I – La rivoluzione ingenerosa
Il Crollo
Nel 1989 Giulio Andreotti, il più longevo uomo politico italiano (alla ribalta sin dagli anni della Costituente), guida il governo con l’appoggio del suo partito, la Democrazia Cristiana, dei socialisti riformisti di Craxi, dei socialdemocratici, dei repubblicani e dei liberali. In quello stesso anno cade il Muro di Berlino, quasi a simboleggiare fisicamente la morte del comunismo. Si avvia, per ovvia necessità, il travaglio del più grande partito comunista dell’Occidente, il partito comunista italiano, che muterà nome e atteggiamenti politici per arginare la profonda crisi in cui versava ormai già da anni.
Sul piano politico, culturale e morale, sembra che per la classe dirigente che ha governato il paese per un quarantennio, non possa che profilarsi un radioso avvenire. Il nemico più temibile è travolto, umiliato. Sulla destra (è doveroso ricordarlo) non vi è nulla o quasi: i moderati e i conservatori aderiscono e votano per i partiti di governo e il partito erede del fascismo sembra ricevere solo il consenso di pochi nostalgici, e di frange emarginate di giovani sbandati. Morto il suo ultimo leader storico, Giorgio Almirante, sembra destinato alla scomparsa.
Qualche sintomo di crisi era apparso all’orizzonte: nel 1987 venivano eletti in parlamento un deputato e un senatore della Lega Nord, un movimento nato in Lombardia dai tratti ancora indecifrabili, ma da tutti (o quasi) considerato, con il suo reclamare la “separazione” della ricca regione dall’Italia, poco più che un movimento folcloristico.
Il centro della politica italiana cresceva a dismisura. La lotta, come vedremo, ridotta ad una concorrenza di tipo personale fra leaders, gruppi, correnti e frazioni (anche agguerrite) ma sostanzialmente uniti in una comune visione del modo di intendere e praticare il Potere. Un democristiano conservatore, Mario Segni, propose un referendum –1991– per abrogare le preferenze multiple nel tentativo di limitare lo strapotere delle segreterie dei partiti organizzati. Fu una travolgente vittoria: favorevoli il 95% degli elettori. Un altro campanello d’allarme, ma molto fievole. Dove erano le forze organizzate in grado di mettere in discussione partiti e governi forti e sperimentati, che avevano brillantemente superato crisi di grande portata, come la rivolta studentesca ed operaia degli anni Sessanta, la crisi economica ed energetica degli anni Settanta, il terrorismo rosso e nero?
E, invece, il sistema italiano somigliava ad un gigantesco telone di cartapesta. Bastava un po’ di vento a farlo crollare. E il vento cominciò a levarsi il 17 febbraio del 1992, quando un oscuro pubblico ministero fece arrestare un altrettanto oscuro uomo politico aderente al partito socialista. Da allora, come in una reazione a catena, l’intera classe politica italiana crollò sotto i colpi di indagini giudiziarie.
In due anni scompare la Democrazia cristiana e si frantuma il mito dell’unità politica dei cattolici; scompaiono i partiti di cultura risorgimentale, liberali e repubblicani, i partiti dell’Internazionale socialista.
Un referendum popolare, promosso ancora da Segni, abroga il sistema elettorale proporzionale. L’Italia va al voto con un maggioritario spurio, in un clima rovente che ricorda quello del ‘48. Le inchieste continuano fra sospetti e ipocrisie; i mass-media soffiano sul fuoco e l’incendio divampa sempre più furioso. Il PDS (ex PCI), solo pochi mesi prima moribondo, sembra poter vincere le elezioni, ed ha già conquistato, con i suoi alleati di sinistra, nelle precedenti elezioni amministrative, grandi città come Torino, Roma, Napoli e Palermo. Cominciano a nascere sospetti sulle procedure seguite da alcuni magistrati che vengono accusati di svolgere un’azione politica al servizio delle sinistre. Ma la gente sembra essere con i giudici e prospera nel paese una sorta di caccia morale agli inquisiti, ai cosiddetti riciclati (erano così definiti tutti quelli che avevano svolto una qualche funzione pubblica salvo, naturalmente, alcuni unti dal Signore) e agli amici degli amici degli amici degli uomini politici in disgrazia.
Un imprenditore, proprietario dell’unico polo televisivo privato concorrente di quello pubblico, nel passato legato al partito socialista, crea, in pochi giorni, un movimento politico dai tratti ideologici indecifrabili, ma estremamente visibile e chiaro nel messaggio elettorale. Rispolvera, in sostanza, l’antica paura del comunismo, rivendica il liberalismo ma, contemporaneamente, si allea con il Movimento Sociale Italiano, statalista ed erede del fascismo, che la nuova legge elettorale sembrava aver destinato alla scomparsa, e con la Lega. Le elezioni vengono vinte, sia pure di poco, dallo schieramento di destra. Il centro, formato dagli ex democristiani (il neonato Ppi) e dai referendari di Segni, viene travolto. La sinistra, egemonizzata dal PDS, si definisce di gran lunga l’unica forza in grado di resistere a di sconfiggere la destra. E da allora un susseguirsi di crisi, di ribaltoni, di scomporsi e comporsi in alleanze, in uno scontro senza precedenti fra i Poteri dello Stato; di crescente disoccupazione, in un clima di persistente confusione.
Ci fermiamo qui. Tocca ad altri e più autorevoli storici raccogliere documenti, collegare fatti e persone. Ma come appaiono inadeguate le categorie politiche e sociologiche con le quali ci ostiniamo ancora ad interpretare gli eventi! Sinistra, destra, centro. Luoghi geografici o punti geometrici? Strano caso quello di un Paese in cui gli excomunisti e gli exfascisti, solo pochi anni prima incamminati verso la scomparsa, si contendono, alle soglie del Duemila, il governo di una delle più grandi democrazie occidentali. Strano paese quello in cui molti meridionali hanno votato per una coalizione della quale era parte integrante un partito nato in funzione essenzialmente antimeridionale. Strano paese quello che, in pochi mesi, condanna tutta la sua storia, cinquant’anni di vita democratica.
Qualcosa, anzi molto, sfugge ad una consueta interpretazione politologica degli avvenimenti. Come se, all’improvviso, scoperchiata la pentola, abbia disvelato la sua vera natura un popolo completamente diverso, incapace di governarsi secondo i principi di una moderna democrazia.
Non appaiono chiari quelli che un tempo si sarebbero chiamati interessi di classe, le tendenze etico-politiche dei neonati opposti schieramenti, e tanto meno degli elettori. Sembra che, caduti alcuni vincoli, il popolo si sia smarrito e segua comportamenti dettati unicamente da sentimenti elementari quali la simpatia e l’antipatia, l’affidabilità, la coerenza … . Anche Hitler fu uomo coerente, anzi coerentissimo, e Stalin affidabile ed efficiente. Il paese, tenuto insieme per decenni dalla paura del comunismo sovietico e dalle clientele dei partiti di governo, è sembrato perdersi allorché una serie di avvenimenti casuali gli ha affidato per intero la responsabilità della propria libertà.
Eppure, in attesa che la prospettiva storica ci rimetta in condizione, se sarà possibile, di “comprendere” i nessi e le ragioni della recente storia italiana, si può azzardare un’ipotesi: il nostro travaglio è figlio di una condizione generale di stampo metapolitico: è la crisi di una società cinica che si era mimetizzata e quasi accovacciata sotto il lieve peso di retoriche definizioni: società postmoderna, pragmatica, postideologica, e così via. Non riusciremo a intendere fino in fondo le nostre vicende se non troveremo il coraggio di leggere in noi stessi; non potremo mai costruire un futuro se continueremo a fingere di conoscere un passato che non esiste. La crisi italiana ha radici morali ben salde negli anni Ottanta. E’ la crisi di un modo di concepire la vita, di una cultura, di una civiltà che sembra essere stata sommersa e che potrà riemergere solo a patto che non si nasconda dietro le ipocrisie delle interpretazioni “scientifiche” della politologia.
Gli anni del consenso
Negli anni Ottanta la democrazia italiana sembrava aver raggiunto il culmine della sua maturazione; le idee liberali trionfavano; il livello complessivo della vita civile cresceva. Il terrorismo di destra e di sinistra (soprattutto di sinistra) che aveva annichilito gli italiani nel decennio precedente, era stato sconfitto. I partiti estremisti irrimediabilmente condannati ad un sterile ruolo di testimonianza, oppure rapidamente incamminati sulla via del riformismo. Ciò che sembrava una malattia tipica della politica italiana, il sotterraneo accordo fra governo e opposizioni, il cosiddetto consociativismo fra partito cattolico di governo e partito comunista all’opposizione, sembrava essersi esaurito dopo aver raggiunto l’acme con i governi di solidarietà nazionale nati con l’emergenza del terrorismo. L’inflazione, sul piano economico, in gran parte domata. La conflittualità sociale ristretta negli ambiti fisiologici: il capitalismo italiano, superata la crisi energetica, avviato sulla strada della ristrutturazione concordata con le grandi forze sindacali. Il governo politico, espressione di un diffuso moderatismo di centrosinistra (ciò che sembrava incarnare da sempre l’ideale tranquillo della maggioranza degli italiani) era rappresentativo delle tre grandi forze ideali e sociali della storia nazionale: i cattolici-popolari, i liberali, i socialisti riformisti o democratici. L’instabilità stessa, caratteristica dei governi italiani, sembrava attenuarsi e i governi, sostanzialmente, reggevano all’ urto di una consuetudinaria e mai traumatica lotta politica. Mai, come in quegli anni, il benessere materiale sembrava essersi ampiamente e stabilmente diffuso fra crescenti strati della popolazione, del Nord come del Sud.
Non mancavano certo le lamentele e i mugugni, ma nulla pareva dover deviare dalla quieta e tranquilla gestione di una consolidata e affidabile democrazia avanzata. Finalmente l’Italia postfascista, contadina e povera, era entrata a pieno titolo nel consesso dei grandi paesi industrializzati, delle grandi e influenti democrazie occidentali.
Il grande edificio costruito dalle generazioni postfasciste sembrava solido sulle fondamenta, anche se si avvertiva qua e là qualche soffocato scricchiolio. I servizi sociali non sempre si dimostravano all’altezza della situazione: ferrovie, poste e burocrazie lasciavano a desiderare. Ma qual è quel popolo, dall’antica Atene alle avveniristiche megalopoli americane, che non si lamenta, che non mugugna, che non chiede al re, all’imperatore, al Papa, al Presidente, allo Stato, maggiore impegno nell’assistenza, una migliore qualità dei servizi? E i grandi mali che affliggevano l’ambiente, dall’inquinamento alla devastazione architettonica delle grandi città, non erano forse un male universale, rovescio della medaglia del magnifico e inarrestabile progresso, male che sovrasta la responsabilità di una classe politica di un solo paese?
Così, a tutti, sembrava. Le ideologie, si proclamava con soddisfazione, i rigidi steccati eticopolitici, morti e sepolti. Un sano e robusto pragmatismo subentrava, finalmente, alle risse ideali: non più marxisti e crociani, atei e cattolici. Gli italiani, cresciuti e maturati, come saggi dirigenti di piccole e prosperose aziende di provincia, pensavano a lavorare, ad accrescere il proprio patrimonio, a discutere anche e, se il caso, a litigare, ma limitatamente a piccole faccende di economia domestica. I giovani, eternamente rivoltosi e scioccamente idealisti, ora, nell’Italia matura e saggia, si dedicavano, come sembrava più giusto, allo studio, allo sport, al divertimento. I loro cortei sfilavano non più per chiedere giustizia e libertà, ma banchi nuovi e computers aggiornati.
Gli intellettuali ufficiali, sempre dediti a secondare le mode e a servire i potenti, non erano più necessari. La loro mediazione essendo divenuta inutile, perché la gente era già convinta, aveva già aderito spontaneamente al nuovo ordine sociale. Erano gli anni del consenso; i partiti di opposizione e i sindacati, convertiti, costruttivi e sanamente pragmatici come l’intera società, non chiedevano altro che poter convivere con altre forze sociali, in un governo unico della prosperità.
Gli intellettuali certificavano l’accaduto con l’ideologia della morte dei conflitti e delle idee. Il pensiero debole era il nuovo ideale della società postindustriale, secondo la definizione che i cugini francesi d’oltralpe davano della storia contemporanea.
Ma come ha potuto un edificio così ben costruito, abitato da inquilini dotati di così gran buon senso, franare all’improvviso senza nessuna apparente causa esterna? E’ che il pragmatismo è la foglia di fico che nasconde il cinismo e il cinismo, se è veramente tale, distrugge se stesso.
La società cinica
Negli anni Ottanta la società pragmatica finì col rivelarsi (perché in realtà era) la società cinica. In una sorta di rinnovata guerra di tutti contro tutti si dipanò la vita civile della nostra Italia, in un’apparente serena tranquillità. Con mezzi e strumenti diversi e raffinati si ricostruiva una sorta di stato di natura, simile a quello che alcuni filosofi del Seicento ipotizzavano precedere lo stato civile. In realtà i due stati convivono in eterno conflitto e in equilibrio tanto precario da spezzarsi con estrema facilità.
Irrisi gli ideali, considerati con fastidio una sorta di intralcio sulla via dello sviluppo della nazione, si lasciava libero il campo alla corsa all’esaudimento della felicità individuale nella totale dimenticanza che la felicità individuale può esplicarsi solo se le altre individualità glielo consentono, immerse come sono anch’esse nella realizzazione della propria felicità. E’ strano come il cinico dimentichi così facilmente che, prima o poi, diffusosi il verbo, il cinismo degli altri si ritorcerà contro di lui. Mai i detti biblici, “chi di spada ferisce di spada perisce” e l’altro, più profondo, “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, fra i più inascoltati dall’umanità, sono stati tanto disattesi come negli anni Ottanta.
E’ questo il filo rosso che unifica la nostra storia recente, il fenomeno profondo che, come un fiume carsico, si inabissa per poi ricomparire, fra la prima e la seconda repubblica, a cavallo della “rivoluzione” italiana.
Le analisi politologiche, le statistiche, i ragionamenti geometrici, lasciano il tempo che trovano: appartengono semmai alla storia in quanto esprimono punti di vista particolari travestiti da ragionamenti scientifici, ma non sono essi la comprensione storica. La storiografia giudica, senza troppi moralismi, e cerca di comprendere i nessi che giustificano alcune connessioni storiche. Senza moralismi ma non senza passione. E la passione ci conduce a ripensare a quegli anni secondo la generale opinione che se ne ebbe, secondo i sentimenti reali che li agitarono.
La crisi delle ideologie e degli ideali politici non poteva che partorire una generale povertà della politica. Mancando i punti di riferimento filosofici e storici, messe in soffitta le grandi visioni del mondo che avevano improntato di sé gli anni della “ricostruzione” seguita alla disfatta militare del regime fascista, lo scontro politico tendeva a ridursi sempre più a scontro fra gruppi dirigenti dei partiti, al di là delle appartenenze culturali e sociali. Non che prima, come sempre, la lotta politica non si riducesse spesso e volentieri a mera guerra fra i detentori dei vari poteri, economico, politico, giudiziario, e cosi via. Ma i protagonisti erano costretti malgrado se stessi, a muoversi in uno scenario ben delineato in un ambito certo di regole e consuetudini. Comunisti e fascisti, socialisti e liberali, cattolici e laici: opposizioni reali, oltre le quali non si poteva saltare con tranquilla indifferenza. Se a fronteggiarsi erano opposte visioni della vita, non era lecito accordarsi se non in casi eccezionali o per mediare interessi reali della società. Ma se la lotta politica diveniva, secondo il pragmatismo in voga, una lotta per la conquista del potere (dalla conquista del Governo alla guida del Sindacato, dal controllo dell’informazione al controllo del potere giudiziario) oppure una semplice questione di amministrazione dalla gestione delle risorse, perché mai non ci si sarebbe dovuti accordare sull’essenziale, ossia sulla difesa dei propri interessi, sulla salvaguardia della classe dirigente del paese?
La classe politica e l’intera classe dirigente (dai dirigenti industriali agli intellettuali) si chiusero in se stesse, dando vita ad una forma di oligarchia che di giorno in giorno diveniva più opprimente e fastidiosa. Anche in Italia si sperimentava il male che sembra accomunare molti regimi democratici del mondo occidentale: la crisi della rappresentanza democratica fondata sulla mediazione della politica, sulla selezione della classe dirigente, sulla competizione di gruppi e associazioni alternative. Crisi che sfocia spesso, paradossalmente nell’eccesso di rappresentanza, nella richiesta plebiscitaria di un potere diretto da un non meglio definito popolo (la gente). I leaders dei partiti e dei sindacati, i dirigenti delle aziende e delle Università, tutti coloro che occupavano un incarico di responsabilità, tendevano infatti, sempre più, a difendere la rendita di posizione acquisita, così esaltando una vocazione strutturale della politica italiana, del carattere italiano che neanche il regime fascista aveva potuto sradicare.
Morti degli ideali, assopita ogni passione, perché non dedicarsi alla mera conquista dei privilegi, perché non limitarsi alla ricerca del proprio, personale, tornaconto? Tanto più che perfino la più flebile condanna morale, che ogni società esercita nei confronti di se stessa, era caduta sotto i colpi del concretismo. L’ideologia pragmatista (perché anche il pragmatismo è un ideologia, una visione del mondo) che si era sostituita alle vecchie ideologie, liberava da ogni vincolo sociale, politico, civile. Le comunità si reggono soprattutto su regole di comportamento non scritte, su sentimenti condivisi, su idee generali che nessuno determina ma tutti accolgono sia pure trasgredendoli talvolta. Un tacito accordo, ad esempio, regola i comportamenti della buona educazione come del vivere in famiglia. Non vi è un principio morale o una legge codificata che imponga di salutare i vicini di casa, ma ciascuno avverte come naturale comportarsi educatamente. Se questo tacito accordo s’infrangesse, non c’è modo di porvi rimedio. E ciò che è veramente grave non è il fatto in sé e per sé: qualunque accordo si può, e talvolta si deve, infrangere. Si può infatti, ammirare un giovane che contesta le norme della buona educazione nel nome della lotta all’ipocrisia, spesso untuosa e fastidiosa, che regola i rapporti formali, ma è difficile giustificare chi infrange delle regole per mera pigrizia, per dabbenaggine, per gretta trascuratezza.
Così, per uscir di metafora, le vecchie leggi non scritte della politica italiana furono gettate al macero e ad esse si sostituì un comune sentire che, per così dire, concesse a tutti di comportarsi secondo i più particolaristici ed egoistici sentimenti. Fu il capovolgimento totale dei valori e dei codici di comportamento: ma il metro di paragone non fu il nietzschiano superuomo o oltreuomo quanto, piuttosto, i meschini calcoli di infiniti ragionieri del benessere edonistico. I partiti i sindacati non più veicoli di idee o di interessi di gruppi e classi, divennero sempre più gli strumenti di conquista per improvvisati e fortunati oligarchi. La partitocrazia, male atavico delle democrazie europee, si impose come nuova regola non scritta della società italiana. La selezione delle classi dirigenti avveniva per mera cooptazione, con il criterio tipico delle oligarchie autogeneratesi: il criterio dell’affidabilità e del servilismo. La composizione del Parlamento e soprattutto dei Consigli comunali, provinciali e regionali risultava così sempre più scadente e mediocre.
Alla classe dirigente che si era formata nella lotta al fascismo, nella temperie morale e politica della guerra e della ricostruzione, si andava lentamente sostituendo una classe dirigente fiacca e incolta, incapace, come vedremo, perfino di difendere se stessa nel momento del pericolo. La corruzione diffusa, per certi aspetti, è stata l’effetto più che la causa del crollo del sistema dei partiti italiani, il casus belli, la goccia che fa traboccare il vaso.
