Critiche tradizionali alla democrazia*

E’ noto che non possiamo comprendere e percepire l’infinito, possiamo abbracciare con lo sguardo e con la mente soltanto ciò che ha un limite, dei confini. Perciò, se vogliamo comprendere la nostra democrazia, dobbiamo vederne i limiti. Tracciarne i confini secondo l’etimo latino. Conosciamo le insidie che nasconde il concetto di sovranità popolare e quello di maggioranza su cui, generalmente, si fonda. La democrazia non è un concetto vero, non è un’idea o una categoria in senso forte. La logica, la bellezza, la moralità, l’utilità, possono esser pensate e dedotte all’interno del nesso dialettico che costituisce il travagliato fondamento della vita stessa. Non è pensabile, in poche parole, la vita senza i concetti di verità, bellezza, moralità, utilità. Ma non è possibile definire fuori dalla contingenza il concetto di democrazia, se non ricorrendo alla banalità dell’etimo, alla vocabolaristica definizione: “governo del popolo”, che vuol dir tutto e vuol dir nulla. Ma pur volendo abbandonare le “vette” della filosofia pura per scendere nella pianura dell’empiria, non compiremmo decisivi passi in avanti. Non si scorge un metodo o un sistema democratico per eccellenza. Si incontrano, invece, tanti diversissimi modelli di democrazia quante sono le concrete società politiche. Dall’analisi storica scaturiscono problemi e questioni a prima vista irrisolvibili. La democrazia, ad esempio, reclama ed esige una formidabile cultura da parte del popolo sovrano chiamato, quotidianamente, a scelte di grande difficoltà tecnica e di grave responsabilità etica. E’ difficile, se non impossibile, che una così grande e variegata moltitudine di individui possa costantemente essere all’altezza del difficile compito assegnatole. La democrazia non può vivere senza cultura intesa come educazione nel senso più ampio della parola.
Dal suo sorgere nei tempi moderni, ossia dal lento declino del mondo medioevale fino alla metà del nostro secolo, lo sviluppo della democrazia si è sempre accompagnato alla crescita e alla diffusione della educazione, dell’erudizione, della scienza, del sapere. In alcune fasi si è potuto assistere ad un deperimento della qualità, alla mancanza di grandi personalità, ma la crescita quantitativa della cultura è stata costante, sempre crescente la diffusione popolare dell’istruzione. Ciò che è accaduto, ad esempio, in Italia e in America negli anni Sessanta e Settanta, scomparse le grandi figure di Croce e di Dewey, dominatori della scena in quei due paesi. Sia pure a discapito della creatività, cresceva intensamente il livello medio di istruzione e il generale interesse per la cultura. La novità degli ultimi tempi è che anche questo progresso quantitativo sembra essersi arrestato e si assiste, frastornati, ad un rapido declino, ad una sorta di ritornante barbarie testimoniata, per non dir altro, dal crescente impoverimento linguistico, segno inequivocabile dell’impoverirsi e del banalizzarsi del pensiero, a cui corrisponde un involgarimento dei gusti e dei comportamenti.
Una democrazia senza civiltà è una mera finzione giuridica, una tragica ipocrisia. In ciò la grande ed eterna lezione dell’Illuminismo, perché senza cultura non c’è giudizio, non c’è capacità di scelta, non vi è dunque responsabilità.
Ma torniamo ai problemi classici della democrazia, che si ripropongono, in vario modo, nella concreta vita dei nostri Stati, della nostra società politica. Il problema, innanzitutto, del rapporto fra maggioranza e minoranza.
Non è un mistero che in una società complessa, come quella del cosiddetto mondo occidentale, vi sia una difficoltà crescente nel garantire i diritti delle tantissime minoranze. Si pensi agli Stati Uniti d’America, dove convivono minoranze etniche, linguistiche, religiose e razziali e dove non casualmente cresce a dismisura la letteratura sul rapporto fra democrazia e pluralismo politico. Ma, sia pure meno appariscenti, sono spesso decisive le discriminazioni che si compiono nei confronti di quelle indefinibili minoranze che sono le élites ( si prenda questo termine cum grano salis) culturali che raramente riescono ad inserirsi nel corso ufficiale della cultura dominante e incidono sulle scelte politiche soltanto sui lunghi tempi.
Tutto ciò è saputo e risaputo. Eppure, sembra che la discussione politica sfugga al problema come il classico struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia credendo di non esser visto perché non vede. E’ il principio stesso di maggioranza che contiene in sé il pericolo del totalitarismo. In effetti, quand’anche non si tenesse conto delle tante minoranze, organizzate o non, bisognerà ammettere che anche la minoranza politica, quella che, rappresentata da partiti e associazioni, non riesce a conquistare il governo, è spesso, se non sempre, discriminata. Ricorrere al principio della quantità numerica troppo spesso appare come una profonda ipocrisia. Perché fingere di ignorare che a governare un paese sia quasi sempre una minoranza, che diviene maggioranza soltanto nella finzione elettorale? Che cosa significa, ad esempio, il concetto di maggioranza relativa? E che cosa accade delle minoranze che non intendono esprimersi attraverso il voto o attraverso la consueta lotta politica? Si dà il caso che in molte competizioni elettorali, il quaranta per cento dei cittadini aventi diritto al voto diserti le urne; il dieci per cento voti per gruppi o partiti che non riescono ad ottenere rappresentanza parlamentare. Rimane il cinquanta per cento. Se a vincere le elezioni è un raggruppamento che supera quello avversario di cinque punti, il conto è semplice: la maggioranza che governerà il paese è in effetti una minoranza di appena il trenta per cento degli aventi diritto al voto. Può questa minoranza arrogarsi il diritto di decidere per tutti? Quali garanzie dovrà concedere alla minoranza che poi, in sostanza, è la vera maggioranza di un paese?
Fin qui il limite del principio fondamentale della democrazia. Si dovranno ricordare le critiche tradizionali circa l’inefficienza e la corruzione che sembrano caratterizzare i regimi democratici? Sembra chiaro a tutti che in un sistema complesso come quello democratico la rapidità delle scelte è sacrificata alla ricerca del consenso e alla mediazione, che la corruzione si annida nelle pieghe della complessità stessa. Ma, probabilmente, ciò che rende da sempre sospetta ad un certo mondo intellettuale la democrazia è la connotazione psicologica dell’idea stessa di democrazia: la mediocrità e il conformismo che sembrano essere connaturati ad un sistema che proclama come suo principio direttivo quello del dominio dell’opinione pubblica. Torneremo su questo tema che, per tanti aspetti, ci sembra quello decisivo. Sta di fatto che, in un modo o nell’altro, gli stessi stati democratici, in una sorta di gigantesca rappresentazione, tendono a limitare se stessi. Proclamano, a gran voce, la sacralità della maggioranza, l’inviolabilità della sovranità popolare, s’inchinano alla volontà dell’opinione pubblica, inseguono i gusti e perfino i capricci della gente, ma poi s’ingegnano nel creare mille meccanismi che vanificano il principio generale tanto solennemente affermato, a cominciare dal rispetto delle Costituzioni ritenute, spesso giustamente, intoccabili le quali sanciscono appunto i limiti oltre i quali non si può andare quali che siano le scelte compiute dai cittadini. S’inventano sistemi elettorali per vanificare il sacro principio; nascono e si fortificano lobbies e gruppi di pressione in grado di indirizzare le scelte della maggioranza; si sviluppano élites economiche che costituiscono centri di poteri forti. Spesso, in poche parole, l’ipocrisia democratica cela e nasconde una sorta di oligarchia democratica. Ciò che solennemente chiamiamo democrazia rappresentativa per contrapporla alla democrazia diretta. Eppure, lo vedremo, poiché l’ipocrisia, come Shakespeare ci ha insegnato, è in qualche modo utile, e certe volte un angelo, l’ipocrisia democratica nasconde l’esigenza liberale.
Quando quest’ultima riappare forte e vitale, la democrazia cresce e si sviluppa, altrimenti decade e muore. D’altro canto sussiste, con tutta evidenza, una connessione fra crisi della rappresentanza democratica (le tante mediazioni della politica) e l’affermazione di una oligarchia democratica la quale, per contraddizione produce una confusa domanda di nuova rappresentanza che rischia di sfociare in forme di plebiscitarismo, populismo e perfino totalitarismo. E’ la sfida del liberalismo riuscire a mediare fra esigenze della rappresentanza e limiti della rappresentanza stessa che è, poi, la grande questione dell’identità e della qualità della democrazia.
