamo Cotroneo ha denominato questa posizione come “anomala” rispetto al liberalismo classico di stampo anglosassone. Ma questa anomalia è, a mio avviso, coerente con l’intera posizione filosofica sostenuta dal filosofo italiano che volle, infatti, definire la sua filosofia come metodologia della storiografia. Da qui l’idea che il liberalismo moderno si possa definire metodologico, con ciò togliendo ogni residuo metafisico presente nel pensiero crociano, nella sua interpretazione e modificazione della dialettica storicista di Hegel. Per metodo, in questo contesto, non si intende, naturalmente, una metodologia in senso tecnica o pseudoscientifica. Metodo non vuol dire puro strumento eristico o ermeneutico. Vuol dire capacità di mettere in gioco, attraverso il giudizio, la complessità dei saperi, la creatività sempre originale della vita e della storia. Il liberalismo diviene dunque una concezione della vita in quanto è una metodologia di interpretazione della storia ed una posizione morale o etico-politica in grado di guidare la storia, di indirizzarla nella concretezza della inesauribile lotta politica. E’ una via a mio avviso utile, che da un lato evita il rischio di ridursi ad un nuovo e sia pure mite fondamentalismo e dall’altro evita di cadere nel puro relativismo. Una terza via, tra Platone e Gorgia, un ripensamento, forse, del Protagora sostenitore dell’uomo come misura di tutte le cose. Dell’uomo morale, beninteso non puramente economicistico o vitalistico. Così come a noi piace interpretare, forse forzando la lettura, il vecchio sofista. Insomma un Protagora che si distingue nettamente dallo scetticismo gorgiano. Ma come che siano queste interpretazioni, ciò che conta è cercare di proporre un’idea nuova del liberalismo che non rigetti storicamente il suo passato, che non rifiuti l’idea che la vita debba essere regolata da un principio universale, ma che, al tempo stesso, comprende che l’universalità non è mai astratta, non è mai fuori dalla storia, ma si presenta sempre nella concreta fenomenologia della vita. Come diceva un vecchio filosofo tedesco: “Dio è nei dettagli”. Questa concezione metodologica e aperta del liberalismo ci consente di tenere sempre aperto il dialogo con le altre posizioni filosofiche e politiche in campo. Di poter mantenere la sua identità pur nel rapporto e nella contaminazione con le altre culture e con le diverse sensibilità. Il governo della complessità Messi a fuoco alcuni aspetti fondamentali per una concezione moderna del liberalismo fra complessità e storicismo, è sempre utile, direi necessario confrontarsi con la propria epoca, se non per misurare, quasi in un rapporto di causa-effetto, la validità degli argomenti sostenuti, per comprendere l’efficacia dello strumento ermeneutico scelto. Fra i grandi temi che dibattiamo (per certi aspetti il tema centrale), vi è quello della cosiddetta globalizzazione o, come meglio dicono i francesi, mondializzazione. Per globalizzazione intendiamo, latu sensu, quella che sembra essere l’inscindibile interconnessione dei mercati, anzi l’unificazione dell’intero pianeta in un solo mercato. Per mondializzazione si allude all’integrazione non soltanto delle economie mondiali, ma anche dei costumi di vita, degli stili e della mentalità collettiva. Di fronte a tale fenomeno, ci si pone essenzialmente in due modi, nel senso di ritenerlo un fenomeno irreversibile che bisogna governare con gli strumenti tipici della democrazia liberale o del socialismo liberale secondo i criteri immutabili delle procedure (giuridiche, istituzionali e così via) strettamente legate a quelle concezioni. Ci si pone, viceversa, in netta contrapposizione, giudicandolo in maniera totalmente negativa, avendo individuato nella globalizzazione, sia da destra che da sinistra, la suprema vittoria del capitalismo o dell’americanismo mondiale. Sia che si provenga dal radicalismo di lontana origine marxista o ecologista, sia che si intendano difendere i diritti localistici di ristrette comunità etniche, religiose, sociali e così via, il nemico unico da abbattere rimane la globalizzazione. Se ben si riflette, sia nel primo che nel secondo caso si mette in gioco una visione elementare, non dialettica, della storia contemporanea, e si propongono rimedi che sembrano iscriversi tutti in quel cosiddetto “pensiero unico” che ispira sia i governi che le opposizioni nella politica della nostra epoca. Se ciò che abbiamo detto è vero, questo modo di affrontare la questione non produce i frutti sperati rischiando, al contrario, di ingabbiarci in una versione semplicistica e riduzionistica che non ci conduce in nessun porto. La tentazione di fondo è quella di spiegare le nostre vicende