La corruzione come norma, si potrebbe intitolare un paragrafo di un futuro libro di storia dedicato ai nostri avvenimenti. Soltanto, infatti, una massiccia dose di fariseismo può lasciar credere che la disonestà fosse prerogativa di questo o quel partito, di una parte o anche di tutta la classe politica. Lo svolgimento, sia pure parziale, delle grandi indagini giudiziarie che hanno sconvolto il paese dimostra come disonestà e corruzione fossero diventate il modus vivendi dell’intera nostra società. Il portato pratico, avrebbe detto Marx, della generale diffusione dell’idea-guida, dell’idea regolatrice degli anni Ottanta: la cinica ideologia pragmatistica che solo buontemponi della politologia possono confondere con il nobile ideale liberale. Certo, un’indagine storica strettamente scientifica deve mettere nel conto della crisi italiana tanti altri fattori non certo secondari. Non esiste mai un’unica causa che generi, determini, i fatti della storia; nessuno può essere tanto presuntuoso da voler cogliere l’essenza di un’ epoca Ma ciò non significa che non si possano e non si debbano rintracciare elementi unificanti, che non sia lecito conferire un senso agli accidenti. Il contrario di ciò è teorizzare il caos, santificare la casualità, in ultima analisi condannarsi a tacere, liberarsi da ogni responsabilità morale ed intellettuale. Significa nascondersi dietro l’apparenza di una storiografia dotta e meditata, infarcita di cifre e dati, priva di giudizi di valutazione, una storiografia, avrebbe detto Droysen, da eunuchi.
Dunque bisognerà mettere nel conto l’insorgere della crisi economica e dell’occupazione, mettere in luce i legami con la più generale depressione mondiale, lo stringente trattato diMaastricht, ripercorrere le tappe della degenerazione dello Stato sociale in Stato assistenziale e clientelare, considerare la profonda crisi della rappresentanza politica e tutto leggere e interpretare alla luce dei gravi avvenimenti della storia mondiale, come la caduta dei regimi comunisti dell’Est europeo. Lo storico di razza narrerà le vicende degli uomini in carne ed ossa, dei protagonisti, dei piccoli martiri e dei piccoli eroi del nostro tempo. Ma come non essere tentati dal voler scorgere i nessi e le continuità, come non individuare nella crisi dello Stato sociale, nel deprimersi dello sviluppo economico, nel prosperare della criminalità, nel recente disagio dei nuovi emigrati privi di ogni rappresentanza politica, la crisi profonda della democrazia e del liberalismo come valori fondamentali della nostra comunità?
Vedremo come il caso italiano, con la sua irriducibile specificità, sia per tanta parte un caso paradigmatico; come tanti sentimenti e tante riflessioni che le nostre vicende propongono, siano comuni al destino dei grandi Paesi fondati su istituzioni democratiche.
Ripercorriamo, ora, la svolta radicale impressa alle indagini giudiziarie che hanno sconvolto l’assetto politico italiano, che hanno bruscamente accelerato la decadenza del sistema, già scritta, d’altronde, nelle cose stesse, nella società cinica degli anni Ottanta.
La rivoluzione ingenerosa
Anche la più tragica delle rivoluzioni possiede un’anima generosa. I rivoluzionari della Francia del 1789, pur macchiandosi di delitti terribili, sentivano di realizzare in terra degli ideali di umanità: la fratellanza, l’eguaglianza, la libertà. I fanatici e sanguinari russi seguaci di Lenin erano convinti di edificare il “regno della libertà”, ove non sarebbero esistiti mai più oppressi e oppressori ma la comunanza dei beni, il comunismo.
Il tratto distintivo delle due grandi rivoluzioni contemporanee fu, dunque, la generosità, l’idealità morale dei fini che si volevano raggiungere.
Nel nostro caso, sotto quale segno è nata la piccola rivoluzione italiana, se rivoluzione fu? Non temo, diciamolo subito, di usare la parola rivoluzione per indicare ciò che è accaduto e forse ancora sta accadendo nel nostro paese. Non lo temo perché intendo usarla in maniera molto generica anche se non per questo meno pregnante. Certamente bisognerebbe poter disporre di più precise connotazioni giuridico-istituzionali. Per esempio, trovarci al cospetto di un radicale mutamento del sistema delle istituzioni, come il passaggio dalla monarchia alla repubblica, dalla repubblica parlamentare ad una repubblica plebiscitaria.
E’ mancato e manca il “progetto rivoluzionario”, l’idea guida che orienta un consapevole movimento rivoluzionario da lungo tempo preparato e meditato. Per dirla con Tocqueville, la crisi italiana si è rivelata essere più un tumulto che una vera e propria rivoluzione.
E’ però indubitabile che in pochi mesi e in presenza di avvenimenti traumatici, il sistema politico italiano sia andato in frantumi, modi e stili di vita politici totalmente capovolti, antichi comportamenti sradicati.
Il motivo scatenante è stata la cosiddetta questione morale o, meglio, la questione dell’onestà. Tutta la lotta politica, la varie campagne elettorali, i comizi, gli interventi giornalistici e televisivi, si condensavano nella rivolta degli onesti contro gli uomini politici corrotti. Un vero e proprio furore dell’onestà ha attraversato la nazione: non solo chi chiedeva la testa dei corrotti, ma anche quella dei loro congiunti, degli amici, dei conoscenti, e cosi via. Nelle elezioni amministrative di molte grandi città italiane, il confronto fra i candidati sindaci si svolgeva essenzialmente sul terreno della provata onestà degli uomini e delle donne in lizza. Nessun altro valore valeva quanto il valore dell’onestà o del nuovo (connotazione in genere totalmente vuota ed astratta!), in quanto nuovo significava essenzialmente distanza dal vecchio sistema corrotto e disonesto.
Ora, sarebbe una mancanza di buon senso rifiutare il valore dell’onestà così genericamente inteso. Non vi è seducente o sofisticato intellettualismo che possa contraddire ciò che tutti avvertiamo e sentiamo. Rubare è male ed è ancor più grave rubare alla res publica, allo Stato mentre ne si è i legittimi (perché eletti in democrazia) rappresentanti: significa rubare e tradire assieme. Ciò detto, non si può negare la necessità di analizzare da vicino il concetto di onestà, perché nel nome dell’onestà si può perdere la libertà, si può perfino morire: si giudicherà forse giusto e onesto chi per non lasciare il posto di lavoro esita a salvare un uomo in pericolo di vita?
L’onestà è un gran valore, una grande virtù (tanto più grande quanto più disattesa) se non si colloca in un assoluta gerarchia che penalizzi gli altri valori. In Italia si è corso il rischio di sacrificare la libertà in nome dell’onestà. La forte strumentalizzazione dell’onestà politica operata, naturalmente, da uomini politici, complice un popolo poco abituato, negli ultimi anni, a discernere e a distinguere, ha messo a repentaglio gli ordinamenti stessi della civiltà liberaldemocratica, ha travolto gli assetti politici nati dalle ceneri del fascismo, ha seminato un profondo quanto cieco odio sociale e una diffusa ipocrisia.
Difendere l’onestà significa difendere anche le condizioni in cui l’onestà possa esercitarsi, e con essa il libero controllo pubblico della sua reale attuazione. Questa condizione altro non è che la libertà, l’unico valore al quale è lecito conferire una supremazia gerarchica perché, se ben si riflette, è la libertà il valore che consente agli altri valori di affermarsi. I valori, di per sé, non hanno senso: assumono significato solo nelle loro relazioni. Preso in astratto il valore è mera retorica, artificio, in ultima analisi un non-valore, se non un cattivo valore. Scrive Nicolai Hartmann nell’Etica del 1926:
Ogni valore – una volta che abbia guadagnato potere su una persona – ha la tendenza ad erigersi a tiranno unico di tutto l’ethos umano, e ciò a spese di altri valori, anche di quelli che non gli sono diametralmente opposti.
Hartmann scrive ancora:
Tale tirannia dei valori si dimostra già chiaramente nei tipi unilaterali della morale vigente, nella nota intolleranza (anche da parte di persone altrimenti accondiscendenti) contro la morale sconosciuta; ancor più nell’attaccamento individuale di una persona ad un antico valore. Così esiste un fanatismo della giustizia (fiat justitia, pereat mundus), che offende non soltanto l’amore, per non parlare dell’amore del prossimo, ma addirittura tutti i valori superiori.*
Ma il furore dell’onestà fu anche passione morale? Fu l’Italia dei Savonarola o l’Italia dei farisei? Molti indizi lasciano credere che i Savonarola furono pochi, molti di più i lapidatori dimentichi di non essere senza peccato.
Il capo dei magistrati milanesi, iniziatori delle grandi inchieste giudiziarie, ha dovuto amaramente constatare quanto diffuso fosse nel nostro paese l’abito dell’illegalità, tanto da dover invocare, disperatamente quanto ingenuamente, l’intervento massiccio di professori e maestri per arginare la dilagante immoralità.
Ma allora, chi erano i tanti sostenitori dell’azione giudiziaria, da chi era formata quella moltitudine che innalzava un pubblico ministero ad eroe nazionale, votava a larghissima maggioranza in favore di una legge elettorale nuova (di cui non comprendeva a fondo i meccanismi), col solo intento di rovesciare la vecchia e corrotta classe politica? La rivoluzione, il tumulto, la rivolta italiana, fu in realtà una rivolta ingenerosa.
Il paese aveva conosciuto una parziale rivoluzione nei tardi anni Sessanta (il 1968). Una rivoluzione che si sostanziò soprattutto in un mutamento radicale dello stile di vita e del costume, senza troppo incidere sul terreno specificamente politico ed istituzionale. Ma quella rivoluzione, pur fra le tante astrusità, i pericolosi fanatismi che prepararono il terrorismo degli anni Settanta, fu generosa: fu combattuta anch’essa in nome di ideali umanitari, comunitari, internazionalisti. E produsse, come tutte le rivoluzioni generose, letteratura, musica, arte, filosofia. Produzione culturale spesso rozza o astratta, talvolta falsa e ipocrita, ma rappresentativa di stati d’animo largamente condivisi. I giovani, come sempre, furono gli ingenui e, diciamolo, irritanti protagonisti di quegli anni: con cupo e rigido moralismo sostennero, contraddittoriamente, ideali di liberazione collettiva: nell’economia come nel sesso, nei rapporti con lo Stato come in quello con i genitori.
Chi è il Bob Dylan degli anni Novanta? Quali i movimenti di liberazione? Non i movimenti referendari, sbriciolatisi di fronte all’insipienza del progetto politico complessivo, non la Lega Nord, fenomeno in larga misura particolaristico ed egoistico, mosso da intenti rivendicazionisti nei confronti dello Stato e punitivo nei confronti dei concittadini meridionali, non il movimento messo su da Silvio Berlusconi, pregno di rivendicazioni egoistiche ed utilitaristiche malamente mascherate da liberalismo. Il popolo degli anni Novanta appare sempre più un popolo mosso esclusivamente da sete di vendetta nei confronti di una classe politica della quale era stato per anni connivente e che adesso azzannava perché ormai indebolita ed indifesa. La gente, decantata da una stampa degna dell’ ironia del Candid di Voltaire o del Tartufo di Moliére, per rimanere in Francia, come un insieme di anime belle, intelligenti, mature, si è rilevata nei tanti appuntamenti elettorali sempre più confusa e incerta, contraddittoria e ingenerosa. Repentini cambiamenti da destra a sinistra e viceversa nel breve spazio di un mattino che solo una buona dose di ottimismo può ascrivere alla logica del maggioritario e dell’alternanza liberale. Il mutamento di opinione, infatti, avviene nei paesi di sperimentata democrazia dell’alternanza sulla base di valutazioni dei programmi e degli uomini e non, come in questi anni sulla base di sbalzi umorali, di irrazionali simpatie e antipatie. Anche l’ultima tornata elettorale dell’aprile del 1996, che per la prima volta ha portato al governo la sinistra democratica alleata con comparti del mondo cattolico e liberale, rappresenta l’urto, lo scontro fra due diverse civiltà, fra due lontane sensibilità ed è ancora presto per classificarla come un “naturale” evento tipico del sistema maggioritario. Lo dimostra tra l’altro la tenuta della Lega Nord e lo comprova il tentativo ancora in atto di scomporre , attraverso la creazione di un nuovo grande centro, i due schieramenti faticosamente costruiti.
Spesso la politologia sta alla politica come i commenti dei giornalisti sportivi stanno alle partite di calcio: non hanno alcun reale punto di contatto. E così dobbiamo rinnegare e quasi vergognarci (di quella vergogna che prende i bambini quando si scoprono ingenui) delle analisi e dei commenti scritti in questi anni. Non vi è nulla di più lontano dalla realtà, delle analisi degli opinionisti, delle geometrie disegnate dai professori di scienze politiche. La verità la percepiscono, alla pelle, le agenzie pubblicitarie le quali, se non avessero immediati e legittimi scopi pratici, potrebbero essere indicate come i veri, soli storici della rivoluzione italiana, dell’indecifrabile comportamento della gente di cui qui discorriamo timidamente.
Profluvi di argomenti inutili, di previsioni errate: “il maggioritario comporta l’unificazione dei diversi e la divisione in blocchi; il collegio uninominale avvicina il cittadino agli eletti; il nuovo sistema politico indebolisce i gruppi dirigenti dei partiti e dei movimenti a favore della partecipazione democratica e cosi via”.
In realtà i sentimenti dominanti sono stati un misto di utilitarismo egoistico e di inconsapevolezza dei propri interessi, un futile gioco di sentimenti elementari, quali la simpatia o antipatia personale dei vari leaders, l’irritazione per questo o quello slogan, la credenza in questa o in quella parola d’ordine. E, dunque, alle spalle del fantasma dell’opinione pubblica è apparso il volto vero della gente.
Romano Prodi, l’uomo gettato nell’arena per battere Berlusconi, dichiarò in televisione: “Gli esperti mi hanno consigliato di fare ascoltare il mio discorso pubblico al mio nipotino di quindici anni, poi farmelo ripetere e quindi leggerlo agli elettori cosi emendato.” Il professore si disse, giustamente, sconcertato. Ma è tanto falsa l’intuizione degli esperti?
Alle soglie del Duemila ci si è accorti che molti, troppi italiani credono alle Madonne che piangono sangue, che molti altri frequentano a pagamento maghi e fattucchiere. Non solo nel profondo Sud, ma nell’industriale Torino, patria italiana dei culti satanici. L’italiano medio: la mattina astuto evasore fiscale, il pomeriggio praticissimo maneggione di affari, la sera preda di un mago capellone e inanellato… Esagerazioni, forse caricature, ma di quale realtà?
Dove può condurci la volontà generale, il principio di maggioranza? Scopriamo in corpore vili, sulla nostra pelle, la tirannia della maggioranza, il dispotismo della democrazia.
La grande delusione
Dopo ogni rivoluzione, è banale ricordarlo, segue sempre la delusione. Foga rivoluzionaria, gelida reazione, grande disillusione. Anche il piccolo sconvolgimento italiano non è sfuggito a questa “legge” della storia.
Ma la particolarità del nostro caso sta, forse, nell’intrecciarsi e nel susseguirsi di speranze e delusioni, illusioni e disillusioni. O almeno così appare a chi è ancora totalmente immerso nel fluire degli avvenimenti che non sembrano ancora aver esaurito i loro effetti. Manca quella prospettiva che unifica i movimenti storici che ai protagonisti dovettero sembrare discontinui e contraddittori. E’ lo spettatore, e infatti, che conferisce unità alla commedia o alla tragedia della storia.
La delusione comincia a stringere d’assedio i protagonisti grandi e piccoli della rivoluzione italiana. Come in ogni stato rivoluzionario si mescolano grandi novità con vecchie liturgie, atti di coraggio con piccole meschinità. Bisognerebbe leggere e rileggere Gli dei hanno sete di Anatole France per comprendere cosa avvenne fra la gente al tempo della rivoluzione francese e paragonare quegli stati d’animo a quelli della nostra gente in momenti di grande e generalizzata confusione.
Larghi settori della magistratura, che avevano vissuto il sogno di una giustizia trionfante e invincibile e che avevano conosciuto giorni di gloria, assistono al triste spettacolo della realtà: un paese corrotto in profondità; una nuova classe politica che tende a restaurare gli antichi privilegi ai confini della legalità costituzionale e di quella ordinaria; al sorgere, o al consolidarsi, di poteri economici tanto forti da porsi, di fatto, al di là o al di sopra della legge. Restano lunghi processi che non vedranno mai la fine e saranno svolti nel più assoluto e grigio anonimato. Vendette trasversali tormentano la vita della magistratura italiana divisa, pur essendo accerchiata.
Cala il sipario anche su tanti piccoli protagonisti delle rivoluzioni referendarie. Su quella cosiddetta società civile che aveva creduto di potersi sostituire alla classe politica, con improvvisazione pari solo alla sua arroganza. Dilettanti allo sbaraglio, che avevano vissuto il sogno di poter spodestare i partiti e i movimenti approfittando di un clima generale nel quale tutte le regole della politica venivano sommariamente derise e disprezzate: la capacità di mediazione, l’intelligenza concreta delle cose, la capacità di coniugare la lungimiranza dei progetti con la necessità del momento, di sintetizzare l’ideale con la realtà. Cala il sipario sul protagonismo sfrenato di decine di donne ed uomini che, illusisi di riappropriarsi della politica e della democrazia, di fatto avevano costituito una sorta di permanente democrazia assembleare, nella quale l’ultimo venuto pretendeva di dettar legge e poi, novello Robespierre di provincia, dettare a tutti le regole dell’uguaglianza. Cala il sipario sullo sciapito giacobinismo egalitaristico dei primi anni Novanta.
Sulle sue ceneri è sorta, una volta troncate di netto le radici della cultura politica italiana, una classe politica nel complesso, e salvo le dovute eccezioni, arrivista e velleitaria. Ma la delusione è calata, come una coltre di nebbia, sulle speranze degli irriducibili “popoli” di destra e di sinistra, ai quali non era sembrato vero che il grande partito che per cinquant’anni aveva di fatto governato il paese, sia pure alleandosi (compromettendole) con le opposizioni, fosse crollato verticalmente, di un sol colpo. Sconfitta la Democrazia Cristiana, e sconfitti i suoi alleati storici, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali, sia a destra che a sinistra gli intellettuali militanti, i nostalgici del fascismo e del comunismo hanno sperato di poter finalmente occupare la scena politica. A destra, soprattutto, cresceva la febbre della vittoria, tanto più alta quanto più duraturo e inflessibile era stato l’ostracismo inflittole dalla cultura ufficiale. Ritornavano nomi e spettri del passato e, finalmente, la nostalgia del fascismo poteva riemergere con orgoglio e arroganza insieme. Per molti, troppi anni, il sistema di potere creato dalla democrazia cristiana aveva come occultata una realtà profonda, che era sfuggita anche ai più attenti interpreti della società italiana: parte cospicua di essa era profondamente e radicalmente fascista. I valori, elementari e rozzi, che ispirarono e fecero la fortuna della dittatura mussoliniana ritornano prepotentemente in questi anni, condivisi da larghi strati della popolazione: il disprezzo per la complessità, per la diversità, per l’individualismo etico; l’esaltazione dell’individualismo egoistico, dell’etica del successo, dell’ordine gerarchico.
Ma, giunta alle soglie del potere, la destra (come del resto la sinistra) ha dovuto rinnegare i suoi piccoli ideali, posta di fronte alla realtà effettuale, alla concreta anima della maggioranza del popolo italiano. Maggioranza moderata, come si dice in gergo politologico. Ma di quale moderazione: quella di cui dovrebbe sostanziarsi una moderna e civile democrazia liberale o quella che identifica nel quietismo, nella viltà, nella difesa particolaristica e ingenerosa dei propri interessi, il fine ultimo di uno Stato? Questo il dilemma italiano. Cosicché i gruppi dirigenti della cosiddetta destra, giunti fortuitamente e casualmente al potere hanno dovuto, come già da qualche tempo i gruppi dirigenti della sinistra, scendere a compromesso con questa maggioranza “moderata”. tradendo le aspettative dei militanti. Da qui la favola degli ex fascisti e degli ex comunisti trasformatisi in neoliberali.
Tutto ciò non poteva che generare delusione, creare frustrazione, alimentare diffidenza e scoramento. Messi a tacere i militanti dei due schieramenti, i gruppi dirigenti formatisi nelle sezioni del Movimento sociale (erede del fascismo) e del più grande partito comunista dell’Occidente, stentano a trovare la via maestra della liberaldemocrazia. La caduta del regime democristiano ha come scoperchiato il vaso di Pandora, ed il paese reale si è rivelato forse anche peggiore di quanto perfino i più pessimisti avevano temuto. Zoccoli duri di moralisti di destra e di sinistra e al centro una palude di interessi particolari e contrapposti, da cui emergono, di tanto in tanto, piccole isole di generosità.