Non è un caso che questo sistema politico, osannato e vilipeso, decantato e disprezzato, abbia avuto, nella sua travagliata storia, critici e nemici di ogni specie e provenienza. Col manuale di storia delle dottrine politiche alla mano si potrebbe procedere agilmente ad una ripartizione in movimenti e scuole di pensiero apparentemente ( e per tanti aspetti sostanzialmente ) diversi fra loro accomunati però dalla critica alla democrazia intesa come concetto generale, come insieme di dottrine e sistemi giuridici, come prodotto e regolatore dell’economia e della società, come regimi concretamente e storicamente determinatisi.
Dai nostalgici dell’Ancien régime alla De Maistre fino al decisionismo di Carl Smith, la cultura di destra ha sempre attaccato la democrazia con violenza verbale, adducendo i più svariati argomenti che ancor oggi frequentemente si sentono ripetere in filmetti e commediole, agli angoli dei bar, nelle riunioni di partiti e sindacati: la democrazia che premia i peggiori, che involgarisce i costumi, che sgretola i valori della tradizione, la religione, la patria, la famiglia, e così via. La destra, che non disdegna poi di chiamare a raccolta il popolo contro la democrazia, di erigere monumenti al popolo sovrano che liberamente sceglie di abdicare al suo potere, di svendere la sua sovranità in favore del dittatore, del tiranno, dello Stato etico che s’incarna, chissà perché, sempre in un gruppo di uomini più o meno rozzi, più o meno violenti, più o meno pazzi, sempre astuti fin quando la presunzione non li consuma e vota alla sconfitta.
Ma non meno dura, pertinace e severa, la critica mossa da sinistra alla democrazia, da Marx a Lenin, da Gramsci alla Scuola di Francoforte, da Mao a Marcuse. Le idee democratiche, furono ritenute una copertura ideologica e astrattamente giuridica del capitalismo. Strumento falso ed ipocrita di una classe, la borghesia, per conservare il potere e dominare l’intero popolo, formalmente, e solo formalmente, chiamato al governo della cosa pubblica. Il socialismo, il comunismo come unici e veri eredi della rivoluzione francese. La critica comunista, dunque, meno volgare ma non meno rude e corrosiva di quella di destra. Si pensi alla forza morale sprigionata dalle serrate analisi , certe volte di tono scientifico, certe altre retoriche e moralistiche, tese a dimostrare come la vera uguaglianza , la vera giustizia , non si realizzi con la rivoluzione democratica ma con la rivoluzione sociale, con il perseguimento dell’eguaglianza economica, concreta, degli individui.
Con diverso intento e atteggiamento, si sviluppa la critica liberale, da Tocqueville a Stuart Mill fino a Croce, a Gaetano Mosca, ad Ortega y Gasset. Se i Mosca, gli Ortega, condussero una vigorosa polemica antidemocratica in nome delle aristocrazie o élites di governo (che non vanno confuse, come oggi si tenta di fare in una sorta di tramonto delle distinzioni in cui tutte le vacche si fanno nere, con le nostalgie aristocratiche), Croce, per fare un solo esempio, superava i limiti dell’empiria politica perché revocava in giudizio l’idea stessa di democrazia, vale a dire il concetto di eguaglianza. L’uomo nasce libero, non democratico, socialista, musulmano o taoista. La libertà è una categoria fondante la realtà, la democrazia un particolare regime politico fra i tanti possibili.
Se la critica di Croce si eleva sopra la contingenza, non meno severa è la posizione di Tocqueville. A lui si devono forse le più brillanti e argute intuizioni: l’inarrestabilità del processo democratico in America e la sua probabile estensione al mondo intero; il rischio che esso sempre corre di degenerare in conformismo generando dal suo stesso seno la tirannide della maggioranza; l’insorgere e il prosperare di una mortificante mediocrità costitutiva della nascente società di massa.
Il sistema democratico non è soltanto un sistema politico fondato su istituzioni giuridiche di un certo tipo, è una mentalità, spiega Tocqueville, che rischia di produrre l’impoverimento dei valori e il degrado morale, favorendo la corruzione e la rincorsa alla conquista di beni esclusivamente materiali. Il tutto secondato dal nuovo assetto economico, l’industrialismo, il cui sviluppo il pensatore coglie con sorprendente lucidità, precorrendo le stesse analisi di Marx. La democrazia, dunque, alla lunga può produrre una sorta di anarchismo sociale oppure il ritorno del dispotismo, del capo a cui delegare le infiacchite coscienze.
E’ in quest’ultima posizione, che è possibile rintracciare il momento comune, implicito o esplicito, a tutte le correnti di pensiero antidemocratiche. Il conformismo, ad esempio, che nasce spontaneamente e che, vorremmo dire, è connaturato ai regimi democratici, irrita l’uomo di destra, insospettisce l’uomo di sinistra, preoccupa il liberale. L’uomo-massa sembra dissimulare un terribile mostro: da Ortega a Marcuse, da Heidegger ad Adorno.
Da sinistra si è forse sottovalutata la critica liberale alla democrazia: la critica alla società di massa, all’industria culturale, a quella società che nel 1968 gli studenti in rivolta perentoriamente disprezzavano come società borghese, alienata e conformista, mediocre e tronfia della sua stessa mediocrità.
E’ il problema di fronteggiare la massa, e, paradossalmente, governarla secondo il suo bene contro i suoi stessi istinti: il problema di fondo della tattica comunista da Lenin a Stalin a Gramsci. Il partito-guida, avanguardia della classe operaia, il partito moderno Principe, come icasticamente affermò Gramsci. La risposta marxista all’avanzare delle masse, all’ingresso, per dirla con Ortega, delle masse nella storia. I miti della democrazia, dunque, combattuti questa volta dalla cultura marxista in nome di una più vera e concreta democrazia. Sembra sentire il Rousseau della nota profezia: “Verrà il giorno che si dovranno costringere gli uomini ad essere liberi” Strana libertà, strana democrazia, strano socialismo, che si devono imporre, anche con la violenza, come ai tempi di Robespierre, di Lenin e di Stalin.
Anche il liberale Croce, agli inizi del secolo, riconosce in Marx il suo maestro in fatto di antidemocraticismo e nella Prefazione al volume Materialismo storico ed economia marxistica, scrive le note parole : “E, oltre l’ammirazione, gli serberemo (a Marx), – noi che allora eravamo giovani, noi da lui ammaestrati – altresì la nostra gratitudine, per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che mentiva le sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia e della Dea Umanità.” (1917)
E, d’altro canto, l’uomo-massa figlio del volgare inumano industrialismo ricompare in tutta la sua pericolosità sulla scena una volta levatosi il siparietto dei miti ugualitari. Scrive, con irritante realismo Ortega nella nota La ribellione delle masse del 1930: “Il giorno che in Europa ritorni a dominare un’autentica filosofia – l’unica cosa che possa salvarla – si ritornerà a capire che l’uomo è, ne abbia piacere o no, un essere obbligato per costituzione a cercare un’istanza superiore. Se ottiene di trovarla da se stesso, vuol dire che è un uomo elleccente; se no, vuol dire che è un uomo-massa e ha bisogno di riceverla da quello.”
Lo stesso Ortega, come prima e con più misura di lui Tocqueville, spiegò che la massa, la maggioranza, se tende a mortificare le individualità, tende anche a promuovere dal suo seno individualità che assommano in sé tutti i limiti delle masse. Da questo punto di vista le due più devastanti “democrazie” massificate del nostro secolo, come vedremo in seguito a proposito della Arendt sono state il nazismo e lo stalinismo. E’ un errore etichettare questi regimi politici esclusivamente col termine totalitarismi. Essi rientrano, forse anche più del bonapartismo, in quell’ampia fenomenologia che potremmo definire delle dittature democratiche, come è stato efficacemente detto, delle democrazie senza libertà. E’ innegabile, ad esempio, che Hitler come Stalin, Mussolini come Fidel Castro, Gheddafi come Franco, godettero di un grande e vasto consenso popolare: ancora oggi hanno fans ed estimatori come nessun uomo politico liberale o sinceramente democratico, fatta forse eccezione di Roosvelt e Kennedy.

La crisi della democrazia e i suoi esiti

Atomismo anarchico, totalitarismo, dispotismo della maggioranza: ecco dunque gli esiti a cui può giungere una democrazia degenerata. Non si può e non si deve, naturalmente, prendere come verità assolute rigide formule astratte come quelle or ora enunciate: l’atomistica degenerazione sociale di una civiltà si determina attraverso infinite modalità, i totalitarismi sono sempre diversi tra loro, la tirannia della maggioranza si esercita in mille modi e con mille sfumature.
Nel nostro momento storico le tre forme di degenerazione della vita democratica schematicamente riassunte sembrano convivere: per ora non s’intravede un chiaro vincitore. L’egoismo frenetico, l’ingenerosità come valore, il disvalore come ideale, spingono alla disgregazione e all’atomismo.