storiche, e soprattutto di governarle politicamente, con ricette semplici, anche se talvolta convincenti ma certamente non in grado di cogliere la complessità della situazione. Anche chi scrive spesso ha creduto, e in parte crede ancora, che, essendo fondamentale invertire il trend dell’economia, che sembra svilupparsi senza più controllo e vorticosamente rispetto alla politica, la politica debba riprendere il primato del governo della società e, perché questo possa accadere democraticamente e in un sistema di garanzie liberali, è necessario rafforzare ed estendere le grandi istituzioni internazionali, come l’ONU, l’Europa Unita. Rafforzare quelle istituzioni fondate sulla democrazia e la libertà che possono porre un argine allo svilupparsi quasi selvaggio del capitalismo mondiale senza per questo ridurne la creatività e la spontaneità. Ma è facile obiettare a questa posizione che pure rimane, come detto, interessante ed importante, che l’aspirazione, vorrei dire quasi kantiana, alla creazione di un governo unico e illuminato del mondo,è aspirazione astratta, alla quale si può tendere come a un modello da perseguire ma che, certo, non è realizzabile secondo un modello precostituito e ragionato a tavolino. D’altro canto c’è chi, come il Wallerstein, (7) ci ha già ricordato, in una prospettiva neomarxista, come già Karl Marx avesse prospettato la globalizzazione dell’economia nel 1848. Del resto fu Lenin a parlare dell’imperialismo come fase suprema del capitalismo e gli stessi economisti liberali come Keynes in America hanno sempre tenuto presente l’interconnessione strettissima tra i mercati mondiali e le politiche economiche mondiali. Non solo, ma a ragionare con più attenzione, a guardare con minore disincanto la condizione della politica contemporanea, è poi così vero che esiste una globalizzazione dell’economia e una mondializzazione dei costumi di vita? O meglio, qual è la portata della globalizzazione che, per tanti aspetti, è innegabile? C’è chi ha addirittura parlato di concetto alla moda. Ora, se solo si procede ad un’analisi più attenta, più storica e circostanziata de fenomeni in atto, il concetto di globalizzazione viene a perdere parte del suo significato: basterebbe pensare alla diversità della concezione del libero mercato esistente fra il sistema europeo, nel quale l’intervento dello Stato è molto presente, quello del Nord America, che attraversa invece una fase di liberismo economico più spinto, e quello cinese, in cui sembra non vigere nessuna regola pur in presenza di un dura dittatura politica. La globalizzazione allora assume catarreristiche del tutto diverse da quelle prima enunciate. E’ un sistema di rapporti economici, di scambi di merci, ma non è un sistema regolato secondo i principii del mercato, della concorrenza e del diritto internazionale. Insomma, è più un fatto, un dato, che non una organizzazione socio-economica di livello planetario. Sembra più congruo semmai parlare di mondializzazione, giacché, effettivamente, complici i grandi mezzi di comunicazione di massa, dai trasporti ai media, al mondo virtuale, effettivamente il nostro pianeta sembra più piccolo e tendente a forme di generalizzato conformismo. Lo stile di vita di un giovane californiano appare molto simile a quello di un europeo e quello di un giovane sudamericano a quello di un giapponese. Appaiono dunque modi di vivere simili in tutte le parti del mondo fatta eccezione, naturalmente, di quelle grandi aree completamente escluse dal tipo di civilizzazione in atto, dove mancano elementari condizioni di vita sociale e che preme, oggettivamente e minacciosamente ai confini del mondo occidentale. Ma anche in questo caso, per una elementare e ovvia legge dialettica, l’uniformità degli stili di vita provoca reazioni aspre e violente e, nel cuore stesso del mondo occidentale si moltiplicano i gruppi politici, le comunità religiose, le organizzazioni sociali che rivendicano loro identità specifiche, nettamente contrapposte allo stile di vita omologato dalla rappresentazione generale del mondo che ogni giorno forgiamo e, forse, ci inventiamo. Accanto alle questioni che abbiamo elencato, se ne potrebbero collocare tante altre, dal dramma ecologico che si paventa, alla diffusione globale di epidemie e malattie di vario tipo, fino ad arrivare al problema della comunicazione linguistica, che può sembrare astratto e irrilevante rispetto ai drammatici temi toccati ma che, pure, ha rilevanza enorme se si pensa che nel nostro mondo una lingua, l’inglese, sembra prendere il sopravvento sulle altre mentre nei paesi di lingua anglosassone si rafforzano dialetti e modi di dire locali come accadde in Europa al declino della latinità. Segnali