Pur timorosi di creare tristi equivoci, bisogna riconoscere che il destino della questione italiana non può essere affidato alla cosiddetta opinione pubblica, alla “gente”: un economista democristiano, come Mario Deaglio, ha parlato di cittadino (politicamente) analfabeta. Tocca, ancora una volta, alle élites e agli intellettuali farsi carico di interpretare coraggiosamente e spregiudicatamente la realtà, di prospettare il futuro e, perché no, di porsi alla guida di un moto rivoluzionario forte, ma non violento il cui segno, la cui vera anima, sia la generosità e non l’arido cinismo di questi ultimi anni. Alla rivoluzione ingenerosa, figlia della società cinica, e alla grande delusione, succederà un lungo Termidoro, ossia una lunga fase di stanca, di totale distacco e sfiducia nei confronti della vita politica e civile, o nuova lava ribolle sotto un’apparente calma?
L’Italia al bivio
Per la prima volta, la giovane democrazia italiana si è trovata a vivere esperienze simili alla stagionata democrazia americana. Saprà cogliere i vantaggi di quella mentalità o, riuscirà solo a esasperare i difetti? Alcune novità sostanziali si sono forse radicate nel tessuto vitale della nazione, alcuni fenomeni, apparentemente transitori, potrebbero giovare sia pure in presenza di un decadimento morale che va ben oltre le vicende della politica quotidiana.
Alle prime appartiene senz’altro l’idea liberale dell’alternanza al potere fra forze politiche alternative. Una concezione della politica estranea fino ad ora alla cultura di un popolo incline al compromesso e al falso ma comodo ecumenismo, abituato a percepire il pluralismo dei partiti e la diversificazione dei governi come un attentato all’ordine ed alla convivenza civile. L’alternanza tipica delle democrazie liberali come principio regolativo dell’azione politica si è fatta comunque strada sulla scia dei referendum elettorali almeno fra i gruppi dirigenti e negli ambienti più avanzati. Ai secondi si può ascrivere il momentaneo arretramento del clientelismo come sistema organizzato di raccolta del consenso elettorale e orientamento di larghi strati dell’opinione pubblica.
Ma altre novità sostanziali vanno modificando in profondità la vita politica italiana. La scomparsa, ad esempio, della cosiddetta unità politica dei cattolici rappresentati, nell’ultimo cinquantennio, da un solo partito. Anomalia italiana che aveva, assieme al costituirsi del più forte partito comunista dell’Occidente (anch’esso scioltosi), condizionato dalle fondamenta la nascita della Repubblica. L’insorgere del movimento federalista che, se ben inteso, potrebbe recare un contributo fondamentale, in un sistema che cerca di ricostruire un giusto equilibrio fra i diversi poteri, in termini di garanzie e libertà.
Ancora, il relativo ridimensionamento della cosiddetta partitocrazia intesa come predominio assoluto degli apparati burocratici condizionanti la vita sociale e civile nella sua interezza, dalle scelte di politica estera alla gestione del più piccolo teatro di provincia, del più insignificante comitato.
Ma le opportunità, capovolgendo la nota intuizione vichiana, possono diventare traversie. Luci ed ombre si sovrappongono e si confondono nell’incerto scenario italiano. La debolezza dei partiti, il loro dissolversi in flessibili movimenti e la crescente personalizzazione della lotta politica potrebbero favorire com’è ovvio, i cosiddetti poteri forti, contribuendo ad una sostanziale sottrazione di democrazia. E’ evidente, ad esempio, che un uomo potente per mezzi e condizioni può schiacciare un semplice candidato non più sorretto da partiti e organizzazioni ideologiche. E’ presumibile che gruppi di pressione compatti, formati da industriali, professionisti specializzati o organizzazioni ai limiti della legalità, eserciteranno, in futuro, un potere politico diretto, mentre prima dovevano limitarsi ad influenzare la complessa e articolata vita dei partiti. Sindacati, magistratura, corpi separati dello Stato, potranno giovarsi della debolezza della politica, nel bene come nel male.
La fragilità dei nuovi partiti, la mancanza di carisma del nuovo ceto politico genereranno disaffezione nei confronti della democrazia oppure, come accade in altri paesi, favoriranno la crescita di una società autonoma e libera da vincoli di ogni genere?
Sapremo raccogliere la sfida lanciata da questa nuova forma di lotta politica? Saprà sostenere, il Paese, un confronto politico nel quale fattori quali l’aspetto fisico del candidato, la simpatia di sua moglie, la capacità di apparire in televisione, diventeranno componenti essenziali della lotta politica a discapito dei programmi e delle idee? Negli Stati Uniti questi comportamenti hanno creato non poche preoccupazioni. Ricchi senatori inamovibili hanno ingombrato la scena, opulenti ciarlatani sono riusciti a condizionare grandi masse di elettori.
Anche l’ Italia si appresta ad affrontare la politica fondata sui sondaggi d’opinione: accoglieremo l’idea di abbandonare i tossicodipendenti o gli anziani soli se i sondaggi indicheranno che la maggioranza dei cittadini preferisce impiegare in altro modo le risorse economiche destinate a migliorare la loro condizione?
L’America accoglie in sé culture le più diverse e lontane, varie e potenti comunità religiose (basti pensare alla forte minoranza cattolica fra la maggioranza protestante) , razze ed etnie le più disparate. Se esse sembrano creare disordine e perfino spezzare il vincolo della comunità, garantiscono un alto tasso di libertà ed impongono, non sembri paradossale, la tolleranza e, con essa, la frantumazione del conformismo. Presidenzialismo, federalismo, autonomia del Parlamento accanto ad un’antica e sperimentata tradizione fanno da antidoti indispensabili a quel vero e proprio cancro della democrazia americana che Tocqueville definì la tirannia della maggioranza. Saprà anche l’Italia resistere alla tentazione di regolare lo sconto politico esclusivamente sulla strumentalizzazione delle più stupide e feroci mode, sui più banali o cupi sentimenti che di tanto in tanto attraversano e pervadono di sé l’opinione pubblica? E’ vero, come dicono alcuni economisti, che si sta formando una nuova borghesia fondata esclusivamente sul capitale umano (la capacità di usare la tecnologia) pronta a distruggere tutto ciò che si oppone alla sua espansione e, se sì, sul piano etico politico trionferà un nuovo “ideale” egoistico fondato esclusivamente sulla competizione intesa non più come strumento ma come fine?
Siamo senza dubbio ad un bivio. Assistiamo ad un mutamento ancora indecifrabile della mentalità italiana. L’eccitazione forcaiola e giustizialista, ad esempio, ha dialetticamente generato una maggiore attenzione per i problemi delle garanzie individuali. Sentimento quasi sconosciuto agli italiani. Non c’è romanzo, film, commedia in Italia (salvo eccezioni rarissime) che ponga al centro dell’interesse le garanzie dell’individuo rispetto all’organizzazione giudiziaria, alla Chiesa, alla maggioranza, allo Stato, e così via. Al contrario, anche il più banale telefilm americano è sempre anche una denuncia contro la violazione della privacy o della dignità del sia pure più strambo cittadino.
Si farà strada anche in Italia l’idea cristiana e liberale della sacralità della persona umana? O bisognerà affidarsi al solo e sempre meno sentito solidarismo?
Segnali contrastanti, dunque, che frastornano anche il più attento osservatore. L’entusiasmo dell’impegno politico, tipico dei momenti di crisi rivoluzionaria come quelli vissuti negli anni Novanta sembra affievolirsi fino quasi a scomparire. La “morte delle ideologie” già annunciata sul finire degli anni Settanta si coniuga con la scomparsa traumatica dei partiti storici e con la trasformazione forzata dei partiti di opposizione. La mediazione della politica rappresentava un elemento di civiltà. L’organizzazione capillare di partiti e sindacati, se da un lato generava la partitocrazia, consentiva dall’altro a migliaia di persone di apprendere meccanismi e metodi altrimenti incomprensibili. Forniva una naturale e spontanea palestra nella quale si veniva “educati” alla politica, si esprimevano esigenze e si moderavano richieste di vario genere e di varia natura; si acquistava il senso della partecipazione ad organismi più ampi e complessi rispetto alla ristretta e troppo spesso egoistica comunità di appartenenza: paradossalmente si acquistava un crescente senso dello Stato e, comunque, una maggiore sensibilità per la complessità dei problemi e delle questioni. Il movimento di cui si era nutrita parte cospicua della battaglia politica degli anni Sessanta e Settanta, dal movimento studentesco al movimento femminista, capace di incanalare, sia pure in maniera discutibile, sofferenze, speranze e illusioni diffuse, sembra essersi dileguato, e lo stesso movimento referendario, che sembrava aver coinvolto milioni di cittadini, non è durato, come si è detto, che il breve spazio di un mattino.
E’, forse, la morte della politica nel paese di Machiavelli? Essendo la politica una categoria dello spirito, una condizione eterna della vita, non muore e non rinasce, ma muta, trova nuovi ed imprevedibili modi di essere, occupa la scena con mille, diverse, rappresentazioni. Assistiamo molto probabilmente, solo al travagliato ritirarsi della politica della quale siamo stati a vario titolo spettatori e attori negli anni della cosiddetta Prima Repubblica e al sorgere di nuove forme di organizzazione, di nuovi comportamenti non ancora del tutto decifrabili.
Alle preoccupazioni e alle speranze tipicamente italiane si affiancano le più generali incertezze della vita culturale ed etica del mondo intero. Si ha sempre più la sensazione (che, in realtà, è un’amara constatazione) di assistere ad una progressiva riduzione delle sovranità delle varie nazioni, dei singoli Stati. Questo crescente disagio, forse, genera i movimenti separatisti, alimenta i tanti particolarismi che in un misto di egoismo e di rivendicazionismo della propria identità sorgono o rinascono un po’ dovunque. Dal dilagante integralismo musulmano alle rinascenti rivendicazioni dei negri americani, dai nazionalismi slavi agli odi etnici nel dissolto impero sovietico che sembra trasformarsi in una terra di conquista di nuove tribù, ai separatismi invocati dalle comunità ricche che non intendono condividere con altri i propri privilegi, come nel caso della Lega Lombarda e del Qebéc in Canada. Questa spasmodica e, per tanti aspetti, ingenua ricerca dell’ identità perduta sembra inseguire un sogno difficilmente realizzabile in un mondo sempre più unificato e omologato dai progressi della tecnica, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni, in un mondo ferreamente governato da “leggi” economiche strettamente correlate che sfuggono al controllo razionale degli uomini. Solo pochi anni fa un uomo della steppa, un contadino del Piemonte, un pescatore del Mar del Nord e un cittadino di Parigi non avrebbero potuto lontanamente immaginare che il loro tenore di vita, la loro stessa sopravvivenza fisica, potevano dipendere dalle scelte politiche ed economiche di un paese lontano. Perfino il destino ecologico del nostro universo sembra concentrarsi nelle mani di pochi o, peggio, seguire inevitabilmente il destino del progresso che sfugge al controllo di qualsivoglia organizzazione e cresce motu proprio come una mostruosa, imperscrutabile entità. Eppure ogni uomo avverte i crescenti benefici che anche nella più minuta vita quotidiana quella impassibile entità, il progresso, che si vorrebbe limitare dispensa, consentendo all’uomo della steppa come al cittadino di Parigi un livello di vita quale mai prima era stato conosciuto. Un sempre crescente numero di uomini e donne si giova dei progressi della tecnica, soprattutto nella medicina. Ma il progresso della tecnica influenza anche quella che, con un sorriso sulle labbra, si chiama vita spirituale. La tecnica svolge, infatti, una funzione profondamente e sostanzialmente democratica, estendendo a tutti benefici e privilegi prima appannaggio di pochi fortunati, come già intravide Adam Smith agli albori della rivoluzione tecnologica. Quegli stessi meccanismi che potenzialmente potrebbero favorire un nuovo, terribile totalitarismo tecnocratico (si pensi alla potenza dei computers per il controllo della privacy o dell’inquietante ingegneria genetica che propone una vera folla di dilemmi etici) sono quegli stessi che diffondono la cultura e le conoscenze, che permettono a migliaia di uomini, a piccoli gruppi e a svariate associazioni, di dotarsi di strumenti di controllo e di garanzia e di influire così sulle grandi scelte più di quanto non si creda, e di creare reti di comunicazione difficilmente intercettabili da nuovi e vecchi poteri illiberali.
Sugli immaginari fili delle fibre ottiche, insomma, può viaggiare la libertà. La tecnica non è di per sé liberale o illiberale, perché essa è sottoposta alla scelta, al giudizio, che è sempre giudizio morale, è sempre scelta etico-politica. Il cosiddetto progresso insomma, sembra offrire gli strumenti di cui l’uomo può disporre per determinare il suo futuro.
Grandi questioni internazionali e piccole questioni locali si profilano all’orizzonte in una connessione storica che presenta, dopo anni di relativa stasi, improvvise accelerazioni dagli esiti imprevedibili. Movimenti come quelli della Lega Nord, per tornare al nostro paese, finiranno col promuovere un maturo federalismo di stampo liberale o trascineranno l’Italia nel baratro del più gretto e ottuso particolarismo? Reclamano un più moderno svolgimento della vita politica e democratica, o preparano, sia pure inconsapevolmente, una terribile frattura, una profonda cesura della storia civile italiana nata con il Risorgimento, il quale non fu soltanto l’unificazione economica e giuridica di alcune regioni, ma rappresentò l’emancipazione in senso liberale e democratico di milioni di uomini e donne? La grande cultura italiana riemergerà secondando la sua vocazione europea, o si inabisserà nel melmoso mare delle lotte accademiche e nel fluire impazzito dei torrenti dell’industria culturale?
L’ansia di costruire un nuovo patto sociale, nuove regole della convivenza politica, è il segno di una rinnovata consapevolezza liberale o è solo il sintomo di una grave malattia: la voglia di mettere la sordina ai conflitti, alle legittime aspirazioni dei diversamente pensanti? Ritroveranno espressione politica i tanti bisogni dimenticati, quelli degli svantaggiati e degli sfortunati, o occuperanno la scena solo le esigenze dei gruppi forti, determinati ad estendere i loro privilegi? Il Sud d’Italia si rinchiuderà nella sua marginalità o potrà svolgere il ruolo che la storia sembrava assegnargli nella comunità nazionale ed internazionale?
* * *
Il quadro appena tratteggiato in chiaro scuro, non può autorizzare ottimismi o pessimismi: stati d’animo legittimi ma poco adatti a giudicare la storia. L’ottimismo, però, è in certo qual modo necessario per l’azione. Se non si è ottimisti, se non si crede e si spera che il nostro progetto di vita si realizzerà in qualche misura, perché agire? Ottimismo, dunque, a patto che si comprenda che l’ottimismo della volontà è sempre anche ottimismo della ragione, di quella ragione concreta che orienta e accompagna l’azione, di quella ragione che ha messo giudizio, che giudica nella concretezza della storia e non secondo astratte utopie. Solo in questo senso, dunque, anche giudicare è in qualche modo sperare. Disegnare un’utopia operante, possibile, un dover-essere (Sollen) che deve orientare l’essere (Sein): è questo il compito che attende le nuove generazioni.
Abbiamo imparato che la storia è sempre storia di conflitti, che il dramma è l’anima della storia. Abbiamo imparato a diffidare di quelle teorie (per nobili che siano) tendenti a imprigionare la storia: rincorrendo il passato, immaginato molto migliore di quanto sia, o inseguendo un futuro che è solo il frutto delle nostre speranze. In entrambi i casi si perde di vista la realtà, il fluire delle cose, la vita stessa. L’errore teorico degli utopisti reazionari e degli utopisti progressisti si tramuta presto in tragedia morale, in nome delle utopie si sacrifica e opprime la libertà, segnando il destino di milioni di uomini e donne.
Così, armati di queste poche certezze, dobbiamo indicare una strada, provare a ritrovare una ragionevole speranza. La rivoluzione ingenerosa che ha attraversato l’Italia in questi ultimi anni reclama un futuro impegno nel segno della ritrovata fiducia nella umana capacità di autogovernarsi. Dalla dialettica delle cose stesse può emergere una nuova, civile visione della vita. Sta alle élites, intese come comunità etiche, prefigurare il futuro per orientare l’azione, saper trasformare vichianamente le traversie in opportunità.
La perdita di riferimenti certi che tanto spaventa filosofi e uomini comuni, può tramutarsi nella costruzione di una polis, di una città politica pluralista nella quale la diversità è un valore positivo e non un elemento di mera disgregazione.
La crisi del lavoro tradizionalmente inteso non va necessariamente interpretata come una sciagura di portata biblica ma semmai come il superamento della biblica maledizione: “tu uomo lavorerai con gran sudore”. Il progresso scientifico consente all’uomo di liberarsi dal lavoro percepito come fatica fisica, come alienazione psicologica, come svilimento della più grande proprietà di cui si dispone: la propria capacità. Pigrizia mentale, moralismo (il lavoro deve coincidere con la sofferenza, come strumento di espiazione), incapacità di lasciarsi alle spalle antiche abitudini, impediscono all’uomo contemporaneo di cogliere questa immensa opportunità: a parità di ricchezza prodotta, aumentare il tempo libero, in senso quantitativo quanto qualitativo.
Negli ultimi anni, in Italia come nel resto del mondo occidentale (anche se il paese che più degli altri ha sperimentato la crudezza di un certo modo di intendere il capitalismo è il Giappone) l’umanità si è come dilaniata e quasi spossata, inseguendo miti e utopie negative. Da più parti si avverte la stanchezza e l’avvilimento di chi ha creduto di poter vivere sotto il segno dell’ingenerosità.
Tornare, ma è un tornare che significa andare avanti, alle antiche “virtù” cristiane e liberali di cui tanto si è nutrito al suo sorgere il liberalismo democratico, cresciute e fortificatesi attorno al fondamentale concetto del rispetto della dignità e della libertà dell’individuo, è il nostro imperativo morale, la nostra unica via di salvezza pratica.
La sfiducia mostrata in queste poche pagine nelle cosiddette masse, nel popolo, nella gente, nell’onnipotenza pubblica, non deve lasciar credere che l’alternativa auspicata sia l’ottuso totalitarismo, sia esso contrassegnato dal tono forte della destra o dal più mite tono del paternalismo assistenzialista. L’alternativa, oggi come sempre, è l’ampliamento della libertà che non sempre coincide con l’ampliamento quantitativo di alcuni particolari diritti, isolati dal più generale contesto nel quale si organizza la convivenza di milioni e milioni di uomini e donne.
Presto ideali quali l’europeismo, inteso come centro unificante dei valori occidentali, la solidarietà, intesa come rispetto non meramente pietistico, la creatività concepita come originale espansione dell’etica, da ideali freddi o retorici potrebbero tornare ad essere utopie concrete, nuove frontiere da conquistare e superare. Perché ciò accada e non rimanga scritto in uno sterile libro dei sogni, perché questo esercizio dell’immaginazione e questa individuale speranza diventino reale pratica politica, si deve avere il coraggio di guardare con spregiudicatezza alla grave condizione morale e politica del nostro paese e saper cogliere le opportunità offerte dalla storia. Segnali positivi si delineano all’orizzonte. Dopo gli anni del riflusso, della chiusura egoistica, sembra di scorgere nelle cose stesse, in mille indizi, la possibilità di ricostruire un patto non scritto fra cittadini di buona volontà. Non vi sarà vittoria definitiva: ma per lo stesso motivo non vi è sconfitta definitiva. Sconfitta e vittoria sono concetti di origine psicologica, validi per l’individuo transeunte, per i mortali, non per la storia nel suo insieme.
Cosa precisamente accadrà non ci è consentito sapere. Se lo sapessimo, per altro, non avremo altro da fare che aspettare che il sole sorga. Per tutti, in fin dei conti, deve valere il vecchio adagio: fai quel che devi, accada quel che può. E il nostro dovere, pur scontando il pessimismo di cui si è data tanta prova, è quello di lavorare per trasformare la rivoluzione ingenerosa in impegno per conservare e ampliare gli spazi di libertà, per far rinascere fra i gruppi dirigenti il sentimento della libertà. Scrive Tocqueville:
Chi cerca nella libertà altra cosa che la libertà stessa è fatto per servire. (…) Non mi chiedete di sottoporre ad analisi questo desiderio sublime: occorre provarlo. Esso penetra spontaneamente nei saldi cuori che Dio ha creato per ospitarlo, esso li riempie, li infiamma. Bisogna infatti rinunciare a farlo comprendere agli animi mediocri, che mai non l’hanno sentito.