In Italia recentemente, ma in tutti i paesi europei e nordamericani, ricompare sotto mentite spoglie lo spettro della lotta di classe: nuovi ricchi e nuovi poveri si fronteggiano in mille piccole battaglie sociali. Dietro il pesante scontro fra stato sociale e liberismo economico si nasconde uno scontro fra opposti egoismi. L’ideale dello stato sociale non alberga certo nell’animo dei tanti che pigramente beneficiano dell’assistenza garantita, così come l’ideale della libertà dell’ impresa privata non infiamma gli animi di chi, invece, difende privilegi spesso conquistati con la violenza o l’imbroglio. Non c’è esigenza di solidarietà nei primi, non c’è esaltazione della creatività nei secondi. Si sente lontano un miglio che gli uni e gli altri cercano solo di difendere privilegi acquisiti. In altri tempi si credeva che l’una o l’altra ricetta avrebbe condotto ad una società migliore, al bene comune. Pochi credono in quella che in troppi giudicano una favola sciocca. la comunità etica. Dove sono i socialisti che ritengono lo Stato sociale una garanzia per i più deboli e il motore dello sviluppo economico, e dove i liberali fiduciosi nella capacità del libero mercato di creare ricchezza e benessere per tutti?
Lo scontro è solo fra opposti egoismi. La lotta di classe si frantuma in mille rivoli, in tanti ruscelli che annegano in un lago di confusione. La comunità si sgretola in classi e sottoclassi, divise per ragioni economiche, sociali, religiose, geografiche, etniche e psicologiche. Il totalitarismo, che da più parti inconsciamente si anela e che sempre incombe, nasce in reazione allo sgretolamento sociale, all’atomismo egoistico, ma per molti rappresenta la garanzia che l’urto fra contrapposte meschinità sia garantito da un arbitro che non vede e non giudica. Ed ecco che il totalitarismo ferreo e onnicomprensivo, quello sperimentato durante il nazismo e lo stalinismo, cede il posto ad un cesarismo paternalista o, come si dice con untuosa ipocrisia, all’autoritarismo.
Una società infiacchita e indebolita non ha la forza di reclamare una dittatura forte e, a suo modo, carica di valori: anela ad una dittatura fiacca , per così dire, a sua immagine e somiglianza. La tirannide della maggioranza di cui si rischia di rimanere vittime, non è, semplicisticamente, la prepotenza del maggior numero; non è la supremazia stabile di una maggioranza che opprime una minoranza, come nel caso dei conflitti etnici o razziali. E’ un atteggiamento, un modo di essere della collettività. Masse di uomini e donne giudicano allo stesso modo e cambiano insieme idea ogni qualvolta, per un movimento misterioso del corpo sociale, scatta un ordine, viene lanciato uno slogan. La sofisticazione dei mezzi di informazione ha facilitato e promosso questo atteggiamento: assistiamo spesso all’urto fra due tirannidi, ad una sorta di contrapposizione fra due diverse maggioranze, fra due opposti egoismi che si combattono con la cecità e l’irruenza di due rinoceronti infuriati. Una sorta di lotta di classe che supera le classi e investe la psicologia profonda dell’uomo.
Il conformismo non è un fatto quantitativo; non è soltanto lo spirito del gregge che spinge l’individuo indifeso e isolato ad aggregarsi alla maggioranza: è qualcosa di più, è un sentimento radicato nell’anima, è ciò che determina una spontenea rinuncia allo spirito critico, una consapevole rinuncia all’intelligenza e alla riflessione. Il conformista non è solo colui che cede alla forza dei più. E’ anche l’uomo debole che non crede nei suoi mezzi, che non sa resistere alla maggioranza o all’attrazione del gruppo in cui vive.

Democrazia e libertà

Non fa meraviglia, dunque, se ancora, anzi ancor più, ci si interroga sulle sorti della democrazia nei paesi occidentali dando per scontato che nel resto del mondo essa non abbia mai attecchito: mi pare che, se ben si riflette, la questione non riguarda tanto il destino della democrazia quanto quello della libertà in un sistema democratico. Certo negli ultimi anni democrazia e libertà sono diventati nell’uso corrente quasi sinonimi tanto che si usano comunemente le espressioni “società liberaldemocratiche”, “istituzioni liberaldemocratiche”, “partiti liberaldemocratici”, e così via.
Però, del binomio democrazia liberale è l’aggettivo che soffre e deperisce. E bisogna comprenderne il perché. La democrazia, a dispetto delle mille definizioni che se ne possono dare, è pur sempre, nella sostanza e nel comune sentire, come si è detto, il governo del popolo, come dice il suo etimo greco. E poiché il popolo non è un singolo individuo, come il re o l’imperatore, ma un insieme di individui, per esprimere la propria volontà deve poter interrogare tutte le sue componenti. Il metodo più semplice e a portata di mano, per così dire, è il voto e, di conseguenza, l’accettazione del criterio della maggioranza. La maggioranza degli inglesi o dei francesi , votando, dopo aver possibilmente discusso a lungo e a lungo meditato, decide di scendere in guerra.
Da un certo punto di vista la storia della democrazia, dall’antica Grecia ad oggi, si immedesima con la travagliata storia dell’allargamento della maggioranza, della conquista crescente del diritto al voto di quantità sempre maggiori di cittadini. Il diritto a partecipare e ad essere rappresentati. Non votavano gli schiavi nell’antica Grecia; non votavano i poveri e le donne fino a pochi decenni fa. Oggi, nelle maggiori democrazie, il voto è negato soltanto ai giovanissimi, ai bambini e a poche altre minoranze. Ma c’è chi propone di ampliare ancora la maggioranza e non dovremo meravigliarci se presto si invocherà il diritto dei bambini ad esercitare la loro volontà di giudizio. E’ già accaduto in molte scuole medie ed elementari.
Il liberalismo coincide per molti aspetti con questo moto di continua, crescente democratizzazione. Infatti, come è facile comprendere, il diritto al voto è un diritto di libertà. La volontà di ciascun uomo di esercitare la propria volontà nell’ambito della comunità in cui vive e lavora. Libertà e democrazia marciano, dunque, insieme onde è giustificato il comune uso della locuzione democrazia liberale.
Ma il liberalismo si diversifica dalla democrazia per tanti altri aspetti, e per uno in maniera fondamentale: il principio di maggioranza. La maggioranza degli inglesi, infatti, potrebbe scegliere di vietare la libertà di culto dei cattolici, oppure di negare agli scozzesi il diritto a suonare le cornamuse. Che ne sarebbe della libertà di quelle minoranze? E’ possibile che la maggioranza di un popolo approvi, di volta in volta, leggi che, tutte insieme, finiscano col ledere la libertà dell’intera la popolazione: per assurdo, gli scozzesi potrebbero votare contro i diritti dei cattolici e i cattolici contro quelli degli scozzesi ed entrambi contro i diritti dei gallesi e così via all’infinito in un apparente trionfo della libertà di voto che in realtà sarebbe una tragica distruzione della libertà.
Il liberalismo può essere inteso in tante, diverse, accezioni ma esso è anche, se non soprattutto, l’incessante lotta per la limitazione del potere, di qualunque potere possa ledere la libertà delle maggioranze, delle minoranze, degli individui, di ciascun cittadino. E dunque, anche lotta per la limitazione del potere della maggioranza.
Fin qui, in breve, l’analisi di dottrine politiche che ognuno potrà approfondire e criticare, immergendosi in una mole di scritti tanto vasta da rendere arduo il riemergere: democrazia degli antichi e dei moderni, democrazia diretta e democrazia rappresentativa, plebiscitaria e parlamentare, oppure liberalismo e liberismo, e liberismo conservatore e liberalsocialismo, costituzionalismo e giusnaturalismo, liberalismo storicista e liberalismo anarchico, radicalismo e chi più ne ha più ne metta.
Non è possibile, in questa sede, esaminare, come si dice, scientificamente, la questione. E’ nostro compito, invece, interrogarci sul quesito sopra enunciato: di che natura è la crisi (se crisi c’è) di quella che, approssimativamente, chiamiamo democrazia?