contrastanti, difficilmente decifrabili. Se è chiaro a tutti, ad esempio, che non è possibile condurre una rigorosa e seria politica dell’energia o di salvaguardia dell’ambiente e del territorio in un solo paese, per grande e potente che sia, è altrettanto evidente che nessuna comunità può facilmente delegare su questi temi il governo del suo futuro, del futuro dei suoi figli. Ogni argomento toccato meriterebbe un ampio approfondimento. Ma nell’economia del nostro discorso questa rapida esemplificazione serve a dimostrare che mai come in questo momento storico non è possibile costruire politiche che non siano politiche della complessità: perché la politica è complessa e, se volessimo dare al termine complessità un significato etico-politico ancor più chiaro, potremmo dire, perché ogni politica deve fondarsi sulla libertà. Nel panorama del nostro mondo filosofico e politico compiaiono, come si è già detto all’inizio del nostro discorso, esigenze semplificatorie che cercano di ridurre questa folla di problemi a principii univoci nei quali trovare pace e serenità. Tutti penseranno spontaneamente alla rinascita dei fondamentalismi religiosi, più o meno severi o feroci, da un certo fondamentalismo islamico ad una sorta di neointegralismo cristiano come quello di cui si è reso interprete parte della amministrazione nordamericana. Ma esiste anche un fondamentalismo di tipo scientifico fondato sulle vecchie logiche dell’epistemologia positivistica la quale poi, con un salto logico tipico di tali concezioni, trapassa dalla presunta, fredda analisi dei fatti, alla più cieca fiducia in un futuro in cui ogni male verrà debellato per miracoloso intervento di scienza e tecnologia. Se non vorremo negare, ora, che parte cospicua delle tragedie che incombono sull’umanità potranno essere affrontate e risolte dallo sviluppo tecnologico (si pensi alla questione dell’energia), non potremo neanche negare che quella stessa tecnologia è in grado di produrre la distruzione del mondo. Ancora una volta, dunque, il principio che regola e deve regolare l’uso delle tecnologie e, per certi aspetti, orientare la ricerca stessa, non può che non essere una visione etica della società, e l’etica è sempre responsabilità, capacità di scelta nella complessità della realtà secondo l’unico principio che a mio avviso si può ritenere assoluto, che è il principio della libertà. In questo senso e solo in questo senso si può parlare di senso religioso della vita, che nulla ha a che vedere con i ritornanti fondamentalismi e integralismi perché contiene in se stesso, in quanto spirito etico-relisioso, il dissolvimento di quei fondamentalismi o catechismi. Ancora una volta, quel principio che non può essere motivato o spiegato con nessun ragionamento matematico, che non possiamo provare attraverso esperimenti empirici ma che vive spontaneamente nelle nostre coscienze, in chi più, in chi meno, che è il principio della libertà. Ernesto Paolozzi Note 1) Utilizziamo il termine riduzionista nel senso conferitogli da Edgar Morin. Si confronti, per un maggior chiarimento, il volume di Anna Maria Anselmo, Edgar Morin Dal riduzionismo alla complessità, Armando Siciliano, Messina, 2000 2) Si confronti, per le interpretazioni italiane di Popper, il volume di Bruno Lai, Popper in Italia, Rubbettino 2001, soprattutto il paragrafo Ernesto Paolozzi e la tradizione crociana 3) Cfr, B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Bibliopolis, Napoli, 2001 e G. Cotroneo, Popper e la società aperta, SugarCo, Milano, 1981, soprattutto il capitolo Le due facce di Marx 4) Si confronti Giuseppe Giordano, Da Einstein a Morin, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006 e Giuseppe Gembillo, Neostoricismo complesso, ESI, 1999. 5) Sul rapporto fra liberalismo e diritto naturale si confronti la classica storia del liberalismo europeo di Guido De Ruggiero, Laterza ,Bari 1925. Per una revisione critica del diritto naturale in ambito storicista si confronti Carlo Antoni,La Restaurazione del diritto di natura, Neri Pozzi, Venezia, 1959. 6) Su questo tema ha scritto pagine di grande interesse Valerio Zanone, uno dei maggiori rappresentanti del liberalismo italiano, soprattutto nel volume L’età liberale, Rizzoli, Milano, 1997. Per la peculiarità del liberalismo italiano, fra i tanti testi, segnaliamo l’ultimo di Antonio Jannazzo, Il liberalismo italiano del Novecento da Giolitti a Malagodi, Rubbettino, Catanzaro, 2003 7) I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il Mulino, Bologna, 1982
*Relazione letta al convegno con Edgar Morin tenutosi a Messina dal 24 al 26 luglio 2006 sul tema “Caos e complessità” e pubblicata da “Libro Aperto”, n.47, ottobre-dicembre 2006