L’auspicio è che nella nuova Italia le condizioni generate dalle tumultuose vicende degli ultimi anni, preparino tempi migliori per l’affermarsi di una matura e consapevole coscienza del valore profondo della libertà, modernamente intesa come vedremo nei capitoli successivi. Non è nostro compito indicare concreti programmi politici ma è, forse, nostro dovere contribuire a chiarire i termini delle questioni in gioco per consentire di orientarsi nell’azione con maggiore consapevolezza.
La vittoria sia pure labile alle elezioni dell’Aprile del 1996 da parte di uno schieramento politico del tutto inedito, composto da postcomunisti, socialisti, cattolici democratici e liberaldemocratici nei confronti di una nuova destra che sembrava incarnare decisamente “l’ideale” della ingenerosità che ha caratterizzato la vita politica italiana degli ultimi tempi, è sembrata un buon auspicio. Ma esso diventerà una tangibile realtà solo se si saprà sviluppare una politica di profonda e radicale innovazione capace di creare le condizioni di un grande movimento democratico in grado di coniugare equità ed efficienza, libertà e solidarietà. Per far ciò occorre, ci sembra, porre le fondamenta di una forza politica unitaria (pur nella ricchezza delle diversità culturali delle sue componenti) che prima ancora dei programmi e delle iniziative politiche, sappia fissare dei principi, degli ideali forti e chiari.
A cominciare da una attenta riconsiderazione dell’idea stessa di democrazia intesa come forma politica organizzata delle libertà fondamentali e non come surrogato di grandi e piccoli totalitarismi, di paternalismi acquiescenti. La grande sfida che attende i liberaldemocratici e la sinistra di ispirazione europea consiste nel superare, non più solo a parole le rispettive antiche incrostazioni ideologiche le quali sembrano frenare lo sviluppo del movimento e rendere, per motivi diversi, statiche le posizioni in campo. Non rinnegare le tradizioni ma saperle far rivivere nel nuovo contesto storico. Il liberalismo deve decisamente superare una certa visione economicistica dell’uomo e il socialismo l’idea che il progresso si individui solo in determinati gruppi o classi.
L’impegno può diventare comune sul terreno dei così detti diritti di cittadinanza (modo di dire in verità un po’ scialbo) soprattutto di quelli dei cittadini più deboli e svantaggiati che non sono solo quelli economicamente svantaggiati. La nuova “classe” da difendere, la nuova “classe” che può porsi come fondamento di un nuovo assetto sociale e politico è quella composta dai tanti individui che non trovano nell’attuale modello di sviluppo la possibilità di esercitare la propria creatività, i propri diritti. L’individuo da porre al centro dell’interesse dei neoliberali non è l’individuo egoistico in grado di mobilitarsi solo per difendere privilegi acquisiti ma l’individuo etico, l’uomo intero posto nelle condizioni di poter estrinsecare nella comunità la sua stessa individualità. Non assolvere a questo compito significa dare spazio ad una nuova destra che contraddittoriamente vellica gli istinti peggiori in nome di una presunta difesa della libertà creatrice. La sinistra democratica e i liberaldemocratici troveranno (o forse ritroveranno) la capacita di interpretare, dal governo o dall’opposizione, il progresso laicamente inteso, nella costruzione comune di una visione del mondo generosa (che è qualcosa di più che solidale) sia pure nei limiti di un pensiero che non si nutre di facili illusioni, che non pretende di imporre agli altri la propria idea di felicità che non crede in vittorie definitive ma che sa riconoscere l’eterno valore dell’incessante lotta per la libertà.
II
La libertà dopo la democrazia
Critiche tradizionali alla democrazia
E’ noto che non possiamo comprendere e percepire l’infinito, possiamo abbracciare con lo sguardo e con la mente soltanto ciò che ha un limite, dei confini. Perciò, se vogliamo comprendere la nostra democrazia, dobbiamo vederne i limiti. Tracciarne i confini secondo l’etimo latino. Conosciamo le insidie che nasconde il concetto di sovranità popolare e quello di maggioranza su cui, generalmente, si fonda. La democrazia non è un concetto vero, non è un’idea o una categoria in senso forte. La logica, la bellezza, la moralità, l’utilità, possono esser pensate e dedotte all’interno del nesso dialettico che costituisce il travagliato fondamento della vita stessa. Non è pensabile, in poche parole, la vita senza i concetti di verità, bellezza, moralità, utilità. Ma non è possibile definire fuori dalla contingenza il concetto di democrazia, se non ricorrendo alla banalità dell’etimo, alla vocabolaristica definizione: “governo del popolo”, che vuol dir tutto e vuol dir nulla. Ma pur volendo abbandonare le “vette” della filosofia pura per scendere nella pianura dell’empiria, non compiremmo decisivi passi in avanti. Non si scorge un metodo o un sistema democratico per eccellenza. Si incontrano, invece, tanti diversissimi modelli di democrazia quante sono le concrete società politiche. Dall’analisi storica scaturiscono problemi e questioni a prima vista irrisolvibili. La democrazia, ad esempio, reclama ed esige una formidabile cultura da parte del popolo sovrano chiamato, quotidianamente, a scelte di grande difficoltà tecnica e di grave responsabilità etica. E’ difficile, se non impossibile, che una così grande e variegata moltitudine di individui possa costantemente essere all’altezza del difficile compito assegnatole. La democrazia non può vivere senza cultura intesa come educazione nel senso più ampio della parola.
Dal suo sorgere nei tempi moderni, ossia dal lento declino del mondo medioevale fino alla metà del nostro secolo, lo sviluppo della democrazia si è sempre accompagnato alla crescita e alla diffusione della educazione, dell’erudizione, della scienza, del sapere. In alcune fasi si è potuto assistere ad un deperimento della qualità, alla mancanza di grandi personalità, ma la crescita quantitativa della cultura è stata costante, sempre crescente la diffusione popolare dell’istruzione. Ciò che è accaduto, ad esempio, in Italia e in America negli anni Sessanta e Settanta, scomparse le grandi figure di Croce e di Dewey, dominatori della scena in quei due paesi. Sia pure a discapito della creatività, cresceva intensamente il livello medio di istruzione e il generale interesse per la cultura. La novità degli ultimi tempi è che anche questo progresso quantitativo sembra essersi arrestato e si assiste, frastornati, ad un rapido declino, ad una sorta di ritornante barbarie testimoniata, per non dir altro, dal crescente impoverimento linguistico, segno inequivocabile dell’impoverirsi e del banalizzarsi del pensiero, a cui corrisponde un involgarimento dei gusti e dei comportamenti.
Una democrazia senza civiltà è una mera finzione giuridica, una tragica ipocrisia. In ciò la grande ed eterna lezione dell’Illuminismo, perché senza cultura non c’è giudizio, non c’è capacità di scelta, non vi è dunque responsabilità.
Ma torniamo ai problemi classici della democrazia, che si ripropongono, in vario modo, nella concreta vita dei nostri Stati, della nostra società politica. Il problema, innanzitutto, del rapporto fra maggioranza e minoranza.
Non è un mistero che in una società complessa, come quella del cosiddetto mondo occidentale, vi sia una difficoltà crescente nel garantire i diritti delle tantissime minoranze. Si pensi agli Stati Uniti d’America, dove convivono minoranze etniche, linguistiche, religiose e razziali e dove non casualmente cresce a dismisura la letteratura sul rapporto fra democrazia e pluralismo politico. Ma, sia pure meno appariscenti, sono spesso decisive le discriminazioni che si compiono nei confronti di quelle indefinibili minoranze che sono le élites ( si prenda questo termine cum grano salis) culturali che raramente riescono ad inserirsi nel corso ufficiale della cultura dominante e incidono sulle scelte politiche soltanto sui lunghi tempi.
Tutto ciò è saputo e risaputo. Eppure, sembra che la discussione politica sfugga al problema come il classico struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia credendo di non esser visto perché non vede. E’ il principio stesso di maggioranza che contiene in sé il pericolo del totalitarismo. In effetti, quand’anche non si tenesse conto delle tante minoranze, organizzate o non, bisognerà ammettere che anche la minoranza politica, quella che, rappresentata da partiti e associazioni, non riesce a conquistare il governo, è spesso, se non sempre, discriminata. Ricorrere al principio della quantità numerica troppo spesso appare come una profonda ipocrisia. Perché fingere di ignorare che a governare un paese sia quasi sempre una minoranza, che diviene maggioranza soltanto nella finzione elettorale? Che cosa significa, ad esempio, il concetto di maggioranza relativa? E che cosa accade delle minoranze che non intendono esprimersi attraverso il voto o attraverso la consueta lotta politica? Si dà il caso che in molte competizioni elettorali, il quaranta per cento dei cittadini aventi diritto al voto diserti le urne; il dieci per cento voti per gruppi o partiti che non riescono ad ottenere rappresentanza parlamentare. Rimane il cinquanta per cento. Se a vincere le elezioni è un raggruppamento che supera quello avversario di cinque punti, il conto è semplice: la maggioranza che governerà il paese è in effetti una minoranza di appena il trenta per cento degli aventi diritto al voto. Può questa minoranza arrogarsi il diritto di decidere per tutti? Quali garanzie dovrà concedere alla minoranza che poi, in sostanza, è la vera maggioranza di un paese?
Fin qui il limite del principio fondamentale della democrazia. Si dovranno ricordare le critiche tradizionali circa l’inefficienza e la corruzione che sembrano caratterizzare i regimi democratici? Sembra chiaro a tutti che in un sistema complesso come quello democratico la rapidità delle scelte è sacrificata alla ricerca del consenso e alla mediazione, che la corruzione si annida nelle pieghe della complessità stessa. Ma, probabilmente, ciò che rende da sempre sospetta ad un certo mondo intellettuale la democrazia è la connotazione psicologica dell’idea stessa di democrazia: la mediocrità e il conformismo che sembrano essere connaturati ad un sistema che proclama come suo principio direttivo quello del dominio dell’opinione pubblica. Torneremo su questo tema che, per tanti aspetti, ci sembra quello decisivo. Sta di fatto che, in un modo o nell’altro, gli stessi stati democratici, in una sorta di gigantesca rappresentazione, tendono a limitare se stessi. Proclamano, a gran voce, la sacralità della maggioranza, l’inviolabilità della sovranità popolare, s’inchinano alla volontà dell’opinione pubblica, inseguono i gusti e perfino i capricci della gente, ma poi s’ingegnano nel creare mille meccanismi che vanificano il principio generale tanto solennemente affermato, a cominciare dal rispetto delle Costituzioni ritenute, spesso giustamente, intoccabili le quali sanciscono appunto i limiti oltre i quali non si può andare quali che siano le scelte compiute dai cittadini. S’inventano sistemi elettorali per vanificare il sacro principio; nascono e si fortificano lobbies e gruppi di pressione in grado di indirizzare le scelte della maggioranza; si sviluppano élites economiche che costituiscono centri di poteri forti. Spesso, in poche parole, l’ipocrisia democratica cela e nasconde una sorta di oligarchia democratica. Ciò che solennemente chiamiamo democrazia rappresentativa per contrapporla alla democrazia diretta. Eppure, lo vedremo, poiché l’ipocrisia, come Shakespeare ci ha insegnato, è in qualche modo utile, e certe volte un angelo, l’ipocrisia democratica nasconde l’esigenza liberale.
Quando quest’ultima riappare forte e vitale, la democrazia cresce e si sviluppa, altrimenti decade e muore. D’altro canto sussiste, con tutta evidenza, una connessione fra crisi della rappresentanza democratica (le tante mediazioni della politica) e l’affermazione di una oligarchia democratica la quale, per contraddizione produce una confusa domanda di nuova rappresentanza che rischia di sfociare in forme di plebiscitarismo, populismo e perfino totalitarismo. E’ la sfida del liberalismo riuscire a mediare fra esigenze della rappresentanza e limiti della rappresentanza stessa che è, poi, la grande questione dell’identità e della qualità della democrazia.
Non è un caso che questo sistema politico, osannato e vilipeso, decantato e disprezzato, abbia avuto, nella sua travagliata storia, critici e nemici di ogni specie e provenienza. Col manuale di storia delle dottrine politiche alla mano si potrebbe procedere agilmente ad una ripartizione in movimenti e scuole di pensiero apparentemente ( e per tanti aspetti sostanzialmente ) diversi fra loro accomunati però dalla critica alla democrazia intesa come concetto generale, come insieme di dottrine e sistemi giuridici, come prodotto e regolatore dell’economia e della società, come regimi concretamente e storicamente determinatisi.
Dai nostalgici dell’Ancien régime alla De Maistre fino al decisionismo di Carl Smith, la cultura di destra ha sempre attaccato la democrazia con violenza verbale, adducendo i più svariati argomenti che ancor oggi frequentemente si sentono ripetere in filmetti e commediole, agli angoli dei bar, nelle riunioni di partiti e sindacati: la democrazia che premia i peggiori, che involgarisce i costumi, che sgretola i valori della tradizione, la religione, la patria, la famiglia, e così via. La destra, che non disdegna poi di chiamare a raccolta il popolo contro la democrazia, di erigere monumenti al popolo sovrano che liberamente sceglie di abdicare al suo potere, di svendere la sua sovranità in favore del dittatore, del tiranno, dello Stato etico che s’incarna, chissà perché, sempre in un gruppo di uomini più o meno rozzi, più o meno violenti, più o meno pazzi, sempre astuti fin quando la presunzione non li consuma e vota alla sconfitta.
Ma non meno dura, pertinace e severa, la critica mossa da sinistra alla democrazia, da Marx a Lenin, da Gramsci alla Scuola di Francoforte, da Mao a Marcuse. Le idee democratiche, furono ritenute una copertura ideologica e astrattamente giuridica del capitalismo. Strumento falso ed ipocrita di una classe, la borghesia, per conservare il potere e dominare l’intero popolo, formalmente, e solo formalmente, chiamato al governo della cosa pubblica. Il socialismo, il comunismo come unici e veri eredi della rivoluzione francese. La critica comunista, dunque, meno volgare ma non meno rude e corrosiva di quella di destra. Si pensi alla forza morale sprigionata dalle serrate analisi , certe volte di tono scientifico, certe altre retoriche e moralistiche, tese a dimostrare come la vera uguaglianza , la vera giustizia , non si realizzi con la rivoluzione democratica ma con la rivoluzione sociale, con il perseguimento dell’eguaglianza economica, concreta, degli individui.
Con diverso intento e atteggiamento, si sviluppa la critica liberale, da Tocqueville a Stuart Mill fino a Croce, a Gaetano Mosca, ad Ortega y Gasset. Se i Mosca, gli Ortega, condussero una vigorosa polemica antidemocratica in nome delle aristocrazie o élites di governo (che non vanno confuse, come oggi si tenta di fare in una sorta di tramonto delle distinzioni in cui tutte le vacche si fanno nere, con le nostalgie aristocratiche), Croce, per fare un solo esempio, superava i limiti dell’empiria politica perché revocava in giudizio l’idea stessa di democrazia, vale a dire il concetto di eguaglianza. L’uomo nasce libero, non democratico, socialista, musulmano o taoista. La libertà è una categoria fondante la realtà, la democrazia un particolare regime politico fra i tanti possibili.
Se la critica di Croce si eleva sopra la contingenza, non meno severa è la posizione di Tocqueville. A lui si devono forse le più brillanti e argute intuizioni: l’inarrestabilità del processo democratico in America e la sua probabile estensione al mondo intero; il rischio che esso sempre corre di degenerare in conformismo generando dal suo stesso seno la tirannide della maggioranza; l’insorgere e il prosperare di una mortificante mediocrità costitutiva della nascente società di massa.
Il sistema democratico non è soltanto un sistema politico fondato su istituzioni giuridiche di un certo tipo, è una mentalità, spiega Tocqueville, che rischia di produrre l’impoverimento dei valori e il degrado morale, favorendo la corruzione e la rincorsa alla conquista di beni esclusivamente materiali. Il tutto secondato dal nuovo assetto economico, l’industrialismo, il cui sviluppo il pensatore coglie con sorprendente lucidità, precorrendo le stesse analisi di Marx. La democrazia, dunque, alla lunga può produrre una sorta di anarchismo sociale oppure il ritorno del dispotismo, del capo a cui delegare le infiacchite coscienze.
E’ in quest’ultima posizione, che è possibile rintracciare il momento comune, implicito o esplicito, a tutte le correnti di pensiero antidemocratiche. Il conformismo, ad esempio, che nasce spontaneamente e che, vorremmo dire, è connaturato ai regimi democratici, irrita l’uomo di destra, insospettisce l’uomo di sinistra, preoccupa il liberale. L’uomo-massa sembra dissimulare un terribile mostro: da Ortega a Marcuse, da Heidegger ad Adorno.
Da sinistra si è forse sottovalutata la critica liberale alla democrazia: la critica alla società di massa, all’industria culturale, a quella società che nel 1968 gli studenti in rivolta perentoriamente disprezzavano come società borghese, alienata e conformista, mediocre e tronfia della sua stessa mediocrità.
E’ il problema di fronteggiare la massa, e, paradossalmente, governarla secondo il suo bene contro i suoi stessi istinti: il problema di fondo della tattica comunista da Lenin a Stalin a Gramsci. Il partito-guida, avanguardia della classe operaia, il partito moderno Principe, come icasticamente affermò Gramsci. La risposta marxista all’avanzare delle masse, all’ingresso, per dirla con Ortega, delle masse nella storia. I miti della democrazia, dunque, combattuti questa volta dalla cultura marxista in nome di una più vera e concreta democrazia. Sembra sentire il Rousseau della nota profezia: “Verrà il giorno che si dovranno costringere gli uomini ad essere liberi” Strana libertà, strana democrazia, strano socialismo, che si devono imporre, anche con la violenza, come ai tempi di Robespierre, di Lenin e di Stalin.
Anche il liberale Croce, agli inizi del secolo, riconosce in Marx il suo maestro in fatto di antidemocraticismo e nella Prefazione al volume Materialismo storico ed economia marxistica, scrive le note parole : “E, oltre l’ammirazione, gli serberemo (a Marx), – noi che allora eravamo giovani, noi da lui ammaestrati – altresì la nostra gratitudine, per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che mentiva le sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia e della Dea Umanità.” (1917)
E, d’altro canto, l’uomo-massa figlio del volgare inumano industrialismo ricompare in tutta la sua pericolosità sulla scena una volta levatosi il siparietto dei miti ugualitari. Scrive, con irritante realismo Ortega nella nota La ribellione delle masse del 1930: “Il giorno che in Europa ritorni a dominare un’autentica filosofia – l’unica cosa che possa salvarla – si ritornerà a capire che l’uomo è, ne abbia piacere o no, un essere obbligato per costituzione a cercare un’istanza superiore. Se ottiene di trovarla da se stesso, vuol dire che è un uomo elleccente; se no, vuol dire che è un uomo-massa e ha bisogno di riceverla da quello.”
Lo stesso Ortega, come prima e con più misura di lui Tocqueville, spiegò che la massa, la maggioranza, se tende a mortificare le individualità, tende anche a promuovere dal suo seno individualità che assommano in sé tutti i limiti delle masse. Da questo punto di vista le due più devastanti “democrazie” massificate del nostro secolo, come vedremo in seguito a proposito della Arendt sono state il nazismo e lo stalinismo. E’ un errore etichettare questi regimi politici esclusivamente col termine totalitarismi. Essi rientrano, forse anche più del bonapartismo, in quell’ampia fenomenologia che potremmo definire delle dittature democratiche, come è stato efficacemente detto, delle democrazie senza libertà. E’ innegabile, ad esempio, che Hitler come Stalin, Mussolini come Fidel Castro, Gheddafi come Franco, godettero di un grande e vasto consenso popolare: ancora oggi hanno fans ed estimatori come nessun uomo politico liberale o sinceramente democratico, fatta forse eccezione di Roosvelt e Kennedy.
La crisi della democrazia e i suoi esiti
Atomismo anarchico, totalitarismo, dispotismo della maggioranza: ecco dunque gli esiti a cui può giungere una democrazia degenerata. Non si può e non si deve, naturalmente, prendere come verità assolute rigide formule astratte come quelle or ora enunciate: l’atomistica degenerazione sociale di una civiltà si determina attraverso infinite modalità, i totalitarismi sono sempre diversi tra loro, la tirannia della maggioranza si esercita in mille modi e con mille sfumature.
Nel nostro momento storico le tre forme di degenerazione della vita democratica schematicamente riassunte sembrano convivere: per ora non s’intravede un chiaro vincitore. L’egoismo frenetico, l’ingenerosità come valore, il disvalore come ideale, spingono alla disgregazione e all’atomismo.