La democrazia ha molti nemici, primo fra tutti il totalitarismo. L’attacco alla democrazia può essere esterno alla democrazia stessa , ma in altri casi può generarsi, come i tumori, dalle sue stesse cellule. La democrazia può morire per eccesso di democrazia. O meglio può sopprimere nel suo seno stesso la libertà. Da questo punto di vista , che è il nostro, non viviamo dunque una crisi della democrazia, ma il suo estremo trionfo. E’ la libertà che sta morendo o, se si vuole, la liberaldemocrazia. Si assiste all’avverarsi di ciò che aveva denunciato Tocqueville avvisando che il principio di maggioranza, sul quale si edificano le democrazie, può trasformarsi in tirannia della maggioranza e distruggere la libertà. Ecco un libro che dobbiamo necessariamente far emergere dalla marea dei lavori scientifici: La democrazia in America, scritto dal grande pensatore francese fra il 1840 e il 1845.
L’analisi che abbiamo condotto delle democrazie contemporanee per coglierne i lati oscuri, per così dire, le cellule cancerogene, sembrerà coincidere in molti punti con le critiche mosse dai pensatori antidemocratici o illiberali: ne diversifica gli esiti in maniera sostanziale l’intento, giacchè il nostro non mira a distruggere , bensì a rafforzare quelle dottrine e quegli ordinamenti, cercando nel loro stesso orizzonte i rimedi alla loro crisi. Ci sembra necessario, in poche parole, individuare e proporre dei limiti alla democrazia perché possa incrementarsi in essa e non deprimersi il tasso di libertà. E’ questo l’incerto confine da tracciare, il terreno sdrucciolevole e insidioso su cui avventurarsi: provare a comprendere fino a che punto i nemici della democrazia , di fatto, siano avvantaggiati dalla democrazia stessa quando essa divenga, come è già tante volte accaduto, una democrazia senza libertà.
Se ciò è vero, ci confermeremo nell’idea che il tema fondamentale resta quello della libertà. Certo, il dramma ecologico , il pascaliano pensiero dietro la testa, l’angoscia della morte, trasformatasi con l’energia atomica da sentimento individuale in sentimento collettivo, sembrano non lasciare spazio a dispute filosofiche intorno alla natura della libertà. Le mostruosità che il futuro dell’ingegneria genetica ancora cela, sono oggi appena un lontano timore che presto potrebbe mutarsi in panico e disperazione. Il diffondersi di epidemie inquietanti, che rievocano il più cupo Medioevo ci sprofonda in uno stato di smarrimento e ci stringe nell’eterna contraddizione fra la smisurata potenza (la tecnica) e la povera nullità che connotano la nostra essenza di uomini. Il potere dell’informazione ci lascia intuire un mondo orwelliano abitato da vuoti servitori. Persistono le più tristi povertà,; divengono più profonde le diseguaglianze fra le regioni del mondo. Vecchie discriminazioni razziali stentano a morire ed anzi vanno radicandosi e incrudelendo. Perfino la parità fra uomo e donna, che sembrava oramai attuarsi sempre più decisamente, arretra e sbiadisce la sua carica civile. Il conformismo più piatto pervade l’intero pianeta mentre rinascono mille particolarismi. I due fenomeni convivono tragicamente perché sono l’uno la vita dell’altro. I valori morali decadono, si dice, e con essi le religioni e viceversa, a seconda dei punti di vista. La scristianizzazione, la secolarizzazione, avanzano come il deserto in mancanza di piogge. Che farsene, dunque, della libertà, della democrazia e di simili altre inezie? La libertà, si afferma più o meno imbarazzati, è un lusso che non possiamo concederci. Eppure ognuna delle questioni sollevate è questione di libertà, ogni problema toccato reclama una risposta in termini di libertà, se ben intendiamo questo concetto. Non sarà lo spirito pratico, non sarà la scienza, non la mera politica, a risolvere le intricate questioni della bioetica, dell’uso dell’energia nucleare, dei rapporti fra razze e continenti. La libertà è il dominio critico della forza: è ciò che guida l’uomo nelle scelte che deve compiere. Se ciò è vero, prima di andare avanti, dobbiamo ancora interrogarci sulla natura della libertà, e sul suo futuro.

La libertà ha un futuro?

E’ possibile che un popolo rinunci volontariamente alla libertà o che la perda senza rendersene conto? E’ possibile. Questa affermazione ha bisogno di essere ben motivata e circoscritta perché perda la irritante carica di paradossalità che possiede e per evitare sgradevoli equivoci.
Il sondaggio è oggi lo strumento con cui rapidamente si manifesta la volontà generale, il sentimento diffuso di un popolo in un dato momento storico. E’ molto probabile se non quasi certo, che nessun popolo alla domanda se voglia essere libero risponderebbe negativamente. Ma è altrettanto probabile che se la domanda fosse posta in maniera indiretta l’esito della risposta potrebbe cambiare. Basterebbe chiedere ad esempio se si preferisce la ricchezza o la libertà. Oppure potremmo chiedere di stilare una sorta di classifica dei valori. Chiedere, come fanno tanti giornali: “quale valore dei sotto indicati ritiene più importante l’onestà, la giustizia, la famiglia, la ricchezza, l’amicizia, la libertà, l’amor di patria, la fedeltà, la fede religiosa e così via?”. Si può presumere che la libertà non si classificherebbe ai primi posti.
In sostanza, questa sorta di plebiscito antiliberale si verifica in molte tornate elettorali allorché i partiti stilano i cosiddetti programmi. Fra un partito che promette maggiore libertà di stampa ed un partito che promette di diminuir le tasse è molto probabile che il popolo scelga il secondo.
La questione della scarsa rilevanza data al valore della libertà sembra attraversare il mondo intero se si fa eccezione, come si dice (ma si ha ragione di nutrire qualche dubbio) dei così detti paesi di cultura anglosassone vale a dire Inghilterra, Stati Uniti, Canada ed Australia.
D’altro canto è luogo comune che nessun nucleo sociale dal più piccolo al più grande si “fida” delle scelte compiute dalla maggioranza. Una famiglia non sceglie quale istruzione dare ad un suo figlio democraticamente ma interpellando un esperto; un imprenditore non chiede ai lavoratori consiglio sulle scelte da compiere ma consulta un aziendalista ; le chiese non ascoltano il parere dei fedeli ma ordinano, suggeriscono, indirizzano, ispirano….
Se nel passato, si dice, la gente avesse scelto a maggioranza gli artisti, i poeti, i filosofi, i musicisti o gli scienziati da consacrare è molto probabile che i nomi di Michelangelo, Dante, Kant, Beethoven ed Einstein sarebbero scomparsi dalla storia, sepolti con le loro stesse opere.
Perché, dunque, nella vita politica gli uomini dovrebbero comportarsi diversamente e privilegiare la libertà rispetto a tante altre opportunità?
Lo scenario cupo appena descritto non lascia, dunque, alcuna speranza nell’avvenire? La civiltà occidentale è dunque giunta ad un punto morto? Ci si sente come di fronte ad un trivio, i cui sentieri conducono tutti verso forme più o meno gravi di crisi morale e politica. Incrinati i pilastri morali dell’Occidente, il Cristianesimo, il liberalismo e il socialismo, sbiadisce lentamente la forma politica per eccellenza della civiltà occidentale: la democrazia. Essa tende a trasformarsi nell’organizzazione del conformismo, nel dispotismo della mediocrità o a morire, travolta dall’anarchismo, e cedere definitivamente ai totalitarismi vecchi e nuovi che sempre tentano di irrompere sulla ribalta della storia. E’ dunque questo l’unico epilogo possibile che la crisi morale irrimediabilmente prepara? Non a caso, negli anni della crisi delle democrazie liberali nate nell’ Ottocento dalla lotte per le Costituzioni, fiorì una vasta letteratura che, nel condannare il presente, lasciava presagire la tragedia futura. Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, del nazismo e della seconda guerra mondiale, comparvero gli scritti di Spengler (Il tramonto dell’Occidente) e di Huizinga (La crisi della civiltà) che per tanti aspetti possono sembrare ispiratori di queste pagine. Può sembrare di risentire l’Ortega della Ribellione delle masse, opera per tanti aspetti in tono con queste citate. Senza dubbio, le suggestioni sono tante e alcune analogie appaiono ovvie e trasparenti. Per un periodo molto lungo, la critica si esercitò in maniera fin troppo dura nei confronti di quegli scrittori ritenuti pessimisti e reazionari, come avvenne, del resto, per gli italiani Pareto e Mosca e per lo stesso Croce. In qualche modo quei severi critici confondevano la diagnosi con la speranza. Constatare che vi è un’epidemia incipiente non significa volerne diffondere i germi. Certamente, per fare un solo esempio, non fu il caso di Huizinga, che si batté e morì per l’indipendenza della sua patria, nella resistenza al nazismo.
