Liberismo e liberalismo

La distinzione fra liberalismo e liberismo è tipicamente italiana e non ha riscontro in altre culture mondiali. Però, a guardare a fondo, appare chiaro che i concetti e le idee che sono a fondamento di tale distinzione sono invece comuni a tutte le culture politiche, almeno del mondo occidentale. Cerchiamo, allora, di essere il più possibile chiari sul significato di tali concetti, senza troppo ricorrere all’antica e nota polemica fra Croce ed Einaudi dalla quale, appunto, ebbe origine la distinzione fra liberalismo e liberismo, almeno così come la conosciamo noi.

Per liberismo si intende, essenzialmente, la libertà economica, ossia la libertà del mercato, della concorrenza fra industrie, aziende, semplici lavoratori, in qualsiasi condizione storica, geografica, sociale. Padri nobili del liberismo sono i liberali alla Adam Smith, tutti coloro che fra Settecento e Ottocento, propugnarono, contro i privilegi della nobiltà, dell’alto clero, dell’antico regime, la libera iniziativa economica. Nel nostro secolo, soprattutto, il liberismo lotta contro l’invadenza dell’iniziativa statale nel libero mercato e può essere ricondotta al nome del grande economista e grande studioso Hayek.

Ora, bisogna innanzitutto sottolineare che, nel suo sorgere, quello che abbiamo definito liberismo fu un movimento rivoluzionario che intendeva essenzialmente battersi perché si realizzasse, contro vincoli di varia natura e varia provenienza, una libertà fondamentale dell’uomo: la libertà dell’iniziativa economica che già Locke aveva difeso allorché aveva inserito il diritto alla proprietà fra i diritti naturali.

Allo stesso modo, anche nei confronti di uno Stato, e soprattutto di uno Stato non democratico, il liberismo più recente ha operato in senso rivoluzionario, intendendo garantire la libera iniziativa economica di gruppi o individui nei confronti di uno Stato troppo spesso oppressore.

Sappiamo tutti che nei confronti di queste posizioni si sono generate posizioni polemiche, anche aspramente polemiche, in difesa della socialità, dello Stato inteso come comunità di cittadini, e così via.

Ma a noi interessa, in questa prospettiva, chiarire la differenza tra liberismo e liberalismo. Il punto nodale fondamentale a tal proposito è questo: la libertà dell’economia deve considerarsi come uno dei tanti aspetti con i quali si è presentata nella storia la lotta per la libertà o bisogna considerarla come la premessa indispensabile per ogni altra forma di libertà? Per dirla con una formula: la libertà politica è possibile soltanto in presenza della libertà economica o è possibile ipotizzare una società liberale di tipo diverso? Questo è il vero punto di discussione. E’ evidente che da un punto di vista squisitamente filosofico, così come hanno sostenuto anche i due più autorevoli filosofi liberali del nostro secolo, Croce e Popper, non è possibile legare, meccanicamente determinare, tutte le libertà, etiche, politiche, culturali alla pura libertà economica. Si cadrebbe, paradossalmente, nello stesso errore attribuito a Marx il quale, sia pure con scopi diversi, sembrava sostenere che al fondo di ogni processo sociale vi fosse sempre la struttura economica che determina le sovrastrutture.

E’ un punto questo che mi sembra, in verità, innegabile. Non è dunque possibile asserire in maniera assoluta e definitiva né che senza la libertà dell’iniziativa economica non vi possano essere altre forme di libertà, né che, soprattutto, il libero mercato produca di per sé le libertà politiche. Abbiamo avuto esempi anche storici di paesi governati dalla socialdemocrazia nei quali l’intervento dello Stato nell’economia è stato preminente per molti anni, in cui non solo non si sono perse, ma si sono guadagnate molte libertà civili e politiche (penso alla Svezia e alla stessa Inghilterra laburista), ed altri paesi nei quali hanno convissuto il più aperto libero mercato e la dittatura più ripugnante e antiliberale.