In Italia recentemente, ma in tutti i paesi europei e nordamericani, ricompare sotto mentite spoglie lo spettro della lotta di classe: nuovi ricchi e nuovi poveri si fronteggiano in mille piccole battaglie sociali. Dietro il pesante scontro fra stato sociale e liberismo economico si nasconde uno scontro fra opposti egoismi. L’ideale dello stato sociale non alberga certo nell’animo dei tanti che pigramente beneficiano dell’assistenza garantita, così come l’ideale della libertà dell’ impresa privata non infiamma gli animi di chi, invece, difende privilegi spesso conquistati con la violenza o l’imbroglio. Non c’è esigenza di solidarietà nei primi, non c’è esaltazione della creatività nei secondi. Si sente lontano un miglio che gli uni e gli altri cercano solo di difendere privilegi acquisiti. In altri tempi si credeva che l’una o l’altra ricetta avrebbe condotto ad una società migliore, al bene comune. Pochi credono in quella che in troppi giudicano una favola sciocca, la comunità etica. Dove sono i socialisti che ritengono lo Stato sociale una garanzia per i più deboli e il motore dello sviluppo economico, e dove i liberali fiduciosi nella capacità del libero mercato di creare ricchezza e benessere per tutti?
Lo scontro è solo fra opposti egoismi. La lotta di classe si frantuma in mille rivoli, in tanti ruscelli che annegano in un lago di confusione. La comunità si sgretola in classi e sottoclassi, divise per ragioni economiche, sociali, religiose, geografiche, etniche e psicologiche. Il totalitarismo, che da più parti inconsciamente si anela e che sempre incombe, nasce in reazione allo sgretolamento sociale, all’atomismo egoistico, ma per molti rappresenta la garanzia che l’urto fra contrapposte meschinità sia garantito da un arbitro che non vede e non giudica. Ed ecco che il totalitarismo ferreo e onnicomprensivo, quello sperimentato durante il nazismo e lo stalinismo, cede il posto ad un cesarismo paternalista o, come si dice con untuosa ipocrisia, all’autoritarismo.
Una società infiacchita e indebolita non ha la forza di reclamare una dittatura forte e, a suo modo, carica di valori: anela ad una dittatura fiacca , per così dire, a sua immagine e somiglianza. La tirannide della maggioranza di cui si rischia di rimanere vittime, non è, semplicisticamente, la prepotenza del maggior numero; non è la supremazia stabile di una maggioranza che opprime una minoranza, come nel caso dei conflitti etnici o razziali. E’ un atteggiamento, un modo di essere della collettività. Masse di uomini e donne giudicano allo stesso modo e cambiano insieme idea ogni qualvolta, per un movimento misterioso del corpo sociale, scatta un ordine, viene lanciato uno slogan. La sofisticazione dei mezzi di informazione ha facilitato e promosso questo atteggiamento: assistiamo spesso all’urto fra due tirannidi, ad una sorta di contrapposizione fra due diverse maggioranze, fra due opposti egoismi che si combattono con la cecità e l’irruenza di due rinoceronti infuriati. Una sorta di lotta di classe che supera le classi e investe la psicologia profonda dell’uomo.
Il conformismo non è un fatto quantitativo; non è soltanto lo spirito del gregge che spinge l’individuo indifeso e isolato ad aggregarsi alla maggioranza: è qualcosa di più, è un sentimento radicato nell’anima, è ciò che determina una spontenea rinuncia allo spirito critico, una consapevole rinuncia all’intelligenza e alla riflessione. Il conformista non è solo colui che cede alla forza dei più. E’ anche l’uomo debole che non crede nei suoi mezzi, che non sa resistere alla maggioranza o all’attrazione del gruppo in cui vive.
Democrazia e libertà
Non fa meraviglia, dunque, se ancora, anzi ancor più, ci si interroga sulle sorti della democrazia nei paesi occidentali dando per scontato che nel resto del mondo essa non abbia mai attecchito: mi pare che, se ben si riflette, la questione non riguarda tanto il destino della democrazia quanto quello della libertà in un sistema democratico. Certo negli ultimi anni democrazia e libertà sono diventati nell’uso corrente quasi sinonimi tanto che si usano comunemente le espressioni “società liberaldemocratiche”, “istituzioni liberaldemocratiche”, “partiti liberaldemocratici”, e così via.
Però, del binomio democrazia liberale è l’aggettivo che soffre e deperisce. E bisogna comprenderne il perché. La democrazia, a dispetto delle mille definizioni che se ne possono dare, è pur sempre, nella sostanza e nel comune sentire, come si è detto, il governo del popolo, come dice il suo etimo greco. E poiché il popolo non è un singolo individuo, come il re o l’imperatore, ma un insieme di individui, per esprimere la propria volontà deve poter interrogare tutte le sue componenti. Il metodo più semplice e a portata di mano, per così dire, è il voto e, di conseguenza, l’accettazione del criterio della maggioranza. La maggioranza degli inglesi o dei francesi , votando, dopo aver possibilmente discusso a lungo e a lungo meditato, decide di scendere in guerra.
Da un certo punto di vista la storia della democrazia, dall’antica Grecia ad oggi, si immedesima con la travagliata storia dell’allargamento della maggioranza, della conquista crescente del diritto al voto di quantità sempre maggiori di cittadini. Il diritto a partecipare e ad essere rappresentati. Non votavano gli schiavi nell’antica Grecia; non votavano i poveri e le donne fino a pochi decenni fa. Oggi, nelle maggiori democrazie, il voto è negato soltanto ai giovanissimi, ai bambini e a poche altre minoranze. Ma c’è chi propone di ampliare ancora la maggioranza e non dovremo meravigliarci se presto si invocherà il diritto dei bambini ad esercitare la loro volontà di giudizio. E’ già accaduto in molte scuole medie ed elementari.
Il liberalismo coincide per molti aspetti con questo moto di continua, crescente democratizzazione. Infatti, come è facile comprendere, il diritto al voto è un diritto di libertà. La volontà di ciascun uomo di esercitare la propria volontà nell’ambito della comunità in cui vive e lavora. Libertà e democrazia marciano, dunque, insieme onde è giustificato il comune uso della locuzione democrazia liberale.
Ma il liberalismo si diversifica dalla democrazia per tanti altri aspetti, e per uno in maniera fondamentale: il principio di maggioranza. La maggioranza degli inglesi, infatti, potrebbe scegliere di vietare la libertà di culto dei cattolici, oppure di negare agli scozzesi il diritto a suonare le cornamuse. Che ne sarebbe della libertà di quelle minoranze? E’ possibile che la maggioranza di un popolo approvi, di volta in volta, leggi che, tutte insieme, finiscano col ledere la libertà dell’intera la popolazione: per assurdo, gli scozzesi potrebbero votare contro i diritti dei cattolici e i cattolici contro quelli degli scozzesi ed entrambi contro i diritti dei gallesi e così via all’infinito in un apparente trionfo della libertà di voto che in realtà sarebbe una tragica distruzione della libertà.
Il liberalismo può essere inteso in tante, diverse, accezioni ma esso è anche, se non soprattutto, l’incessante lotta per la limitazione del potere, di qualunque potere possa ledere la libertà delle maggioranze, delle minoranze, degli individui, di ciascun cittadino. E dunque, anche lotta per la limitazione del potere della maggioranza.
Fin qui, in breve, l’analisi di dottrine politiche che ognuno potrà approfondire e criticare, immergendosi in una mole di scritti tanto vasta da rendere arduo il riemergere: democrazia degli antichi e dei moderni, democrazia diretta e democrazia rappresentativa, plebiscitaria e parlamentare, oppure liberalismo e liberismo, e liberismo conservatore e liberalsocialismo, costituzionalismo e giusnaturalismo, liberalismo storicista e liberalismo anarchico, radicalismo e chi più ne ha più ne metta.
Non è possibile, in questa sede, esaminare, come si dice, scientificamente, la questione. E’ nostro compito, invece, interrogarci sul quesito sopra enunciato: di che natura è la crisi (se crisi c’è) di quella che, approssimativamente, chiamiamo democrazia?
La democrazia ha molti nemici, primo fra tutti il totalitarismo. L’attacco alla democrazia può essere esterno alla democrazia stessa , ma in altri casi può generarsi, come i tumori, dalle sue stesse cellule. La democrazia può morire per eccesso di democrazia. O meglio può sopprimere nel suo seno stesso la libertà. Da questo punto di vista , che è il nostro, non viviamo dunque una crisi della democrazia, ma il suo estremo trionfo. E’ la libertà che sta morendo o, se si vuole, la liberaldemocrazia. Si assiste all’avverarsi di ciò che aveva denunciato Tocqueville avvisando che il principio di maggioranza, sul quale si edificano le democrazie, può trasformarsi in tirannia della maggioranza e distruggere la libertà. Ecco un libro che dobbiamo necessariamente far emergere dalla marea dei lavori scientifici: La democrazia in America, scritto dal grande pensatore francese fra il 1840 e il 1845.
L’analisi che abbiamo condotto delle democrazie contemporanee per coglierne i lati oscuri, per così dire, le cellule cancerogene, sembrerà coincidere in molti punti con le critiche mosse dai pensatori antidemocratici o illiberali: ne diversifica gli esiti in maniera sostanziale l’intento, giacchè il nostro non mira a distruggere , bensì a rafforzare quelle dottrine e quegli ordinamenti, cercando nel loro stesso orizzonte i rimedi alla loro crisi. Ci sembra necessario, in poche parole, individuare e proporre dei limiti alla democrazia perché possa incrementarsi in essa e non deprimersi il tasso di libertà. E’ questo l’incerto confine da tracciare, il terreno sdrucciolevole e insidioso su cui avventurarsi: provare a comprendere fino a che punto i nemici della democrazia , di fatto, siano avvantaggiati dalla democrazia stessa quando essa divenga, come è già tante volte accaduto, una democrazia senza libertà.
Se ciò è vero, ci confermeremo nell’idea che il tema fondamentale resta quello della libertà. Certo, il dramma ecologico , il pascaliano pensiero dietro la testa, l’angoscia della morte, trasformatasi con l’energia atomica da sentimento individuale in sentimento collettivo, sembrano non lasciare spazio a dispute filosofiche intorno alla natura della libertà. Le mostruosità che il futuro dell’ingegneria genetica ancora cela, sono oggi appena un lontano timore che presto potrebbe mutarsi in panico e disperazione. Il diffondersi di epidemie inquietanti, che rievocano il più cupo Medioevo ci sprofonda in uno stato di smarrimento e ci stringe nell’eterna contraddizione fra la smisurata potenza (la tecnica) e la povera nullità che connotano la nostra essenza di uomini. Il potere dell’informazione ci lascia intuire un mondo orwelliano abitato da vuoti servitori. Persistono le più tristi povertà,; divengono più profonde le diseguaglianze fra le regioni del mondo. Vecchie discriminazioni razziali stentano a morire ed anzi vanno radicandosi e incrudelendo. Perfino la parità fra uomo e donna, che sembrava oramai attuarsi sempre più decisamente, arretra e sbiadisce la sua carica civile. Il conformismo più piatto pervade l’intero pianeta mentre rinascono mille particolarismi. I due fenomeni convivono tragicamente perché sono l’uno la vita dell’altro. I valori morali decadono, si dice, e con essi le religioni e viceversa, a seconda dei punti di vista. La scristianizzazione, la secolarizzazione, avanzano come il deserto in mancanza di piogge. Che farsene, dunque, della libertà, della democrazia e di simili altre inezie? La libertà, si afferma più o meno imbarazzati, è un lusso che non possiamo concederci. Eppure ognuna delle questioni sollevate è questione di libertà, ogni problema toccato reclama una risposta in termini di libertà, se ben intendiamo questo concetto. Non sarà lo spirito pratico, non sarà la scienza, non la mera politica, a risolvere le intricate questioni della bioetica, dell’uso dell’energia nucleare, dei rapporti fra razze e continenti. La libertà è il dominio critico della forza: è ciò che guida l’uomo nelle scelte che deve compiere. Se ciò è vero, prima di andare avanti, dobbiamo ancora interrogarci sulla natura della libertà, e sul suo futuro.
La libertà ha un futuro?
E’ possibile che un popolo rinunci volontariamente alla libertà o che la perda senza rendersene conto? E’ possibile. Questa affermazione ha bisogno di essere ben motivata e circoscritta perché perda la irritante carica di paradossalità che possiede e per evitare sgradevoli equivoci.
Il sondaggio è oggi lo strumento con cui rapidamente si manifesta la volontà generale, il sentimento diffuso di un popolo in un dato momento storico. E’ molto probabile se non quasi certo, che nessun popolo alla domanda se voglia essere libero risponderebbe negativamente. Ma è altrettanto probabile che se la domanda fosse posta in maniera indiretta l’esito della risposta potrebbe cambiare. Basterebbe chiedere ad esempio se si preferisce la ricchezza o la libertà. Oppure potremmo chiedere di stilare una sorta di classifica dei valori. Chiedere, come fanno tanti giornali: “quale valore dei sotto indicati ritiene più importante l’onestà, la giustizia, la famiglia, la ricchezza, l’amicizia, la libertà, l’amor di patria, la fedeltà, la fede religiosa e così via?”. Si può presumere che la libertà non si classificherebbe ai primi posti.
In sostanza, questa sorta di plebiscito antiliberale si verifica in molte tornate elettorali allorché i partiti stilano i cosiddetti programmi. Fra un partito che promette maggiore libertà di stampa ed un partito che promette di diminuir le tasse è molto probabile che il popolo scelga il secondo.
La questione della scarsa rilevanza data al valore della libertà sembra attraversare il mondo intero se si fa eccezione, come si dice (ma si ha ragione di nutrire qualche dubbio) dei così detti paesi di cultura anglosassone vale a dire Inghilterra, Stati Uniti, Canada ed Australia.
D’altro canto è luogo comune che nessun nucleo sociale dal più piccolo al più grande si “fida” delle scelte compiute dalla maggioranza. Una famiglia non sceglie quale istruzione dare ad un suo figlio democraticamente ma interpellando un esperto; un imprenditore non chiede ai lavoratori consiglio sulle scelte da compiere ma consulta un aziendalista ; le chiese non ascoltano il parere dei fedeli ma ordinano, suggeriscono, indirizzano, ispirano….
Se nel passato, si dice, la gente avesse scelto a maggioranza gli artisti, i poeti, i filosofi, i musicisti o gli scienziati da consacrare è molto probabile che i nomi di Michelangelo, Dante, Kant, Beethoven ed Einstein sarebbero scomparsi dalla storia, sepolti con le loro stesse opere.
Perché, dunque, nella vita politica gli uomini dovrebbero comportarsi diversamente e privilegiare la libertà rispetto a tante altre opportunità?
Lo scenario cupo appena descritto non lascia, dunque, alcuna speranza nell’avvenire? La civiltà occidentale è dunque giunta ad un punto morto? Ci si sente come di fronte ad un trivio, i cui sentieri conducono tutti verso forme più o meno gravi di crisi morale e politica. Incrinati i pilastri morali dell’Occidente, il Cristianesimo, il liberalismo e il socialismo, sbiadisce lentamente la forma politica per eccellenza della civiltà occidentale: la democrazia. Essa tende a trasformarsi nell’organizzazione del conformismo, nel dispotismo della mediocrità o a morire, travolta dall’anarchismo, e cedere definitivamente ai totalitarismi vecchi e nuovi che sempre tentano di irrompere sulla ribalta della storia. E’ dunque questo l’unico epilogo possibile che la crisi morale irrimediabilmente prepara? Non a caso, negli anni della crisi delle democrazie liberali nate nell’ Ottocento dalla lotte per le Costituzioni, fiorì una vasta letteratura che, nel condannare il presente, lasciava presagire la tragedia futura. Negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, del nazismo e della seconda guerra mondiale, comparvero gli scritti di Spengler (Il tramonto dell’Occidente) e di Huizinga (La crisi della civiltà) che per tanti aspetti possono sembrare ispiratori di queste pagine. Può sembrare di risentire l’Ortega della Ribellione delle masse, opera per tanti aspetti in tono con queste citate. Senza dubbio, le suggestioni sono tante e alcune analogie appaiono ovvie e trasparenti. Per un periodo molto lungo, la critica si esercitò in maniera fin troppo dura nei confronti di quegli scrittori ritenuti pessimisti e reazionari, come avvenne, del resto, per gli italiani Pareto e Mosca e per lo stesso Croce. In qualche modo quei severi critici confondevano la diagnosi con la speranza. Constatare che vi è un’epidemia incipiente non significa volerne diffondere i germi. Certamente, per fare un solo esempio, non fu il caso di Huizinga, che si batté e morì per l’indipendenza della sua patria, nella resistenza al nazismo.
Ma se le analogie sono molte , non vuol dire che ci troviamo oggi in quelle condizioni, per la ragione molto semplice che la storia non si ripete mai. Per la ragione che, in ultima analisi, non esistono propriamente civiltà rigidamente definibili, men che mai civiltà che nascono e muoiono, come credeva, chissà se ingenuamente o furbescamente Toynbee, che addirittura pretendeva di contarle e misurarle con criteri estrinseci e astratti. Sarebbe fin troppo banale, e vorrei dire perfino stucchevole, paragonare l’Impero romano all’Impero americano (a meno che non si intendeva porre l’accento sulla globalizzazione delle scelte economiche e politiche e alla conseguente decadenza della rappresentanza democratica), unica vera potenza militare rimasta al mondo. Paragonare la decadenza morale del tardo Impero a quella che caratterizza i nostri tempi e dedurne che la nostra civiltà agonizza assediata dai nuovi barbari in marcia dal Terzo mondo è suggestivo come suggestive sono tutte le semplificazioni quando vengono dichiarate con fermezza e prosopopea. Ma restano semplificazioni.
La verità è che dobbiamo sforzarci di comprendere la nostra peculiarità, confessare con sincerità il nostro disagio, la nostra amarezza, forse la nostra angoscia. Ma esse non designano una considerazione ontologica, non prefigurano l’avvenire che ci aspetta: semmai pretendono di orientarlo. Tutto orienta il futuro, anche le poche note scritte in un breve libro come questo e, perciò, bisogna sentirsi ed essere responsabili di ciò che si pensa e si dice al pari di quando si agisce.
Non prefiguriamo, dunque, sciagure e catastrofi e nemmeno ci crogioliamo con un po’ di immaginazione in un facile ottimismo: “ e se la nostra civiltà infiacchita dovesse rivivere, rafforzata e rinvigorita, nei nuovi barbari come accadde per i greci conquistati dai romani e per i latini soggiogati dalle orde barbariche?” Mettiamo da parte imperatori e barbari, e riflettiamo sul nostro destino.
La libertà mai cessa di esistere e mai si afferma definitivamente. Essa è costitutiva della storia e non può vivere senza il suo contrario, se non in lotta , perpetua, contro di esso. Non si può mangiare se non si ha fame; non si può amare se non si desidera. Non ci possiamo dire liberi se non vi sono insidie che potrebbero farci schiavi.
La libertà, dunque, non muore mai . Vive in eterno. Ma vive concretamente, ossia lottando contro i suoi nemici che, lo abbiamo visto, sono tantissimi, imprevedibili, infiniti. E’ chiaro dunque che la libertà si identifica con la lotta incessante per la libertà. Tocca a noi, agli uomini in carne ed ossa, lottare per essa fra mille incertezze, mille pericoli, mille tentazioni, molte viltà e rari atti di coraggio. Ma i nemici della libertà generano la libertà. In questo senso, e solo in questo senso, la libertà non muore, quale che sia la pessimistica concezione che possiamo mai avere del nostro tempo, della nostra civiltà intesa come categoria ermeneutica e non assoluta. La nostra civiltà, ossia ciò che noi riteniamo essere il senso proprio degli anni in cui ci tocca vivere.