Ma se le analogie sono molte , non vuol dire che ci troviamo oggi in quelle condizioni, per la ragione molto semplice che la storia non si ripete mai. Per la ragione che, in ultima analisi, non esistono propriamente civiltà rigidamente definibili, men che mai civiltà che nascono e muoiono, come credeva, chissà se ingenuamente o furbescamente Toynbee, che addirittura pretendeva di contarle e misurarle con criteri estrinseci e astratti. Sarebbe fin troppo banale, e vorrei dire perfino stucchevole, paragonare l’Impero romano all’Impero americano (a meno che non si intendeva porre l’accento sulla globalizzazione delle scelte economiche e politiche e alla conseguente decadenza della rappresentanza democratica), unica vera potenza militare rimasta al mondo. Paragonare la decadenza morale del tardo Impero a quella che caratterizza i nostri tempi e dedurne che la nostra civiltà agonizza assediata dai nuovi barbari in marcia dal Terzo mondo è suggestivo come suggestive sono tutte le semplificazioni quando vengono dichiarate con fermezza e prosopopea. Ma restano semplificazioni.
La verità è che dobbiamo sforzarci di comprendere la nostra peculiarità, confessare con sincerità il nostro disagio, la nostra amarezza, forse la nostra angoscia. Ma esse non designano una considerazione ontologica, non prefigurano l’avvenire che ci aspetta: semmai pretendono di orientarlo. Tutto orienta il futuro, anche le poche note scritte in un breve libro come questo e, perciò, bisogna sentirsi ed essere responsabili di ciò che si pensa e si dice al pari di quando si agisce.
Non prefiguriamo, dunque, sciagure e catastrofi e nemmeno ci crogioliamo con un po’ di immaginazione in un facile ottimismo: ” e se la nostra civiltà infiacchita dovesse rivivere, rafforzata e rinvigorita, nei nuovi barbari come accadde per i greci conquistati dai romani e per i latini soggiogati dalle orde barbariche?” Mettiamo da parte imperatori e barbari, e riflettiamo sul nostro destino.
La libertà mai cessa di esistere e mai si afferma definitivamente. Essa è costitutiva della storia e non può vivere senza il suo contrario, se non in lotta , perpetua, contro di esso. Non si può mangiare se non si ha fame; non si può amare se non si desidera. Non ci possiamo dire liberi se non vi sono insidie che potrebbero farci schiavi.
La libertà, dunque, non muore mai . Vive in eterno. Ma vive concretamente, ossia lottando contro i suoi nemici che, lo abbiamo visto, sono tantissimi, imprevedibili, infiniti. E’ chiaro dunque che la libertà si identifica con la lotta incessante per la libertà. Tocca a noi, agli uomini in carne ed ossa, lottare per essa fra mille incertezze, mille pericoli, mille tentazioni, molte viltà e rari atti di coraggio. Ma i nemici della libertà generano la libertà. In questo senso, e solo in questo senso, la libertà non muore, quale che sia la pessimistica concezione che possiamo mai avere del nostro tempo, della nostra civiltà intesa come categoria ermeneutica e non assoluta. La nostra civiltà, ossia ciò che noi riteniamo essere il senso proprio degli anni in cui ci tocca vivere.
La libertà è la categoria fondante, è il primum indispensabile. Una antica e oramai consolidata tradizione scientifica e politica ci ha abituati a contrapporre la libertà agli altri valori: libertà e giustizia, libertà e socialità, libertà e uguaglianza, libertà e ordine, libertà ed efficienza, libertà e solidarietà, e chi più ne ha più ne metta. Non siamo stati educati a disprezzare la storia, la tradizione, non negheremo, dunque, il significato di tante opposizioni le quali hanno contribuito a creare partiti e movimenti, rivoluzioni e mutamenti che spesso hanno contribuito ad accrescere anziché a limitare la libertà. Ma rispettare la storia equivale sempre anche a storicizzare , ossia a collocare le cose al loro posto nel corso della storia, evitando di astrarle dal contesto e renderle vuote formule ideali o miti. Le opposizioni elencate si giustificano nelle loro relazioni con particolari (storiche) concezioni della libertà o con specifiche dottrine o con contingenti politiche di determinati partiti. Ogni storico delle dottrine politiche potrà agevolmente chiarire di quale libertà e di quale giustizia si discuteva nel Settecento o nell’Ottocento di liberalismo e di liberismo, di solidarietà cristiana e di libertà cristiana, e di tante altre questioni e vicende. A noi preme, invece, discutere della nostra, contemporanea, idea di libertà: quell’idea complessa nata dal travaglio del nostro secolo : il secolo del nazismo, del comunismo, delle due guerre mondiali, dell’esplosione atomica. Un’idea di libertà che ha cercato di svincolarsi dalle particolari dottrine che formano il corpus del liberalismo classico, la libertà liberatrice di cui parlava, crocianamente, Omodeo.
Un’idea moderna di libertà non si contrappone agli altri valori perché ambisce ad essere , ed è, l’indispensabile elemento della vita umana intesa come eterna crescita civile e morale, imprevedibile nelle sue linee di svolgimento ma costantemente attiva ed operante.
Abbiamo prima accennato alla semplice constatazione che l’uomo nasce libero e diventa poi democratico o cristiano, musulmano o socialista.

La libertà é disordine.

E’ questo un luogo comune diffuso in tutte le epoche e in tutte le latitudini. La libertà, la stessa democrazia, la repubblica, coincidono per molti con il disordine, il relativismo, il caos. I nostri bisnonni, influenzati ancora dalla propaganda dell’antico regime, di fronte a situazioni di evidente disordine sociale o anche familiare, si lamentavano esclamando: “Ma questa è la Repubblica!”. Ora, la difesa da questa accusa è antica quanto l’accusa stessa e non giova dilungarvisi troppo. La libertà vera, infatti, è un atto di coscienza e di consapevolezza, ossia il contrario del caos e del disordine. L’uomo, per sua natura incline alla disobbedienza e al libertinaggio, compie un atto di libertà, quando, liberandosi dalle sue inclinazioni “naturali”, si comporta “bene”. Da Kant in poi è questa la matura idea della libertà: giusto il contrario del caos. Ma la sensazione di confusione che la libertà politica suscita è senz’altro reale in alcuni momenti della storia. Non possiamo affermare: “la libertà provoca il caos”. Ma possiamo sostenere che, talvolta, i governi liberali tollerano un certo disordine. E fin qui non si deve far altro che correggere i comportamenti di quei governi.
Più subdola e persistente rimane l’idea di molti secondo la quale la natura umana non sarebbe degna della libertà che pure costituisce la sua essenza. E’ questo il punto di vista dei temperamenti totalitari i quali ripetono che la libertà è una bella e degnissima cosa ma che la maggioranza degli uomini non è in grado di viverla ed esercitarla. Costoro invocano l’ordine e l’uomo (o il gruppo di uomini) forte. Non si chiedono mai, queste degne persone, dove mai il destino, collocherebbe loro: se fra i regolatori o fra i regolati. Come in ogni gioco della fantasia, che ognuno fa sognando di vivere nella antica Grecia o nel Rinascimento, senza mai domandarsi a quale condizione sociale sarebbe appartenuto, se nobile o schiavo, cardinale o servo. Il sogno svanisce e si torna, se non contenti, almeno rassicurati, alla nostra modesta condizione di liberi cittadini dell’età contemporanea. I deboli, i labili e i poco savi di mente invocano la dittatura perché non sopportano la concorrenza della libertà e si acquietano, o credono di potersi acquietare, nel rigido ordine che tutto spegne e addormenta, secondando la loro fantasia malata.
Ma, così posta la questione, la libertà resta ancora, forse, in vantaggio sulla dittatura: resiste una parte della popolazione occidentale disposta ad ammettere che la libertà è superiore a qualsiasi dittatura. Il nostro problema è di natura diversa: il rischio che corriamo è altissimo perché il totalitarismo che si oppone alla libertà intesa come disordine e caos, pluralismo inconcludente e relativista, è un totalitarismo strisciante e non proclamato : è il totalitarismo della democrazia degenerata. Il conformismo, la spontanea adesione all’oligarchia o alla dittatura. E’ il vento freddo che spira in questi anni su tutta l’Europa e lambisce ora anche l’America.

La rinuncia alla libertà per paura della libertà

La libertà incute di per sé timore, quando è vera libertà. J.P.Sartre, per citare un autore fra i tanti possibili, parla della vertigine della libertà. Ognuno nella propria vita prova questo tragico sentimento. Sono libero di decidere il futuro di mio figlio su una questione importante; sono libero di investire i miei risparmi; sono libero di amare o meno una donna: tutto ciò mi procura ansia, timore, panico addirittura. Meglio se il destino di mio figlio fosse dettato da condizioni obbiettive; i miei investimenti affidati ad un esperto; il mio amore condizionato dalle consuetudini. La maggioranza degli uomini, nella maggioranza delle situazioni, preferisce la tranquillità alla libertà. Anzi libertà e tranquillità sono due facce della stessa medaglia. Questo stato d’animo, così comune, diviene parossistico in epoche di particolare turbolenza. La nostra condizione odierna, da questo punto di vista, alimenta e rende comprensibile il crescente timore della libertà che la caratterizza.