Dunque, la distinzione italiana fra liberalismo e liberismo può e deve essere mantenuta ed estesa, per la chiarezza della distinzione stessa, anche alle altre culture. Il liberalismo può contenere in sé il liberismo. Ma non può e non deve appiattirsi sul liberismo stesso. Il liberalismo, è stato detto cercando una impossibile definizione, è la continua lotta per la limitazione del potere in tutte le sue forme. Ora, vi possono essere momenti della storia in cui il potere da limitare sia proprio il potere dell’economia.

Non voglio negare, né mai i citati Croce e Popper lo hanno fatto, che è difficilmente ipotizzabile, sul piano pratico, una società liberale nella quale non sia assicurato il massimo di libertà economica. Ma questo non è in contraddizione con l’idea che, per usare una vecchia terminologia marxiana, in ultima istanza il governo delle nazioni, il governo delle comunità, spetti all’etico-politico, ossia, nella mia prospettiva, al liberalismo.

La questione si fa chiara ed evidente oggi, nel momento in cui ci troviamo a fronteggiare la cosiddetta globalizzazione dell’economia, quella che alcuni chiamano americanizzazione, altri sviluppo incontrollato del capitalismo, altri ancora liberismo selvaggio. Contro questo gigantesco e in apparenza inarrestabile movimento che sembra essere movimento delle cose stesse, si levano forze di varia natura e di diversa provenienza. Sulla sinistra estrema, i movimenti anarchici, ecologisti, veterocomunisti, anarcosocialisti, i quali credono, essenzialmente, che un mercato mondiale libero sia in realtà un mercato nel quale solo i ricchi e i potenti prosperino, a discapito dei milioni di diseredati, a nocumento dell’ambiente, che è un bene comune, a discapito dei valori fondamentali della civiltà nata con il cristianesimo, il liberalismo stesso, l’Illuminismo della Rivoluzione francese e il socialismo, i valori di giustizia e di fratellanza. A destra c’è chi rinviene nel processo di globalizzazione la fonte principale della distruzione di tutti gli antichi valori su cui si fondano le tante comunità sociali, etniche, storiche. Con la vittoria indiscriminata del consumismo capitalista, si distruggerebbero le tradizioni famigliari, le lingue nazionali e i dialetti, le culture e le religioni e perfino le tradizioni alimentari.

Da un punto di vista liberale, che potrà sembrare mediocre ma che, se lo è, lo è nel senso aristotelico, si tratta invece di ricondurre lo sviluppo economico del capitalismo mondiale nell’ambito e nell’alveo del giudizio etico e politico. Non si tratta di distruggere un nemico ma di costringerlo a diventare amico. Si tratta di creare ed immaginare, attraverso la lotta politica quotidiana, un sistema di governo della politica mondiale, e dunque delle nuove Istituzioni adatte allo scopo, che siano in grado di governare il processo in modo che le palesi ed evidenti opportunità che il progredire dell’economia e della tecnologia contengono, non si tramutino in una tragedia collettiva, nell’oppressione dei pochi sui molti.

Questo mi sembra un punto di vista autenticamente liberale. Rispettoso della libertà economica ma guardingo e preoccupato, pronto sempre a far valere le ragioni della politica sull’economia e, soprattutto, le ragioni dell’impegno etico-politico su quello che sembra essere, e non è detto che sia, e in effetti non è, un processo irreversibile e ingovernabile. Nulla nella storia è irreversibile ed è sempre l’uomo il signore del sabato.

Sembrerà, lo ripeto, un punto di vista mediocre, come sempre sembra essere mediocre la ragionevolezza. Ma le gravi difficoltà che questo ragionamento incontra per affermarsi, i tanti nemici che contro esso si muovono, a cominciare dagli ottusi e integralisti liberisti a finire, come si è detto, agli estremisti della nostalgia a destra e ai velletarismi dei nuovi rivoluzionari, mostrano come, ancora una volta, il liberalismo sia destinato a rimanere minoranza benché sia forse il solo punto di vista veramente capace di prefigurare nuove e reali prospettive per il futuro.

Il saggio riproduce una lezione tenuta presso l’Associazione culturale UKMAR ed è pubblicato sulla rivista “C’E corriere d’Europa” (luglio 2002)