La libertà è la categoria fondante, è il primum indispensabile. Una antica e oramai consolidata tradizione scientifica e politica ci ha abituati a contrapporre la libertà agli altri valori: libertà e giustizia, libertà e socialità, libertà e uguaglianza, libertà e ordine, libertà ed efficienza, libertà e solidarietà, e chi più ne ha più ne metta. Non siamo stati educati a disprezzare la storia, la tradizione, non negheremo, dunque, il significato di tante opposizioni le quali hanno contribuito a creare partiti e movimenti, rivoluzioni e mutamenti che spesso hanno contribuito ad accrescere anziché a limitare la libertà. Ma rispettare la storia equivale sempre anche a storicizzare , ossia a collocare le cose al loro posto nel corso della storia, evitando di astrarle dal contesto e renderle vuote formule ideali o miti. Le opposizioni elencate si giustificano nelle loro relazioni con particolari (storiche) concezioni della libertà o con specifiche dottrine o con contingenti politiche di determinati partiti. Ogni storico delle dottrine politiche potrà agevolmente chiarire di quale libertà e di quale giustizia si discuteva nel Settecento o nell’Ottocento di liberalismo e di liberismo, di solidarietà cristiana e di libertà cristiana, e di tante altre questioni e vicende. A noi preme, invece, discutere della nostra, contemporanea, idea di libertà: quell’idea complessa nata dal travaglio del nostro secolo : il secolo del nazismo, del comunismo, delle due guerre mondiali, dell’esplosione atomica. Un’idea di libertà che ha cercato di svincolarsi dalle particolari dottrine che formano il corpus del liberalismo classico, la libertà liberatrice di cui parlava, crocianamente, Omodeo.
Un’idea moderna di libertà non si contrappone agli altri valori perché ambisce ad essere , ed è, l’indispensabile elemento della vita umana intesa come eterna crescita civile e morale, imprevedibile nelle sue linee di svolgimento ma costantemente attiva ed operante.
Abbiamo prima accennato alla semplice constatazione che l’uomo nasce libero e diventa poi democratico o cristiano, musulmano o socialista.
La libertà é disordine.
E’ questo un luogo comune diffuso in tutte le epoche e in tutte le latitudini. La libertà, la stessa democrazia, la repubblica, coincidono per molti con il disordine, il relativismo, il caos. I nostri bisnonni, influenzati ancora dalla propaganda dell’antico regime, di fronte a situazioni di evidente disordine sociale o anche familiare, si lamentavano esclamando: “Ma questa è la Repubblica!”. Ora, la difesa da questa accusa è antica quanto l’accusa stessa e non giova dilungarvisi troppo. La libertà vera, infatti, è un atto di coscienza e di consapevolezza, ossia il contrario del caos e del disordine. L’uomo, per sua natura incline alla disobbedienza e al libertinaggio, compie un atto di libertà, quando, liberandosi dalle sue inclinazioni “naturali”, si comporta “bene”. Da Kant in poi è questa la matura idea della libertà: giusto il contrario del caos. Ma la sensazione di confusione che la libertà politica suscita è senz’altro reale in alcuni momenti della storia. Non possiamo affermare: “la libertà provoca il caos”. Ma possiamo sostenere che, talvolta, i governi liberali tollerano un certo disordine. E fin qui non si deve far altro che correggere i comportamenti di quei governi.
Più subdola e persistente rimane l’idea di molti secondo la quale la natura umana non sarebbe degna della libertà che pure costituisce la sua essenza. E’ questo il punto di vista dei temperamenti totalitari i quali ripetono che la libertà è una bella e degnissima cosa ma che la maggioranza degli uomini non è in grado di viverla ed esercitarla. Costoro invocano l’ordine e l’uomo (o il gruppo di uomini) forte. Non si chiedono mai, queste degne persone, dove mai il destino, collocherebbe loro: se fra i regolatori o fra i regolati. Come in ogni gioco della fantasia, che ognuno fa sognando di vivere nella antica Grecia o nel Rinascimento, senza mai domandarsi a quale condizione sociale sarebbe appartenuto, se nobile o schiavo, cardinale o servo. Il sogno svanisce e si torna, se non contenti, almeno rassicurati, alla nostra modesta condizione di liberi cittadini dell’età contemporanea. I deboli, i labili e i poco savi di mente invocano la dittatura perché non sopportano la concorrenza della libertà e si acquietano, o credono di potersi acquietare, nel rigido ordine che tutto spegne e addormenta, secondando la loro fantasia malata.
Ma, così posta la questione, la libertà resta ancora, forse, in vantaggio sulla dittatura: resiste una parte della popolazione occidentale disposta ad ammettere che la libertà è superiore a qualsiasi dittatura. Il nostro problema è di natura diversa: il rischio che corriamo è altissimo perché il totalitarismo che si oppone alla libertà intesa come disordine e caos, pluralismo inconcludente e relativista, è un totalitarismo strisciante e non proclamato : è il totalitarismo della democrazia degenerata. Il conformismo, la spontanea adesione all’oligarchia o alla dittatura. E’ il vento freddo che spira in questi anni su tutta l’Europa e lambisce ora anche l’America.
La rinuncia alla libertà per paura della libertà
La libertà incute di per sé timore, quando è vera libertà. J.P.Sartre, per citare un autore fra i tanti possibili, parla della vertigine della libertà. Ognuno nella propria vita prova questo tragico sentimento. Sono libero di decidere il futuro di mio figlio su una questione importante; sono libero di investire i miei risparmi; sono libero di amare o meno una donna: tutto ciò mi procura ansia, timore, panico addirittura. Meglio se il destino di mio figlio fosse dettato da condizioni obbiettive; i miei investimenti affidati ad un esperto; il mio amore condizionato dalle consuetudini. La maggioranza degli uomini, nella maggioranza delle situazioni, preferisce la tranquillità alla libertà. Anzi libertà e tranquillità sono due facce della stessa medaglia. Questo stato d’animo, così comune, diviene parossistico in epoche di particolare turbolenza. La nostra condizione odierna, da questo punto di vista, alimenta e rende comprensibile il crescente timore della libertà che la caratterizza.
La crisi di alcuni valori produce il caos, la crisi di altri induce un indebolirsi della qualità morale della convivenza civile: tutto ciò preoccupa e intimorisce , e l’ordine e la disciplina finiscono con l’incarnare gli antidoti più lievi al terribile male che si profila. I vertici della Chiesa cattolica sono allarmati a ben ragione, dalla decadenza del sentimento della vita. Si abortisce con disarmante semplicità; si pratica l’eutanasia come forma di alleviamento delle sofferenze fisiche del malato e come risparmio per i parenti e la comunità. Prospera l’istituto della pena di morte; aumentano i suicidi; si gioca con la propria e l’altrui vita rievocando la letteratura disperata di Gide e Dostojevskij. L’atteggiamento di Raskòlnikov è diventato un fenomeno di massa. Tutto ciò sgomenta: si incolpa la libertà ( anche Giovanni Paolo II, nell’enciclica Veritatis splendor, riferendosi alla libertà senza verità, pare identificare la libertà con la mancanza di responsabilità, allontanandosi da un concetto di libertà che l’accomuna invece alla moralità stessa) e si cerca di vincolarla e limitarla quanto più è possibile dimenticando che è la coscienza morale infiacchita ad indurre gli uomini a dimenticare le responsabilità che proprio la libertà impone loro.
Ma non è la libertà in sé la responsabile o l’unica colpevole di tutto ciò. Direi, anzi, che ne è la vera vittima. Bisogna capovolgere la questione: è la coscienza morale infiacchita a generare la crisi della libertà non è la libertà a generare la crisi dei valori. Come vedremo meglio più avanti, moralità e libertà coincidono, ed è la crisi della libertà che genera il caos e non il suo trionfo, come, invece, si ritiene comunemente. Il conformismo, ad esempio, è il frutto e il seme ad un tempo dell’immoralità. Un esempio classico, da letteratura romantica dell’Ottocento, può aiutarci. Il perbenismo conformista condanna spietatamente una giovane ragazza incinta. La sventurata decide di abortire per sfuggire alla maggioranza dei suoi concittadini che la condannano. Tradotta nei nostri tempi, la storia avrebbe ben altro epilogo: la ragazza potrebbe decidere di portare a termine la gravidanza ma, per mantenere il bimbo, sa che non potrà permettersi di pagare la palestra per recuperare il suo peso forma. Grassa e impacciata, la maggioranza dei suoi concittadini la condannerà. Anche lei finisce col rinunciare al bambino, e abortisce.
Sono entrambe vittime della tirannide della maggioranza, non del diffondersi ed ampliarsi delle libertà civili e politiche. Fossero state spiriti liberi, forse avrebbero tenuto i loro bambini.
Il Papa indica un rimedio nel veto che una verità rivelata impone , quali che siano le condizioni ambientali in cui ci si trova: non si deve abortire perché è peccato. Si può esser liberi nell’ambito di questa verità, ma non la si deve mettere in discussione. Anche Tocqueville riteneva necessaria la religione a che la libertà e la democrazia non degenerassero. Sul piano pratico, certamente ci pare di poter concordare, ma non sempre ciò è vero, non in via di principio. Accade infatti che le verità entrino in contrasto: ad esempio, quelle proclamate da due religioni diverse. Si dirà che ciò che conta è la religiosità, non le singole, storiche, religioni ma il credere in una verità indiscutibile, qualunque essa, concretamente, sia. Ma nessuna verità è mai, veramente, indiscutibile. Nemmeno nell’ambito della fede. Il caso tragico nel quale si è costretti a scegliere fra la vita della madre e quella del nascituro lascia aperta una drammatica aporia nell’ambito di una qualunque religione rivelata. E qui stiamo discorrendo di un diritto, quello alla vita, che a tutti (o a quasi tutti) risulta evidente ed incontestabile. Cosa accadrebbe se ci riferissimo alle tante altre verità al cui cospetto sottomettere la libertà? La libertà stessa, come ha scritto Croce, è una religione perché non è possibile proclamarla come verità assoluta ma solo come verità che si attua e si compie nella storia, che si manifesta, quando si manifesta, nelle nostre coscienze.
Riepilogando in brevissima sintesi: dopo il rinvigorimento, dovuto alla sconfitta militare, politica e morale del nazismo, la democrazia liberale nel mondo occidentale sembra vacillare paurosamente. Usiamo l’aggettivo “liberale” perché altri modelli di democrazia non rispondono alle esigenze di libertà morale, politica, economica. Il comunismo e il fascismo, sia pure in forme diverse e con riferimenti ideali opposti, da questo punto di vista sembrano incarnare forme di degenerazione della democrazia piuttosto che rappresentare una netta opposizione del modello democratico. L’assolutismo che precede la Rivoluzione francese, infatti, non ha bisogno, se non in maniera molto relativa, del consenso. Il Valentino o il Re Sole non dovevano dar conto all’opinione pubblica, alla maggioranza o al popolo, ma solo a ristrettissimi settori della società. Hitler, Stalin, o Mussolini al contrario, fondarono la loro forza sul consenso. I moderni dittatori, si pensi a Castro a Cuba, a Mao in Cina, a Franco in Spagna, sono costretti ad utilizzare ogni mezzo a disposizione per conquistare o accaparrarsi il consenso. Ricorrono, certamente, alla violenza : ma non basta. Sono costretti a realizzare un complesso sistema di coinvolgimento dell’opinione pubblica, del cui consenso hanno bisogno vitale.
L’esperienza storica ci insegna, purtroppo, che il popolo e l’opinione pubblica si lasciano coinvolgere molto più di quanto una certa retorica edificante voglia lasciar credere. Nessuno nega più, ad esempio, che in Italia il fascismo abbia goduto di un consenso spontaneo ed intenso, cosa che non si può affermare, paradossalmente, del regime democratico che gli è succeduto.
Potremmo dire che se per democrazia intendiamo la maggioranza quantitativa dei cittadini e le idee da essa espresse, fascismo, nazismo e comunismo furono dittature democratiche o democrazie totalitarie o, per analogia, come è stato efficacemente detto, democrazie senza libertà. A dispetto di Nietzsche e dei nietzschiani, non c’è stato il trionfo del superuomo, ma dell’uomo massa, del quale i dittatori del Novecento sono generalmente la proiezione, la sintesi immaginativa, come vedremo meglio nel capitolo successivo.
Da queste considerazioni la conferma che la democrazia contiene in se stessa i germi della sua distruzione. Un’antica idea che affonda le proprie radici in Platone e giunge fino a Tocqueville. Sinceramente democratico, quest’ultimo diffidava del principio di maggioranza e sperimentò nella sua triste vecchiaia la verità delle sue teorie allorché la democrazia francese produsse la dittatura iperdemocratica e plebiscitaria di Napoleone III. La crisi del sistema politico italiano che stiano vivendo presenta allarmanti analogie , che nella prima parte di questo breve scritto abbiamo analizzato e sottolineato.
Che fare? L’unica prospettiva reale si offre nel riproporre la via liberale alla democrazia, giacché non è la democrazia in sé ad essere in pericolo, ma la democrazia liberale, la libertà.
In questo contesto torna di attualità più di ogni altra l’analisi tocquevilliana, che indica molti rimedi che il pensatore francese prese in prestito dal sistema democratico americano, a quell’epoca e forse, pur fra mille limiti, ancor oggi, il più solido e attento alle esigenze di libertà.
Rimedi oramai classici e noti a tutti, anche se non sempre compresi in tutta la loro rilevanza. Il federalismo, ad esempio, atto a garantire alcune minoranze organizzate dallo strapotere della maggioranza che si coagula politicamente nello Stato centrale. Tocqueville crede che anche l’associazionismo sia un efficace strumento per resistere alle tendenze dominanti, al conformismo, alle tante forme di latente dispotismo. Per inciso, è forse utile ricordare che in Italia esistono molte associazioni solidaristiche, caritatevoli, umanitarie ma sono rarissime quelle tese a difendere principii di libertà generali o particolari, il che la dice lunga sullo scarso sentimento di libertà del nostro popolo.
E’ appunto questo l’aspetto più rilevante , anche se meno codificabile, del pensiero di Tocqueville: senza il sentimento della libertà, il gusto morale, lo spirito critico, non vi è speranza per le istituzioni politiche democratiche. Senza, potremmo dire, la religione della libertà, come diceva, con giusta enfasi Croce, non vi è organizzazione giuridica, non vi sono riforme elettorali, programmi empirici che tengano.: la libertà si perde. Certe volte lentamente, perché la libertà non muore necessariamente d’infarto ; non sempre cala su di essa, all’improvviso, un sipario come in una tragedia, così come si è abituati a pensare dai libri di scuola che ci annunciano che nel 1925 l’Italia perse la libertà che riconquistò solo vent’anni dopo. Non è così semplice, così netto, perché non si tratta mai di accadimenti, ma di processi, lunghi e tormentati.
E’ questo l’aspetto più complesso, il problema più difficile da risolvere. Il gusto della libertà, si potrebbe dire parafrasando il don Abbondio di Manzoni, è come il coraggio: non lo si ha non ce lo si può dare. Ma è proprio vero? E’ questa la prima sfida, il compito precipuo del liberale. Esso si esplica in tanti modi, soprattutto nella pratica quotidiana, nella politica concreta, ma anche curando sempre di chiarire le questioni teoriche e indicando, se possibile, nuove vie da percorrere.
Qui si aggancia alle riflessioni di Tocqueville il pensiero crociano, la nostra prospettiva. Ripensare il ruolo del liberalismo, ridefinire il nostro compito, individuare nuove questioni.
Il nostro problema è oggi, paradossalmente, quello di restringere la democrazia edallargare gli spazi della libertà. Non si tratta di un paradosso o di un fatuo esercizioletterario. La democrazia può esser contenuta, in senso liberale, come abbiamo visto, cercando di limitare i danni provocati dal conformismo, dalla tirannia della maggioranza, dall’opinione pubblica, da quella che oggi chiamiamo gente. Ma, se ci si ferma qui, il liberalismo rischia di tradursi in conservatorismo. Gioca, per così dire, in difesa; limita, appunto, i danni, ma perde la sua forza innovativa, la capacità di creare la libertà e, in ultima istanza, finisce col mostrare un volto ingeneroso, sia pure di una ingenerosità misurata ed estremamente moderata. Si dirà: “meglio De Gaulle che Hitler, meglio Churchill che Stalin. Insomma, meglio il moderatismo conservatore di un iperdemocraticismo che conduce, prima o poi, l’umanità alla dittatura e al totalitarismo.” Certamente vero. Ma avvertiamo che non basta. Le grandi questioni del prossimo millennio non si affrontano con la sola moderazione. Il liberalismo deve recuperare la sua forza rivoluzionaria, la dimensione utopica che gli è propria altrimenti è perso. La partita è irrimediabilmente perduta se si lascia libero il campo ai tanti, ai troppi nemici della libertà, i quali non si mostreranno mai col volto ottuso degli illiberali, ma come coloro i quali intendono promuovere nuove prospettive, migliori condizioni di vita, progressi economici, e poi anche più efficienza, più ordine, una migliore organizzazione ed amministrazione dello Stato, della Giustizia, e via dicendo. Perché dimenticare che il diavolo sceglie sempre l’aspetto più seducente per irretire le sue vittime?
Ecco dunque il nostro problema: come conciliare le varie anime liberali in una nuova, ampia sintesi, in una nuova, perspicace, prospettiva.
La storia ha sedimentato distinzioni politiche che hanno avuto un senso profondo e svolto un ruolo importante ma non per questo possono cristallizzarsi in verità eterne. E’ conservatore, ad esempio, chi è contrario all ’aborto e all’eutanasia; liberale chi , entro certi limiti, si dice favorevole all’interruzione della gravidanza e alla buona morte. Il conservatore, dunque, per la difesa della vita, il liberale per la libera scelta dell’individuo di compiere o meno una scelta morale, di coscienza. Ma è vera, sostanziale, questa distinzione? Il conservatore, generalmente, è favorevole alla pena di morte, onde il principio “rispetto della vita” è subordinato ad altri valori. Il liberale è decisamente contrario alla pena di morte ed entra in crisi allorché gli si prospetta l’ipotesi che il nascituro, l’embrione, è un individuo al quale non dovrebbe negarsi il diritto di scegliere se venire al mondo ed, anzi, è un individuo debole, indifeso, che merita per questo ancor più rispetto in una società che voglia dirsi liberale. Chi, dunque, difende meglio il diritto alla vita il conservatore o il liberale?
Bisogna trovare il coraggio e la fantasia per superare questa ed altre opposizioni che trovano giustificazione in modelli e contesti storici e culturali troppo lontani dai nostri. Il liberalismo, come vedremo, ha necessità di ricordare, ma di abbandonare insieme, la sua storia se vuol essere, come può e deve, un corpo vivente, che, non solo conserva le sue strutture, ma le accresce e le modifica. Cosa si direbbe di un ragazzo che, per conservare intatte le sue origini, volesse smettere di crescere? Più o meno quello che si direbbe al contrario di una persona che volesse vivere come in uno stato di totale amnesia: che è folle.
Così il grande tema del rapporto fra libertà e giustizia, fra liberalismo e socialismo. Sono state scritte, su questo argomento, pagine e pagine , che non è nostro compito ricordare in questa sede. Certo è che anche, soprattutto sul terreno politico, nel concreto dipanarsi delle vicende storiche, delle lotte di interessi economici e sociali, il liberalismo nel suo complesso è sembrato opporsi, e tante volte si è opposto, alla cosiddetta giustizia sociale, e perfino alla giustizia intesa come legalità. Torti e ragioni possono distribuirsi equamente. Che la giustizia non sia la legalità è chiaro sin dagli albori della filosofia politica , e dovrebbe esser chiaro a tutti coloro che hanno sperimentato quanto astratta e falsa appaia la pur indispensabile giustizia dei tribunali ( tribunali erano anche quelli della Germani nazista e della Russia stalinista, come lo erano stati quelli dell’Inquisizione) al confronto della giustizia che la vita reale reclama. Il liberalismo è stato assieme strenuo difensore della legge, allorché ciò era indispensabile per abbattere privilegi fondati sull’arbitrio e l’arroganza di classi e gruppi, e critico, pungente e severo, della legge divenuta strumento essa stessa di nuovi privilegi e di nuovi soprusi. Il liberalismo, che in questo modo si accompagnava sia pure con moderazione alle aspre lotte dei progressisti e dei socialisti che identificavano, marxianamente, il diritto con la sovrastruttura ideologica del potere usurpato dalla borghesia, classe dominante.
La polemica, su questo terreno specifico, era e fu polemica di accenti e di toni più che di reale sostanza teorica. Ma, com’è è noto, gli accenti e i toni in politica contano quanto, se non più, delle teorie e dei principii.