La crisi di alcuni valori produce il caos, la crisi di altri induce un indebolirsi della qualità morale della convivenza civile: tutto ciò preoccupa e intimorisce , e l’ordine e la disciplina finiscono con l’incarnare gli antidoti più lievi al terribile male che si profila. I vertici della Chiesa cattolica sono allarmati a ben ragione, dalla decadenza del sentimento della vita. Si abortisce con disarmante semplicità; si pratica l’eutanasia come forma di alleviamento delle sofferenze fisiche del malato e come risparmio per i parenti e la comunità. Prospera l’istituto della pena di morte; aumentano i suicidi; si gioca con la propria e l’altrui vita rievocando la letteratura disperata di Gide e Dostojevskij. L’atteggiamento di Raskòlnikov è diventato un fenomeno di massa. Tutto ciò sgomenta: si incolpa la libertà ( anche Giovanni Paolo II, nell’enciclica Veritatis splendor, riferendosi alla libertà senza verità, pare identificare la libertà con la mancanza di responsabilità, allontanandosi da un concetto di libertà che l’accomuna invece alla moralità stessa) e si cerca di vincolarla e limitarla quanto più è possibile dimenticando che è la coscienza morale infiacchita ad indurre gli uomini a dimenticare le responsabilità che proprio la libertà impone loro.
Ma non è la libertà in sé la responsabile o l’unica colpevole di tutto ciò. Direi, anzi, che ne è la vera vittima. Bisogna capovolgere la questione: è la coscienza morale infiacchita a generare la crisi della libertà non è la libertà a generare la crisi dei valori. Come vedremo meglio più avanti, moralità e libertà coincidono, ed è la crisi della libertà che genera il caos e non il suo trionfo, come, invece, si ritiene comunemente. Il conformismo, ad esempio, è il frutto e il seme ad un tempo dell’immoralità. Un esempio classico, da letteratura romantica dell’Ottocento, può aiutarci. Il perbenismo conformista condanna spietatamente una giovane ragazza incinta. La sventurata decide di abortire per sfuggire alla maggioranza dei suoi concittadini che la condannano. Tradotta nei nostri tempi, la storia avrebbe ben altro epilogo: la ragazza potrebbe decidere di portare a termine la gravidanza ma, per mantenere il bimbo, sa che non potrà permettersi di pagare la palestra per recuperare il suo peso forma. Grassa e impacciata, la maggioranza dei suoi concittadini la condannerà. Anche lei finisce col rinunciare al bambino, e abortisce.
Sono entrambe vittime della tirannide della maggioranza, non del diffondersi ed ampliarsi delle libertà civili e politiche. Fossero state spiriti liberi, forse avrebbero tenuto i loro bambini.
Il Papa indica un rimedio nel veto che una verità rivelata impone , quali che siano le condizioni ambientali in cui ci si trova: non si deve abortire perché è peccato. Si può esser liberi nell’ambito di questa verità, ma non la si deve mettere in discussione. Anche Tocqueville riteneva necessaria la religione a che la libertà e la democrazia non degenerassero. Sul piano pratico, certamente ci pare di poter concordare, ma non sempre ciò è vero, non in via di principio. Accade infatti che le verità entrino in contrasto: ad esempio, quelle proclamate da due religioni diverse. Si dirà che ciò che conta è la religiosità, non le singole, storiche, religioni ma il credere in una verità indiscutibile, qualunque essa, concretamente, sia. Ma nessuna verità è mai, veramente, indiscutibile. Nemmeno nell’ambito della fede. Il caso tragico nel quale si è costretti a scegliere fra la vita della madre e quella del nascituro lascia aperta una drammatica aporia nell’ambito di una qualunque religione rivelata. E qui stiamo discorrendo di un diritto, quello alla vita, che a tutti (o a quasi tutti) risulta evidente ed incontestabile. Cosa accadrebbe se ci riferissimo alle tante altre verità al cui cospetto sottomettere la libertà? La libertà stessa, come ha scritto Croce, è una religione perché non è possibile proclamarla come verità assoluta ma solo come verità che si attua e si compie nella storia, che si manifesta, quando si manifesta, nelle nostre coscienze.
Riepilogando in brevissima sintesi: dopo il rinvigorimento, dovuto alla sconfitta militare, politica e morale del nazismo, la democrazia liberale nel mondo occidentale sembra vacillare paurosamente. Usiamo l’aggettivo “liberale” perché altri modelli di democrazia non rispondono alle esigenze di libertà morale, politica, economica. Il comunismo e il fascismo, sia pure in forme diverse e con riferimenti ideali opposti, da questo punto di vista sembrano incarnare forme di degenerazione della democrazia piuttosto che rappresentare una netta opposizione del modello democratico. L’assolutismo che precede la Rivoluzione francese, infatti, non ha bisogno, se non in maniera molto relativa, del consenso. Il Valentino o il Re Sole non dovevano dar conto all’opinione pubblica, alla maggioranza o al popolo, ma solo a ristrettissimi settori della società. Hitler, Stalin, o Mussolini al contrario, fondarono la loro forza sul consenso. I moderni dittatori, si pensi a Castro a Cuba, a Mao in Cina, a Franco in Spagna, sono costretti ad utilizzare ogni mezzo a disposizione per conquistare o accaparrarsi il consenso. Ricorrono, certamente, alla violenza : ma non basta. Sono costretti a realizzare un complesso sistema di coinvolgimento dell’opinione pubblica, del cui consenso hanno bisogno vitale.
L’esperienza storica ci insegna, purtroppo, che il popolo e l’opinione pubblica si lasciano coinvolgere molto più di quanto una certa retorica edificante voglia lasciar credere. Nessuno nega più, ad esempio, che in Italia il fascismo abbia goduto di un consenso spontaneo ed intenso, cosa che non si può affermare, paradossalmente, del regime democratico che gli è succeduto.
Potremmo dire che se per democrazia intendiamo la maggioranza quantitativa dei cittadini e le idee da essa espresse, fascismo, nazismo e comunismo furono dittature democratiche o democrazie totalitarie o, per analogia, come è stato efficacemente detto, democrazie senza libertà. A dispetto di Nietzsche e dei nietzschiani, non c’è stato il trionfo del superuomo, ma dell’uomo massa, del quale i dittatori del Novecento sono generalmente la proiezione, la sintesi immaginativa, come vedremo meglio nel capitolo successivo.
Da queste considerazioni la conferma che la democrazia contiene in se stessa i germi della sua distruzione. Un’antica idea che affonda le proprie radici in Platone e giunge fino a Tocqueville. Sinceramente democratico, quest’ultimo diffidava del principio di maggioranza e sperimentò nella sua triste vecchiaia la verità delle sue teorie allorché la democrazia francese produsse la dittatura iperdemocratica e plebiscitaria di Napoleone III. La crisi del sistema politico italiano che stiano vivendo presenta allarmanti analogie , che nella prima parte di questo breve scritto abbiamo analizzato e sottolineato.
Che fare? L’unica prospettiva reale si offre nel riproporre la via liberale alla democrazia, giacché non è la democrazia in sé ad essere in pericolo, ma la democrazia liberale, la libertà.
In questo contesto torna di attualità più di ogni altra l’analisi tocquevilliana, che indica molti rimedi che il pensatore francese prese in prestito dal sistema democratico americano, a quell’epoca e forse, pur fra mille limiti, ancor oggi, il più solido e attento alle esigenze di libertà.
Rimedi oramai classici e noti a tutti, anche se non sempre compresi in tutta la loro rilevanza. Il federalismo, ad esempio, atto a garantire alcune minoranze organizzate dallo strapotere della maggioranza che si coagula politicamente nello Stato centrale. Tocqueville crede che anche l’associazionismo sia un efficace strumento per resistere alle tendenze dominanti, al conformismo, alle tante forme di latente dispotismo. Per inciso, è forse utile ricordare che in Italia esistono molte associazioni solidaristiche, caritatevoli, umanitarie ma sono rarissime quelle tese a difendere principii di libertà generali o particolari, il che la dice lunga sullo scarso sentimento di libertà del nostro popolo.
E’ appunto questo l’aspetto più rilevante , anche se meno codificabile, del pensiero di Tocqueville: senza il sentimento della libertà, il gusto morale, lo spirito critico, non vi è speranza per le istituzioni politiche democratiche. Senza, potremmo dire, la religione della libertà, come diceva, con giusta enfasi Croce, non vi è organizzazione giuridica, non vi sono riforme elettorali, programmi empirici che tengano.: la libertà si perde. Certe volte lentamente, perché la libertà non muore necessariamente d’infarto ; non sempre cala su di essa, all’improvviso, un sipario come in una tragedia, così come si è abituati a pensare dai libri di scuola che ci annunciano che nel 1925 l’Italia perse la libertà che riconquistò solo vent’anni dopo. Non è così semplice, così netto, perché non si tratta mai di accadimenti, ma di processi, lunghi e tormentati.
E’ questo l’aspetto più complesso, il problema più difficile da risolvere. Il gusto della libertà, si potrebbe dire parafrasando il don Abbondio di Manzoni, è come il coraggio: non lo si ha non ce lo si può dare. Ma è proprio vero? E’ questa la prima sfida, il compito precipuo del liberale. Esso si esplica in tanti modi, soprattutto nella pratica quotidiana, nella politica concreta, ma anche curando sempre di chiarire le questioni teoriche e indicando, se possibile, nuove vie da percorrere.
Qui si aggancia alle riflessioni di Tocqueville il pensiero crociano, la nostra prospettiva. Ripensare il ruolo del liberalismo, ridefinire il nostro compito, individuare nuove questioni.
Il nostro problema è oggi, paradossalmente, quello di restringere la democrazia ed allargare gli spazi della libertà. Non si tratta di un paradosso o di un fatuo esercizio letterario. La democrazia può esser contenuta, in senso liberale, come abbiamo visto, cercando di limitare i danni provocati dal conformismo, dalla tirannia della maggioranza, dall’opinione pubblica, da quella che oggi chiamiamo gente. Ma, se ci si ferma qui, il liberalismo rischia di tradursi in conservatorismo. Gioca, per così dire, in difesa; limita, appunto, i danni, ma perde la sua forza innovativa, la capacità di creare la libertà e, in ultima istanza, finisce col mostrare un volto ingeneroso, sia pure di una ingenerosità misurata ed estremamente moderata. Si dirà: “meglio De Gaulle che Hitler, meglio Churchill che Stalin. Insomma, meglio il moderatismo conservatore di un iperdemocraticismo che conduce, prima o poi, l’umanità alla dittatura e al totalitarismo.” Certamente vero. Ma avvertiamo che non basta. Le grandi questioni del prossimo millennio non si affrontano con la sola moderazione. Il liberalismo deve recuperare la sua forza rivoluzionaria, la dimensione utopica che gli è propria altrimenti è perso. La partita è irrimediabilmente perduta se si lascia libero il campo ai tanti, ai troppi nemici della libertà, i quali non si mostreranno mai col volto ottuso degli illiberali, ma come coloro i quali intendono promuovere nuove prospettive, migliori condizioni di vita, progressi economici, e poi anche più efficienza, più ordine, una migliore organizzazione ed amministrazione dello Stato, della Giustizia, e via dicendo. Perché dimenticare che il diavolo sceglie sempre l’aspetto più seducente per irretire le sue vittime?
Ecco dunque il nostro problema: come conciliare le varie anime liberali in una nuova, ampia sintesi, in una nuova, perspicace, prospettiva.
La storia ha sedimentato distinzioni politiche che hanno avuto un senso profondo e svolto un ruolo importante ma non per questo possono cristallizzarsi in verità eterne. E’ conservatore, ad esempio, chi è contrario all ‘aborto e all’eutanasia; liberale chi , entro certi limiti, si dice favorevole all’interruzione della gravidanza e alla buona morte. Il conservatore, dunque, per la difesa della vita, il liberale per la libera scelta dell’individuo di compiere o meno una scelta morale, di coscienza. Ma è vera, sostanziale, questa distinzione? Il conservatore, generalmente, è favorevole alla pena di morte, onde il principio “rispetto della vita” è subordinato ad altri valori. Il liberale è decisamente contrario alla pena di morte ed entra in crisi allorché gli si prospetta l’ipotesi che il nascituro, l’embrione, è un individuo al quale non dovrebbe negarsi il diritto di scegliere se venire al mondo ed, anzi, è un individuo debole, indifeso, che merita per questo ancor più rispetto in una società che voglia dirsi liberale. Chi, dunque, difende meglio il diritto alla vita il conservatore o il liberale?
Bisogna trovare il coraggio e la fantasia per superare questa ed altre opposizioni che trovano giustificazione in modelli e contesti storici e culturali troppo lontani dai nostri. Il liberalismo, come vedremo, ha necessità di ricordare, ma di abbandonare insieme, la sua storia se vuol essere, come può e deve, un corpo vivente, che, non solo conserva le sue strutture, ma le accresce e le modifica. Cosa si direbbe di un ragazzo che, per conservare intatte le sue origini, volesse smettere di crescere? Più o meno quello che si direbbe al contrario di una persona che volesse vivere come in uno stato di totale amnesia: che è folle.
Così il grande tema del rapporto fra libertà e giustizia, fra liberalismo e socialismo. Sono state scritte, su questo argomento, pagine e pagine , che non è nostro compito ricordare in questa sede. Certo è che anche, soprattutto sul terreno politico, nel concreto dipanarsi delle vicende storiche, delle lotte di interessi economici e sociali, il liberalismo nel suo complesso è sembrato opporsi, e tante volte si è opposto, alla cosiddetta giustizia sociale, e perfino alla giustizia intesa come legalità. Torti e ragioni possono distribuirsi equamente. Che la giustizia non sia la legalità è chiaro sin dagli albori della filosofia politica , e dovrebbe esser chiaro a tutti coloro che hanno sperimentato quanto astratta e falsa appaia la pur indispensabile giustizia dei tribunali ( tribunali erano anche quelli della Germani nazista e della Russia stalinista, come lo erano stati quelli dell’Inquisizione) al confronto della giustizia che la vita reale reclama. Il liberalismo è stato assieme strenuo difensore della legge, allorché ciò era indispensabile per abbattere privilegi fondati sull’arbitrio e l’arroganza di classi e gruppi, e critico, pungente e severo, della legge divenuta strumento essa stessa di nuovi privilegi e di nuovi soprusi. Il liberalismo, che in questo modo si accompagnava sia pure con moderazione alle aspre lotte dei progressisti e dei socialisti che identificavano, marxianamente, il diritto con la sovrastruttura ideologica del potere usurpato dalla borghesia, classe dominante.
La polemica, su questo terreno specifico, era e fu polemica di accenti e di toni più che di reale sostanza teorica. Ma, com’è è noto, gli accenti e i toni in politica contano quanto, se non più, delle teorie e dei principii.
Più sostanziale, e per taluni aspetti più aspra, la querelle libertà-giustizia intesa, quest’ultima, nel senso dell’uguaglianza. Ma di quale libertà e di quale uguaglianza si discorreva? Dell’uguaglianza rispetto alla legge, alla giustizia sociale, e, in questo secondo caso, come livellamento dei redditi e delle risorse imposto dall’alto (dallo Stato) o come volontà di assicurare a tutti uguali opportunità? Mancando precise distinzioni, il tono delle polemiche cresceva: se per alcuni uguaglianza significava mortificazione della creatività, astratto tentativo di imporre (talvolta con la violenza) ciò che in natura non esiste, per altri la libertà finiva col coincidere con la libertà di pochi (o anche di molti) di sopraffare gli altri, di sfruttarli, di tenerli in condizioni di perenne subalternità.
Antiche diatribe non ancora sopite, le cui ragioni non si giustificano, come si potrebbe dimostrare, se passate al vaglio di rigorose analisi filosofiche, ma che sul piano storico hanno svolto un ruolo determinante nella formazione di grandi movimenti di opinione, di partiti e gruppi, ed hanno generato guerre e lotte il cui ricordo sopravviverà indelebile nella memoria collettiva. Il nostro compito è, ora, quello di guardare al futuro, pur non dimenticando il passato.
Se vuole essere vivo e non consegnarsi alla storia come i tanti movimenti etico-politici che hanno svolto un ruolo e che si sono esauriti con la loro stessa affermazione, il liberalismo deve proporsi come sintesi nuova della modernità, come l’ideale, si sarebbe detto il secolo scorso, capace di accogliere l’eredità delle libertà antiche e coniugarle con le libertà nuove, di recepire ed assimilare le antiche critiche, gli storici avversari, per poter comprendere il nuovo corso della storia, per far fronte, per quanto possibile, alle nuove sfide. Perché, se è vero che a nessuno è consentito far previsioni, a tutti tocca il compito di far accadere il futuro. Prevedere, concretamente e non astrattamente, il futuro vale creare il futuro. Voler compiere un atto politico, avvertire che quell’azione politica è possibile, equivale a disegnare il futuro, è già un creare la storia.