Più sostanziale, e per taluni aspetti più aspra, la querelle libertà-giustizia intesa, quest’ultima, nel senso dell’uguaglianza. Ma di quale libertà e di quale uguaglianza si discorreva? Dell’uguaglianza rispetto alla legge, alla giustizia sociale, e, in questo secondo caso, come livellamento dei redditi e delle risorse imposto dall’alto (dallo Stato) o come volontà di assicurare a tutti uguali opportunità? Mancando precise distinzioni, il tono delle polemiche cresceva: se per alcuni uguaglianza significava mortificazione della creatività, astratto tentativo di imporre (talvolta con la violenza) ciò che in natura non esiste, per altri la libertà finiva col coincidere con la libertà di pochi (o anche di molti) di sopraffare gli altri, di sfruttarli, di tenerli in condizioni di perenne subalternità.
Antiche diatribe non ancora sopite, le cui ragioni non si giustificano, come si potrebbe dimostrare, se passate al vaglio di rigorose analisi filosofiche, ma che sul piano storico hanno svolto un ruolo determinante nella formazione di grandi movimenti di opinione, di partiti e gruppi, ed hanno generato guerre e lotte il cui ricordo sopravviverà indelebile nella memoria collettiva. Il nostro compito è, ora, quello di guardare al futuro, pur non dimenticando il passato.
Se vuole essere vivo e non consegnarsi alla storia come i tanti movimenti etico-politici che hanno svolto un ruolo e che si sono esauriti con la loro stessa affermazione, il liberalismo deve proporsi come sintesi nuova della modernità, come l’ideale, si sarebbe detto il secolo scorso, capace di accogliere l’eredità delle libertà antiche e coniugarle con le libertà nuove, di recepire ed assimilare le antiche critiche, gli storici avversari, per poter comprendere il nuovo corso della storia, per far fronte, per quanto possibile, alle nuove sfide. Perché, se è vero che a nessuno è consentito far previsioni, a tutti tocca il compito di far accadere il futuro. Prevedere, concretamente e non astrattamente, il futuro vale creare il futuro. Voler compiere un atto politico, avvertire che quell’azione politica è possibile, equivale a disegnare il futuro, è già un creare la storia.
Ma alla speranza deve accompagnarsi l’analisi razionale, il giudizio. Alla volontà morale l’ipotesi, l’orizzonte teorico generale verso il quale ci si dovrà, pazientemente, orientare. Ed oggi, a nostro avviso, il liberalismo può rigenerarsi come superamento della crisi della democrazia ricollocando l’individuo al centro della sua riflessione e del suo impegno politico e civile. L’individuo, naturalmente, inteso in senso moderno.
Il liberalismo , per troppo tempo, si è esaurito in una concezione economicistica dell’uomo, finendo col dar ragione ai suoi più aspri critici. A coloro i quali, con esagerata enfasi ma con qualche ragione, hanno voluto identificare l’uomo liberale con l’individuo chiuso nel suo egoismo, nella ricerca di una particolare felicità, incurante dei più vasti destini dell’umanità, del generale progresso della storia. Un liberalismo che, paradossalmente, si capovolgeva in una sorta di darwinismo sociale, come è stato efficacemente detto, o, addirittura, in una sorta di superomismo scialbo nel quale l’uomo, chiuso nella stretta cerchia dei propri meschini interessi, assurgeva a simbolo di nuovo, incontrastabile, dominatore.
Concezione economicistica la quale, paradossalmente (come già notò Croce), accomuna questa versione del liberalismo al marxismo delle origini , che tutto pretendeva fondare sulla struttura economica della società, soffocando ogni umana aspirazione in una angusta visione della storia.
D’altro canto, a ben riflettere, sia il liberalismo liberista che il marxismo originario, erano indissolubilmente legati ad una interpretazione del capitalismo concepito come una rivoluzione, nel bene come nel male, dell’intero assetto sociale, culturale, politico. Viviamo oggi , molto probabilmente, l ’epilogo di quell’esperienza storica.
L’individualismo liberale deve fondarsi oggi su una diversa idea di individuo: l’individuo comunitario, concepito nelle sue relazioni, come soggetto del mondo. L’individuo che è tale non perché è un atomo incapace di inserirsi in una più ampia contestualità, ma in quanto è ciò che ha la sua stessa essenza nell’essere in comunità. L’individuo che concretamente si realizza attraverso le sue azioni, le sue opere (grandi o piccole) di cui porta per sempre la responsabilità. Davanti a Dio per il credente, davanti all’umanità e alla propria coscienza per il non credente.
L’individuo comunitario che difende i propri diritti come quelli della comunità (che non si esaurisce nel formale rispetto della libertà altrui), diritti, naturalmente, storici, ossia sempre nuovi e sempre in pericolo. Questa idea di individuo deve tornare ad essere il centro della politica liberale: ildover essere , l’utopia concreta che il liberale deve perseguire.
Altrove, se mi è consentito ricordarlo (nel volume Il liberalismo come metodo edito. dalla Fondazione Enaudi), ho cercato di dimostrare come l’antica polemica fra liberalismo giusnaturalista e liberalismo storicista possa essere parzialmente superata tornando a collocare la dimensione dell’individuo comunitario estorico come termine assolutodi riferimento. Assoluto, ovviamente, in senso moderno, ossia in continua relazione con la storia, con la realtà. Riscoprire, dunque, il valore dell’utopia come ciò che regola e orienta l’azione e non come mera costruzione di un modello astratto e perciò stesso irragiungibile.
Questa scelta, questa dimensione del liberalismo consente una visione che potremmo definire ampiamente sociale del liberalismo stesso, democratica senza per questo cadere in forme di democraticismo. Una posizione che può prospettare una nuova, più matura alleanza fra liberalismo e socialismo, una volta che questi abbiano abbandonato il dottrinarismo e il massimalismo.
Anche la sinistra ha scontato e sconta, come il liberalismo, un notevole ritardo nell’analisi della società. Una volta abbandonato il concetto troppo angusto della lotta di classe, non sempre socialisti e postcomunisti sono stati in grado di individuare i nuovi soggetti sociali svantaggiati (i non inclusi, per dirla con il liberalismo progressista anglosassone), di saper ricostruire un’utopia concreta una volta caduta l’utopia marxista. Forse oggi liberalismo e socialismo, liberatisi delle ipostasi dottrinarie (che pure hanno svolto la loro nobile funzione) possono incontrarsi sul comune terreno della difesa dell’individuo inteso, lo si è già detto, come soggetto creativo della storia e come limite invalicabile di ogni azione politica. Il liberalismo perderebbe così la sua coloritura conservatrice e il socialismo recupererebbe la sua spinta libertaria.
La crisi del nostro tempo, come tutte le crisi, è crisi essenzialmente morale, che non può essere combattuta e vinta sul mero terreno della politica, dell’amministrazione, dell’efficienza, di valori fondamentalmente economicistici e, perciò stesso, riferiti ad una parte sola dell’uomo, a qualsiasi classe, gruppo, nazionalità o razza egli appartenga.
Efficienza, coerenza, sono valori strumentali (e perciò, forse, non sono valori in senso proprio), non possono diventare fini o sopraffare gli altri valori come abbiamo visto a proposito della giustizia, che può , se collocata all’apice della piramide immaginaria dei valori, soffocare la libertà e, con essa, la giustizia stessa. Troppo spesso l’ansia di efficienza, la moralistica richiesta di coerenza, si tramutano in un dispotismo debole, se non addirittura in vera e propria tirannia. L’individuo comunitario rimane pertanto il termine di riferimento generale e sostanziale attorno al quale si può e si deve costruire un nuovo modello di società, un nuovo sistema di valori, per dirla con parole, forse, abusate.
Rispetto dell’individuo, per tornare al nostro discorso di fondo, vale anche come limite della democrazia e così si spiega l’apparente paradossalità del titolo scelto per queste poche pagine: La libertà dopo la democrazia.
La libertà, se è concreto rispetto dell’individuo, è ciò che determina i confini della democrazia. La democrazia è il sistema istituzionale, giuridico, politico, attraverso il quale la libertà moderna si esplica concretamente. Se si rompe questo equilibrio, entra in crisi la libertà, la democrazia conosce la sua deriva plebiscitaria, il totalitarismo. Oppure si autolimita attraverso una sottrazione del potere di rappresentanza del “popolo sovrano” attraverso meccanismi intrinsecamente illiberali. Lo abbiamo visto nel primo capitolo a proposito dalla piccola e ingenerosa “rivoluzione” nell’Italia degli anni Novanta. La democrazia era deperita in partitocrazia sul finire della cosiddetta prima Repubblica: una sorta di oligarchia governava il Paese emarginando crescenti settori della società. La giusta e comprensibile reazione a questo stato di cose per i motivi che abbiamo detto, si è trasformata in rivolta ingenerosa, in deriva plebiscitaria: in una prima fase sotto l’egida di un giacobinismo qualunquista e giustizialista, in una seconda fase sotto il segno di un’ inedita miscela di liberalismo e populismo. Anche le ultime elezioni, per restare ancora al caso italiano, pur ricostituendo le ragioni della convivenza civile, hanno mostrato con la scelta autoritaria e partitocratica dei candidati, quanto sia forte il rischio di tornare a quella sorta di democrazia oligarchica che sembra segnare la continuità della storia politica italiana: l’alternativa non può consistere, come sembra accadere, nella contrapposizione fra democrazia plebiscitaria e democrazia senza rappresentanza, fra populismo e trasformismo delle classi dirigenti. In verità, democrazia e libertà devono poter convivere, anche se non è detto che liberalismo e democraticismo (intesi come insiemi di dottrine politiche) possano sempre convivere perché, come potrebbe essere facile dimostrare anche storicamente, le dottrine democratiche si collocano in uno spazio neutro fra liberalismo e socialismo e non si deve dar per scontato che la democrazia sia per sua natura più vicina al socialismo o al liberalismo. Lo si è visto: per taluni aspetti il dialogo fra socialismo e liberalismo è perfino più semplice. Liberalismo e socialismo si pongono talvolta come argine alla crisi della democrazia.
Per troppo tempo è sembrato che i termini libertà e democrazia fossero diventati sinonimi. La storia recente ha dato un duro colpo al nostro ottimismo o, almeno alla nostra superficialità. C’è sempre qualcosa che ci trascende e che dobbiamo faticosamente, quotidianamente, riafferrare e rendere immanente. E’ la nostra avventura, forse il nostro dramma. Concediamoci un finale retorico: l’affascinante dramma della libertà.
III
Il totalitarismo democratico.
Se adottiamo, provocatoriamente, come spartiacque interpretativo il concetto orteghiano di ingresso delle masse nella storia, possiamo affermare che la differenza fra la antica tirannia e quella moderna consiste essenzialmente nel fatto che quella moderna ha bisogno del consenso della gente, o del popolo, o delle masse che dir si voglia. perciò, enfatizzando, possiamo affermare che esiste un totalitarismo democratico, ovvero che l’esito ultimo della democrazia, se non moderata e temperata dal liberalismo, è il totalitarismo. Qualcosa del genere, si dirà, aveva già affermato Platone nel celeberrimo passo in cui descrive la crisi della democrazia divenuta demagogia e quindi degenerata in dittatura. Ma il punto di vista del grande filosofo è diverso dal nostro, da quello dell’uomo contemporaneo. Quello platonico è, in fondo, lo schema classico della politologia circa la natura e l’avvento della dittatura. Il disordine reclama l’ordine. La democrazia debole induce a desiderare lo Stato forte. Dal nostro punto di vista questo rappresenta un solo aspetto del problema. E’ fuori di dubbio che la demagogia spinge a reclamare la tirannia ma la questione che ci interessa è appurare la dimensione del consenso e, soprattutto la qualità del consenso popolare alla dittatura.
Il caso descritto da Platone potrebbe essere definito un caso di richiesta autoritaria in negativo. I totalitarismi del nostro secolo, e quelli che potremmo ancora sperimentare, si fondano su una richiesta in positivo della dittatura. Nel primo caso si ha l’impressione che si giunga al dispotismo perché la democrazia fallisce, perché non mantiene le sue promesse. Fra due mali, una democrazia non funzionante e un dispotismo efficiente, si opta per quello ritenuto minore. Nel nostro caso, il totalitarismo nasce come espansione estrema della democrazia, non come crisi della sua capacità espansiva. Una differenza enorme e drammatica. Difficilmente percepibile e difficilmente accettabile perché troppo urtante, irritante, pessimistica. ( Ma vedremo che non è necessariamente così). La prova del nove ci è fornita dall’estrema popolarità della prima considerazione ( quella, per così dire, platonica), mentre la seconda è impopolarissima. Si pensi alla fortuna del brano platonico, ancorché generico, e alla fortuna del concetto tocquevilliano di tirannia della maggioranza, tanto acuto e arguto pur nella semplicità estrema del linguaggio del grande pensatore francese. D’altro canto, e non sembri un paradosso, non è casuale il fatto che Platone fosse un filosofo tendenzialmente totalitario (il che nulla toglie alla grandiosità del suo pensiero metafisico) e Tocqueville un liberale democratico. Il primo, infatti, alla tirannia oppone un sistema ideale di governo autoritario (almeno nella Repubblica, perché diverso è il caso del tardo dialogo le Leggi), il secondo, al contrario, auspica una società pluralista e mobile, una società aperta, per dirla con Popper.
Il totalitarismo democratico affonda le radici nella struttura stessa della società così come è andata configurandosi dal 1700 e, soprattutto, dopo l’Indipendenza americana e la Rivoluzione francese. La grande ‘scoperta’ tocquevilliana consiste nell’aver compreso che negli stessi principii fondanti della democrazia, l’egualitarismo e il principio di maggioranza, si annida il germe della tirannia. Il totalitarismo moderno è, per certi aspetti, l’estrema conseguenza di quel principio anche se, naturalmente, il nuovo tiranno, o lo Stato autoritario, si serve della sovranità popolare contro il suo legittimo proprietario , il popolo stesso. Ma ciò avviene, ed è qui il paradosso, con il consenso della vittima, il popolo.
La tirannia della maggioranza
Nella prima Democrazia in America, del 1835, Tocqueville scriveva:
Io considero empia e detestabile questa massima: che in materia di governo la maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto; tuttavia pongo nella volontà della maggioranza l’origine di tutti i poteri. Sono forse in contraddizione con me stesso?
Esiste una legge generale che è stata fatta, o per lo meno adottata, non solo dalla maggioranza di questo o quel popolo, ma dalla maggioranza di tutti gli uomini. Questa legge è la giustizia.
La giustizia è dunque il limite del diritto di ogni popolo.
Una maggioranza è come una giuria incaricata di rappresentare tutta la società e di applicare la giustizia che è la sua legge. La giuria rappresenta la società; deve essa avere più potenza della società stessa di cui applica le leggi?
Quando dunque io rifiuto di obbedire ad una legge ingiusta, non nego affatto alla maggioranza il diritto di comandare: soltanto mi appello non più alla sovranità del popolo ma a quella del genere umano.
Vi sono alcuni i quali osano dire che un popolo, negli oggetti che interessano lui solo non può uscire interamente dai limiti della giustizia e della ragione e che quindi non si deve avere paura di dare ogni potere alla maggioranza che lo rappresenta. Ma questo è un linguaggio da schiavi.
Cosa è mai la maggioranza, presa in corpo, se non un individuo che ha opinioni e spesso interessi contrari ad un altro individuo che si chiama minoranza. Ora, se voi ammettete che un uomo fornito di tutto il potere può abusarne contro i suoi avversari, perché non ammettete ciò anche per la maggioranza? Gli uomini, riunendosi, mutano forse di carattere? Divenendo più forti, divengono anche più pazienti di fronte agli ostacoli? Per parte mia, non posso crederlo; e non vorrei che il potere di fare tutto, che rifiuto ad un uomo solo, fosse accordato a parecchi. (…) Bisogna sempre, dunque, porre in qualche parte un potere sociale superiore a tutti gli altri; ma la libertà è in pericolo quando questo potere non trova innanzi a sé alcuno ostacolo che possa rallentare il suo cammino, dandogli il tempo di moderarsi.
L’onnipotenza in sé mi sembra una cosa cattiva e pericolosa; il suo esercizio è superiore alle forze dell’uomo, chiunque esso sia; solo Iddio può essere onnipotente senza pericolo, perché la sua saggezza e la sua giustizia sono sempre eguali al suo potere. Non vi è dunque sulla terra autorità, tanto rispettabile in se stessa o rivestita di un diritto tanto sacro, che possa agire senza controllo e dominare senza ostacolo. Quando, dunque, io vedo accordare il diritto o la facoltà di fare tutto a una qualsiasi potenza, si chiami essa popolo o re, democrazia o aristocrazia, si eserciti essa in una monarchia o in una repubblica, io dico: qui è il germe della tirannide; e cerco di andare a vivere sotto altre leggi.
Ciò che io rimprovero di più al governo democratico, come è stato organizzato negli Stati Uniti, non è, come molti credono in Europa, la debolezza, ma al contrario la sua forza irresistibile. Quello che più mi ripugna in America, non è l’estrema libertà, ma la scarsa garanzia che vi è contro la tirannide.
Quando negli Stati Uniti un uomo o un partito soffre di qualche ingiustizia, a chi volete si rivolga? All’opinione pubblica? E’ essa che forma la maggioranza. Al corpo legislativo? Esso rappresenta la maggioranza e le obbedisce ciecamente. Al potere esecutivo? Esso è nominato dalla maggioranza ed è un suo strumento passivo. Alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le armi. Alla giuria? La giuria è la maggioranza rivestita del diritto di pronunciare sentenze: i giudici stessi, in alcuni stati, sono eletti dalla maggioranza. Per quanto la misura che vi colpisce sia iniqua o irragionevole, bisogna che vi sottomettiate.
Supponete, al contrario, un corpo legislativo composto in modo tale che esso rappresenti la maggioranza senza essere necessariamente lo schiavo delle sue passioni; un potere esecutivo che abbia una forza propria e un potere giudiziario indipendente dagli altri due poteri; avrete ancora un governo democratico, ma non vi sarà più pericolo di tirannide.
Io non dico che attualmente si faccia in America un uso frequente della tirannide; dico che non vi è contro di essa alcuna garanzia e che le cause della mitezza del governo devono essere cercate nelle circostanze e nei costumi, piuttosto che nelle leggi.[1]
Con questo brano Tocqueville ripropone in concreto il principio astratto del liberalismo classico ( Montesquieu) , secondo cui il potere deve limitare il potere. La novità essenziale consiste nel fatto che per la prima volta in maniera chiara ed ineludibile la questione della tutela delle minoranze e degli individui attraverso il reciproco controllo di forze contrapposte viene posta rispetto ad un sistema politico democratico. Bisogna sottolineare poi che Tocqueville si riferisce a “ fatti” concreti, a ciò che ha visto e storicamente sperimentato. Si riferisce alla più grande democrazia, quella americana, nella sua mobile attualità.
Ciò che ancor più interessa è il legame stretto fra tirannia e maggioranza: la libertà non viene messa in pericolo da un uomo o da un gruppo di uomini, da una classe sociale o da un potere forte ( giudiziario, militare, etc) ma dalla democrazia stessa, che dovrebbe essere, invece, la sacra custode della libertà di tutti. Pochi hanno ascoltato le preoccupate e accorate parole del grande studioso.
Nella seconda Democrazia in America, del 1840, Tocqueville torna sull’argomento in conclusione della sua vasta opera. Il tono del discorso, se così è lecito dire, tende a universalizzare la questione. Dagli aspetti più propriamente politico-descrittivi del primo brano citato, si giunge a considerazioni più ampie, di carattere sociologico generale, diremmo oggi, se non filosofici in senso lato.
Tocqueville delinea in chiaro scuro, nei primi capitoli, gli effetti della mentalità democratica e dello spirito di uguaglianza sull’intera società americana, dai costumi religiosi all’educazione delle donne, dal modo di concepire l’organizzazione militare all’attività letteraria e a proposito di quest’ultimo aspetto parla sorprendentemente di industria letteraria.
Nel capitolo sesto, Quale specie di dispotismo devono temere le nazioni democratiche, scrive:
Nei secoli passati non si è mai visto un sovrano tanto assoluto e potente che abbia voluto amministrare da solo, senza l’aiuto di poteri secondari, tutte le parti di un grande impero, né che abbia tentato di assoggettare indistintamente tutti i suoi sudditi ai particolari di una regola uniforme e che sia disceso a fianco di ognuno di essi per reggerlo e guidarlo. L’idea di una simile impresa non si è mai presentata allo spirito umano e, se anche qualcuno l’avesse concepita l’insufficienza della civiltà, l’imperfezione dei sistemi amministrativi e, soprattutto, gli ostacoli naturali suscitati dalla diseguaglianza delle condizioni, lo avrebbero presto dissuaso dall’eseguire un disegno così vasto.[2]
La tirannide antica, ricorda Tocqueville, era nello stesso tempo violenta e limitata. Gli imperatori poterono abbandonarsi liberamente a qualsiasi stranezza, ma il loro potere non era pervasivo, non toccava contemporaneamente la maggioranza degli uomini; non si elevava, diremmo, a sistema ( teniamo presente queste considerazioni quando leggeremo, più avanti, le riflessioni di Hannah Arendt sul totalitarismo moderno).