Ma alla speranza deve accompagnarsi l’analisi razionale, il giudizio. Alla volontà morale l’ipotesi, l’orizzonte teorico generale verso il quale ci si dovrà, pazientemente, orientare. Ed oggi, a nostro avviso, il liberalismo può rigenerarsi come superamento della crisi della democrazia ricollocando l’individuo al centro della sua riflessione e del suo impegno politico e civile. L’individuo, naturalmente, inteso in senso moderno.
Il liberalismo , per troppo tempo, si è esaurito in una concezione economicistica dell’uomo, finendo col dar ragione ai suoi più aspri critici. A coloro i quali, con esagerata enfasi ma con qualche ragione, hanno voluto identificare l’uomo liberale con l’individuo chiuso nel suo egoismo, nella ricerca di una particolare felicità, incurante dei più vasti destini dell’umanità, del generale progresso della storia. Un liberalismo che, paradossalmente, si capovolgeva in una sorta di darwinismo sociale, come è stato efficacemente detto, o, addirittura, in una sorta di superomismo scialbo nel quale l’uomo, chiuso nella stretta cerchia dei propri meschini interessi, assurgeva a simbolo di nuovo, incontrastabile, dominatore.
Concezione economicistica la quale, paradossalmente (come già notò Croce), accomuna questa versione del liberalismo al marxismo delle origini , che tutto pretendeva fondare sulla struttura economica della società, soffocando ogni umana aspirazione in una angusta visione della storia.
D’altro canto, a ben riflettere, sia il liberalismo liberista che il marxismo originario, erano indissolubilmente legati ad una interpretazione del capitalismo concepito come una rivoluzione, nel bene come nel male, dell’intero assetto sociale, culturale, politico. Viviamo oggi , molto probabilmente, l ‘epilogo di quell’esperienza storica.
L’individualismo liberale deve fondarsi oggi su una diversa idea di individuo: l’individuo comunitario, concepito nelle sue relazioni, come soggetto del mondo. L’individuo che è tale non perché è un atomo incapace di inserirsi in una più ampia contestualità, ma in quanto è ciò che ha la sua stessa essenza nell’essere in comunità. L’individuo che concretamente si realizza attraverso le sue azioni, le sue opere (grandi o piccole) di cui porta per sempre la responsabilità. Davanti a Dio per il credente, davanti all’umanità e alla propria coscienza per il non credente.
L’individuo comunitario che difende i propri diritti come quelli della comunità (che non si esaurisce nel formale rispetto della libertà altrui), diritti, naturalmente, storici, ossia sempre nuovi e sempre in pericolo. Questa idea di individuo deve tornare ad essere il centro della politica liberale: il dover essere , l’utopia concreta che il liberale deve perseguire.
Altrove, se mi è consentito ricordarlo (nel volume Il liberalismo come metodo edito. dalla Fondazione Enaudi), ho cercato di dimostrare come l’antica polemica fra liberalismo giusnaturalista e liberalismo storicista possa essere parzialmente superata tornando a collocare la dimensione dell’individuo comunitario e storico come termine assoluto di riferimento. Assoluto, ovviamente, in senso moderno, ossia in continua relazione con la storia, con la realtà. Riscoprire, dunque, il valore dell’utopia come ciò che regola e orienta l’azione e non come mera costruzione di un modello astratto e perciò stesso irragiungibile.
Questa scelta, questa dimensione del liberalismo consente una visione che potremmo definire ampiamente sociale del liberalismo stesso, democratica senza per questo cadere in forme di democraticismo. Una posizione che può prospettare una nuova, più matura alleanza fra liberalismo e socialismo, una volta che questi abbiano abbandonato il dottrinarismo e il massimalismo.
Anche la sinistra ha scontato e sconta, come il liberalismo, un notevole ritardo nell’analisi della società. Una volta abbandonato il concetto troppo angusto della lotta di classe, non sempre socialisti e postcomunisti sono stati in grado di individuare i nuovi soggetti sociali svantaggiati (i non inclusi, per dirla con il liberalismo progressista anglosassone), di saper ricostruire un’utopia concreta una volta caduta l’utopia marxista. Forse oggi liberalismo e socialismo, liberatisi delle ipostasi dottrinarie (che pure hanno svolto la loro nobile funzione) possono incontrarsi sul comune terreno della difesa dell’individuo inteso, lo si è già detto, come soggetto creativo della storia e come limite invalicabile di ogni azione politica. Il liberalismo perderebbe così la sua coloritura conservatrice e il socialismo recupererebbe la sua spinta libertaria.
La crisi del nostro tempo, come tutte le crisi, è crisi essenzialmente morale, che non può essere combattuta e vinta sul mero terreno della politica, dell’amministrazione, dell’efficienza, di valori fondamentalmente economicistici e, perciò stesso, riferiti ad una parte sola dell’uomo, a qualsiasi classe, gruppo, nazionalità o razza egli appartenga.
Efficienza, coerenza, sono valori strumentali (e perciò, forse, non sono valori in senso proprio), non possono diventare fini o sopraffare gli altri valori come abbiamo visto a proposito della giustizia, che può , se collocata all’apice della piramide immaginaria dei valori, soffocare la libertà e, con essa, la giustizia stessa. Troppo spesso l’ansia di efficienza, la moralistica richiesta di coerenza, si tramutano in un dispotismo debole, se non addirittura in vera e propria tirannia. L’individuo comunitario rimane pertanto il termine di riferimento generale e sostanziale attorno al quale si può e si deve costruire un nuovo modello di società, un nuovo sistema di valori, per dirla con parole, forse, abusate.
Rispetto dell’individuo, per tornare al nostro discorso di fondo, vale anche come limite della democrazia e così si spiega l’apparente paradossalità del titolo scelto per queste poche pagine: La libertà dopo la democrazia.
La libertà, se è concreto rispetto dell’individuo, è ciò che determina i confini della democrazia. La democrazia è il sistema istituzionale, giuridico, politico, attraverso il quale la libertà moderna si esplica concretamente. Se si rompe questo equilibrio, entra in crisi la libertà, la democrazia conosce la sua deriva plebiscitaria, il totalitarismo. Oppure si autolimita attraverso una sottrazione del potere di rappresentanza del “popolo sovrano” attraverso meccanismi intrinsecamente illiberali. Lo abbiamo visto nel primo capitolo a proposito dalla piccola e ingenerosa “rivoluzione” nell’Italia degli anni Novanta. La democrazia era deperita in partitocrazia sul finire della cosiddetta prima Repubblica: una sorta di oligarchia governava il Paese emarginando crescenti settori della società. La giusta e comprensibile reazione a questo stato di cose per i motivi che abbiamo detto, si è trasformata in rivolta ingenerosa, in deriva plebiscitaria: in una prima fase sotto l’egida di un giacobinismo qualunquista e giustizialista, in una seconda fase sotto il segno di un’ inedita miscela di liberalismo e populismo. Anche le ultime elezioni, per restare ancora al caso italiano, pur ricostituendo le ragioni della convivenza civile, hanno mostrato con la scelta autoritaria e partitocratica dei candidati, quanto sia forte il rischio di tornare a quella sorta di democrazia oligarchica che sembra segnare la continuità della storia politica italiana: l’alternativa non può consistere, come sembra accadere, nella contrapposizione fra democrazia plebiscitaria e democrazia senza rappresentanza, fra populismo e trasformismo delle classi dirigenti. In verità, democrazia e libertà devono poter convivere, anche se non è detto che liberalismo e democraticismo (intesi come insiemi di dottrine politiche) possano sempre convivere perché, come potrebbe essere facile dimostrare anche storicamente, le dottrine democratiche si collocano in uno spazio neutro fra liberalismo e socialismo e non si deve dar per scontato che la democrazia sia per sua natura più vicina al socialismo o al liberalismo. Lo si è visto: per taluni aspetti il dialogo fra socialismo e liberalismo è perfino più semplice. Liberalismo e socialismo si pongono talvolta come argine alla crisi della democrazia.
Per troppo tempo è sembrato che i termini libertà e democrazia fossero diventati sinonimi. La storia recente ha dato un duro colpo al nostro ottimismo o, almeno alla nostra superficialità. C’è sempre qualcosa che ci trascende e che dobbiamo faticosamente, quotidianamente, riafferrare e rendere immanente. E’ la nostra avventura, forse il nostro dramma. Concediamoci un finale retorico: l’affascinante dramma della libertà.

(*da E.Paolozzi, La rivoluzione ingenerosa, Parte II, Guida, Napoli, 1996)