Cosa poi accadrà, invece, in tempi democratici?
Se cerco di immaginarmi, scrive Tocqueville, il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri. Ognuno di essi, tenendosi da parte, è quasi estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, egli è vicino ad essi, ma non li vede; li tocca ma non li sente affatto; vive in se stesso e per se stesso e, se gli resta ancora una famiglia, si può dire che non ha più patria.
Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, evidente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissargli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole essere l’unico agente e regolatore; provvede alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere?
Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà in più piccolo spazio e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso. L’eguaglianza ha preparato gli uomini a tutte queste cose, li ha disposti a sopportarle e spesso anche considerarle come un beneficio.[3]
Poco più avanti Tocqueville scorge il sottile rischio che si corre allorché si identifica la libertà individuale con la libertà delegata alla maggioranza e, quindi, (si pensa erroneamente) a tutti quelli che tale maggioranza contribuiscono a formare:
I nostri contemporanei sono incessantemente affaticati da due contrarie passioni: sentono il bisogno di essere guidati e desiderano di restare liberi; non potendo fare prevalere l’una sull’altra, si sforzano di conciliarle: immaginano un potere unico tutelare ed onnipotente, eletto però dai cittadini, e combinano l’accentramento con la sovranità popolare. Ciò dà loro una specie di sollievo: si consolano di essere sotto tutela pensando di avere scelto essi stessi i loro tutori. Ciascun individuo sopporta di sentirsi legato, perché pensa che non sia un uomo o una classe, ma il popolo intero a tenere in mano la corda che lo lega. In questo sistema il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito dopo vi rientra.[4]
In conclusione il grande scrittore francese fa cadere l’accento sul pericolo che corre la libertà (e la dignità di ogni uomo) in tempi di democrazia al di là, anche se non indipendentemente, dall’aspetto squisitamente politico. Prima di leggere queste ultime considerazioni giova ricordare, per evitare equivoci od avvallare interpretazioni tendenziose, che Tocqueville crede fortemente nella necessità del processo di democratizzazione ed è conscio dei vantaggi che ne verranno per l’intera umanità. Nel brano che segue, invece, egli segnala quanto siano inutili, per formare un vero e autentico spirito di libertà, quelle che oggi chiameremmo riforme istituzionali.
I popoli democratici, conclude Tocqueville, introducendo la libertà nella vita politica nel tempo stesso in cui aumentavano il dispotismo amministrativo, sono stati portati a singolarità stranissime. Se si tratta di condurre piccoli affari, nei quali può bastare il buon senso, essi stimano incapaci i cittadini; se si tratta, invece, del governo di tutto lo stato, affidano ai cittadini immense prerogative; così ne fanno a volta a volta i trastulli del sovrano e i suoi padroni; più dei re e meno degli uomini. Dopo aver escogitato infiniti sistemi di elezione, senza trovarne uno adatto, si stupiscono e cercano ancora come se il male che essi notano non dipendesse dalla costituzione del paese molto più che da quella del corpo elettorale.
E’ effettivamente difficile, continua il pensatore, comprendere come mai degli uomini, che hanno interamente rinunciato all’abitudine di dirigere se stessi, potrebbero riuscire a scegliere bene quelli che li dovrebbero guidare; non si può mai sperare, quindi, che un governo liberale, energico e saggio possa uscire dai suffragi di un popolo di servi.[5]
* * *
La critica alla sovranità popolare e alle forme giuridiche attraverso le quali si esercita o dovrebbe esercitasi non è, come è ovvio, cosa nuova. Essa si fonde e si confonde con l’intera storia politica degli ultimi due secoli e si presenta in tutta la sua durezza nel nostro secolo: una sorta di facile tiro al piccione. Volerne tracciare i confini equivarrebbe a scrivere una lunga e dettagliata storia delle dottrine politiche e dell’intera filosofia. Ricordare, ad esempio, Nietzsche e gli usi e gli abusi che del poeta-filosofo tedesco si sono compiuti da destra prima e da sinistra poi. Sarebbe ridondante e forse inutile ai fini del discorso che intendiamo sviluppare. Non interessano, dal nostro punto di vista, gli attacchi alla democrazia di tono romantico o neoromantico, i richiami ai superuomini o oltreuomini, i rimandi alle intuizioni grandiose o disperate, i rinvii ai valori fortissimi o debolissimi, facce diverse di una unica medaglia. Esaltazione e disperazione, vitalismo e nichilismo, sono atteggiamenti psicologici fin troppo umani, degni certo di essere indagati e compresi ma non elevabili a unici punti di riferimento per spiegarsi le tante ragioni della politica.
Interessante nella nostra prospettiva sarebbe forse, soffermarsi sulle critiche mosse da “sinistra” alla democrazia, presenti già nel padre del comunismo Carlo Marx, e discendenti per li rami fino a Gramsci teorizzatore del partito comunista come moderno principe, ossia come guida delle masse popolari incapaci da sole di saper individuare e difendere i propri interessi, i propri diritti. Come si è detto una certa critica liberale alla democrazia ha molti punti di contatto con quelle provenienti dal variegato mondo del socialismo. Ma non è questo propriamente il nostro problema. Infatti, gli opposti attacchi al fondamento stesso della democrazia, al principio di maggioranza, all’ ugualitarismo sono, nel nostro orizzonte, segnali di crisi non conferme delle teorie antidemocratiche, semmai ulteriori stimoli a difendere la democrazia e le sue concrete ed operanti istituzioni.
Critiche da tenersi, naturalmente, in gran considerazione perché aiutano a comprendere quanto sia delicato il meccanismo dei regimi democratici, quanto sia facile imbattersi, improvvisamente, in condizioni morali e psicologiche dalle quali germogliano, quasi senza che ce ne si avveda, sentimenti antidemocratici e antiliberali.
E’ il caso, per restingerci a qualche esempio peraltro noto, del clima che si generò fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nostro Secolo alla vigilia della prima guerra mondiale e dell’avvento di totalitarismi degli anni Venti e Trenta. I nomi che vengono alla mente per quanto riguarda l’Italia sono, per ricordare solo i più noti, quelli di Pareto e Mosca e, per certi aspetti, dello stesso Benedetto Croce. Anche in questo caso come per Tocqueville giova forse ancora ricordare che sia Mosca che Croce furono aspri oppositori dei totalitarismi e sempre sinceri e schietti liberaldemocratici.
Se la posizione di Mosca si esaurisce nell’ambito delle scienze politiche quella di Croce propone, come si è accennato nel capitolo precedente, addirittura, una concezione generale della storia, la quale investe i rapporti stessi di convivenza, in una parola costruisce una rigorosa teoria filosofica. Da questo punto di vista il liberalismo di Croce si potrebbe avvicinare alla critica tocquevilliana della democrazia. La critica crociana appare più radicale perché fondata su presupposti filosofici di origine vichiana ed hegeliana mentre quella dello studioso francese si fonda quasi esclusivamente sulla analisi storica e sulla diretta esperienza politica. Non possiamo in questa sede approfondire questa questione. A noi interessa sottolineare il tono, l’atteggiamento comune nei confronti della “maggioranza” intesa come soggetto politico, come elemento fondamentale della democrazia. In un breve saggio il filosofo italiano espone il suo punto di vista che, pur con diverse sfumature, rimarrà sostanzialmente uguale nell’arco della sua lunga vita:
Non si dice cosa peregrina, scrive, se si dice che gli uomini che pensano e che operano profondamente sono pochi e che perciò le sorti della società umana sono legate a quelle di un’ aristocrazia. E neppure ormai si dice alcun che di peregrino aggiungendo che non si deve pensare con ciò alle vecchie aristocrazie chiuse del sangue e dell’eredità, perché qui si parla invece di aristocrazie sempre aperte, in continuo rinnovamento, i cui componenti, compiuta l’opera loro, muoiono o tornano nelle[-1] file, sopravvivendo all’ufficio esercitato.
Porre di fronte a codesta aristocrazia la massa, continua Croce, considerandola come la bestia, il mostro immane da schiacciare, da legare, da deludere, è il solito vezzo di estetizzanti e di superficialmente poetanti, come fu l’infelice pratica dei decadenti monarchi assoluti. Ma, se l’aristocrazia di cui discorriamo è aperta e i suoi nuovi elementi le vengono dalla così detta massa, chiaro è che essa non può trattarla da nemica né da estranea né da materia indifferente, che calchi col piede e sulla quale superbamente passi. E per ciò neppure si dice cosa peregrina, ma tuttavia si dice cosa vera, quando si ripete che l’aristocrazia ha il dovere di educare le masse.[6]
Croce, nel prosieguo dello scritto polemizza, in una volta, con il democraticismo giacobino (pur derivando dall’Illuminismo l’idea pedagogica di educare le masse) e con l’opposto irrazionalismo tipico delle ideologie che accompagnarono il fascismo e il nazismo anche essi idolegiatori delle masse.
In effetto, scrive, l’immaginaria entità che si chiama le people, il popolo fu da prima intesa come il serbatoio di quanto di più puro e di più nobile e di più profondamente razionale è nell’uomo, la più diretta espressione di Dio; e poi da questa immaginazione alquanto idilliaca si passò all’altra di una potenza misteriosa, irrazionale e irresistibile, la massa, di cui bisogna interpretare le spesso oscure ed involute volontà ed eseguirle.[7]
Fin qui quello di Croce sarebbe facilmente assimilabile al pensiero conservatore se non fosse che in gioventù, come è noto, il filosofo liberale fu fortemente influenzato dal marxismo e che in età matura dopo l’esperienza dell’antifascismo, concepì una idea del liberalismo fondato sulla dialettica e la storia e, soprattutto sul primato dell’etica in contrapposizione all’economicismo liberista. Una concezione laica, di tipo aristotelico, in cui centrale è il giudizio inteso come comprensione e mediazione capace di dominare la necessaria conflittualità e perciò in grado di favorire il dialogo anche fra diversamente opinanti. Nel caso specifico nella sua biografia politica, negli ultimi anni di vita il filosofo ritenne possibile ed anzi auspicabile il dialogo con il socialismo se questi avesse abbandonato, come in effetti è accaduto, la metafisica materialista.
Croce dunque aristocratico o democratico? Non interessa, in questa sede proseguire questa antica polemica. A noi sembra, sia detto di sfuggita, che il pensiero crociano sia intrinsecamente liberale ed il liberalismo è per sua natura inquieto ed irrequieto, mai chiuso ad una posizione preconcetta.
Per il nostro discorso ciò che interessa è che anche in Croce la massa assume spesso il valore di un concetto empirico di ordine psicologico: come ciò che tende alla mediocrità, al conformismo e che, dunque, mette in pericolo con la sua cieca forza le istituzioni liberali soprattutto i costumi improntati allo spirito liberale.
Questo concetto trova tutta la sua forza espressiva (e se fosse un concetto filosofico diremmo tutto il suo rigore) nell’ Ortega y Gasset de La ribellione delle masse:
La moltitudine, improvvisamente, s’è fatta visibile, si è installata nei luoghi migliori della società. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Ormai non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro.
Il concetto di moltitudine è quantitativo e visivo. Traduciamolo, senza alterarlo, nella terminologia sociologica. Allora troviamo l’idea della massa sociale. La società è sempre una unità dinamica di due fattori: minoranze e masse. Le minoranze sono individui o gruppi d’individui particolarmente qualificati. La massa è l’insieme di persone non particolarmente qualificate. Non s’intenda, però, per masse soltanto, né principalmente, le masse operaie. Massa è l’uomo medio. In questo modo si converte ciò che era mera quantità – la moltitudine – in una determinazione qualitativa: è la qualità comune, è il campione sociale, è l’uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in se stesso un tipo generico.[8]
Ricordare, ancora, che il filosofo spagnolo non aveva alcuna intenzione classista o antipopolare? Che la sua aspra critica non si esercitava contro i diseredati, gli svantaggiati, i lavoratori vittime delle condizioni stesse del lavoro, ma era diretta alla mentalità delle masse, che non ha confini sociali, geografici, religiosi, etnici o di razza? Potremo continuare con tanti altri esempi (basti pensare, per l’Italia, ai “minori” Bonghi e Mayorana) che non servirebbero ad altro se non a confermare l’esistenza di un costante atteggiamento che, con toni diversi e varie sfumature, accompagna lo stesso sviluppo della democrazia. Ma è impossibile non soffermarci, in conclusione, su alcune riflessioni di Hannah Arendt dalle quali emerge, a nostro avviso, con molta chiarezza l’origine “democratica” del totalitarismo moderno se, naturalmente, per democrazia non intendiamo il complesso giuridico-istituzionale che la identifica sul piano formale, ma quell’ indecifrabile tratto psicologico che caratterizza in alcuni momenti il sentire comune del popolo o almeno della maggioranza di esso.
Memore della lezione di Tocqueville la scrittrice descrive con estremo realismo i comportamenti delle “masse” nei regimi totalitari. La prima nota alla prima pagina dell’ormai classico Le origini del totalitarismo è, nella semplicità dello stile, agghiacciante quanto rivelativa:
Senza dubbio, il fatto che il regime totalitario, malgrado la sua aperta criminalità, si basi sull’appoggio della massa è molto inquietante. Non sorprende quindi che studiosi e uomini politici si rifiutino spesso di riconoscerlo, i primi credendo nella magia della propaganda e del lavaggio del cervello, i secondi semplicemente negandolo, come ha fatto ripetutamente, ad esempio, Adenauer. Una recente pubblicazione dei rapporti segreti redatti dal servizio di sicurezza delle SS sull’opinione pubblica tedesca durante la guerra, dal 1939 al 1944 (Meldungen aus dem Reich. Auswahl aus den Geheimen Lageberichten des Sicherheitsdienstes der SS 1939-1944, a cura di Heinz Boberach, Neuwied & Berlino 1965), è illuminante a tale riguardo. Essa mostra, anzitutto, che la popolazione era al corrente dei cosiddetti segreti (massacri degli ebrei in Polonia, preparazione dell’attacco contro la Russia ecc.), e, in secondo luogo, “fino a qual punto le vittime della propaganda avevano conservato la capacità di formulare giudizi indipendenti” (pp. XVIII-XIX). Comunque, ciò non indebolì assolutamente l’appoggio generale al regime hitleriano. E’ ovvio che l’appoggio dato dalle masse al totalitarismo non deriva né dall’ignoranza né dal lavaggio del cervello.[9]
Basterebbe, per il nostro discorso, questa osservazione suffragata dai fatti e ricordare che si discute della Germania, la patria di Kant e di Hegel e non di un sottosviluppato paese africano nel quale vige la legge tribale.
E’ impossibile dar conto in un breve pamphlet della ricchezza delle pagine della Arendt (e dell’ampia letteratura critica che in questi ultimi anni si è, finalmente sviluppata) certamente discutibili ma nel complesso illuminati e originali. Solo qualche passaggio può essere utile per confermare, se non altro sul piano psicologico, le sensazioni che si vivono, sgomenti, nei momenti di collettiva miseria morale e generale follia che la storia ciclicamente propone. Arguta e sottile la annotazione della Arendt circa l’atteggiamento della borghesia tedesca di fronte alla pesante ironia di Brecht:
Il tema, scrive la Arendt, cantato nel dramma Erst kommt das Fressen, dann Kommt die Moral [Prima vien la pappatoria, e poi viene la morale], venne accolto con frenetici applausi da tutti, benché per ragioni diverse. La plebe applaudiva perché prendeva l’affermazione alla lettera; la borghesia perché era stata così a lungo ingannata dalla sua stessa ipocrisia da essere stanca della tensione e da trovare una profonda saggezza nell’espressione della banalità con cui viveva; l’élite perché lo smascheramento dell’ipocrisia era un divertimento meraviglioso. L’effetto del dramma fu esattamente l’opposto di quello che si era prefisso Brecht. La borghesia non si scandalizzava più; vedeva di buon occhio la rivelazione della sua filosofia segreta, la cui popolarità ne confermava la giustezza. L’unico risultato politico della “rivoluzione” di Brecht fu quindi quello di incoraggiare tutti a lasciar cadere la scomoda maschera dell’ipocrisia e ad adottare apertamente i criteri di giudizio della plebe.[10]
Qualcosa di simile è accaduto in Italia con l’improvvisa rivelazione dell’esistenza di una destra plebea e di movimenti volgarmente egoistici come quelli reclamanti la secessione o la cancellazione dei tributi. Interessanti anche le pagine dedicate allo smarrimento delle masse moderne prive di riferimenti certi e sicuri (e qui ci si ricorda del Tocqueville convinto assertore dell’importanza della religione per evitare la degenerazione morale del popolo in regime di libertà).
Nulla forse distingue, scrive la Arendt, le masse moderne da quelle dei secoli precedenti come la mancanza di fede in un giudizio finale: i peggiori hanno perso la paura, e i migliori la speranza. Incapaci di vivere senza timore e speranza, queste masse sono attratte da ogni sforzo che sembra promettere un’instaurazione del paradiso sognato e dell’inferno temuto.[11]
Il totalitarismo, dunque, oltre a reggersi come è ovvio, su un terrificante sistema del terrore, può trovare un forte, decisivo ancoraggio nella volontà generale, nella maggioranza, nel popolo, nella democrazia degenerata. Il totalitarismo moderno, anzi, non solo trova conforti ma è spesso invocato, incoraggiato, promosso dal popolo, da quella che oggi più comunemente si denomina la gente.
Se oggi la democrazia corre un pericolo esso consiste nella sua stessa degenerazione in tirannia della maggioranza che è l’anticamera del totalitarismo. La democrazia non si può difendere favorendo la sua incontrollata espansione come una ampia e retorica letteratura ha in questi anni divulgato, ma si può difendere precisandone i limiti e i confini. Essa ha bisogno di essere regolata, non sembri un paradosso, dalla libertà intesa come forza regolatrice e non come anarchico libertinaggio, come principio morale, come kantiana idea regolativa dell’agire umano.
Se ciò che si è detto è appena verosimile, dobbiamo ritenere che l’attuale dramma del mondo occidentale consiste in questa doppia natura della democrazia: nell’essere la forma politico-istituzionale moderna in cui concretamente si attua la libertà e nel contenere in se stessa, e per sua natura, il germe del totalitarismo. In parole povere è realisticamente difficile immaginare, allo stato attuale un regime istituzionale e politico che garantisca la libertà del maggior numero meglio della democrazia; è altresì molto probabile che l’espansione incontrollata del potere del maggior numero sia alla base dei moderni totalitarismi, che assumano caratteristiche violente o indossino le vesti del populismo o del paternalismo. Nell’ Italia negli anni Novanta abbiamo, all’improvviso, sperimentato la pericolosità dell’opinione pubblica allorché, in un impeto irrazionale, prima col giustizialismo di sinistra poi col populismo di destra, in pochi anni si è corso il rischio di travolgere le mediazioni classiche dei sistemi politici liberaldemocratici, la storia stessa della civiltà liberale. Questo fenomeno (l’origine democratica del totalitarismo) è inispiegabile nei termini della fredda e asettica politologia contemporanea. Non riguarda, infatti, se non marginalmente, questioni di organizzazione dell’economia o di tecnica istituzionale. Investe, invece, la natura stessa dell’uomo. E’ forse comprensibile se si mettono in moto categorie nuove, o se si vuole antiche, circa la sostanza stessa dell’agire politico, circa la natura di quella cruda e verde vitalità che sembra ispirare e dominare l’uomo. Forza, peraltro, necessaria e senza la quale nulla accadrebbe se non nella immaginazione e nelle speranze degli uomini di buona volontà. Nel cristianesimo come in Hobbes, in Machiavelli come in Vico, in Hegel come in Marx, fino a Croce, ritorna sempre il dilemma circa il valore da conferire alla natura umana dialetticamente tesa fra il bene e il male, fra la bestialità e la divinità. E’ la sfida dei nostri tempi, del liberalismo non più “ottimista”, del socialismo (della sinistra in genere) non più legato alle vecchie filosofie della storia, costretti entrambi a ripensare i concetti di democrazia e libertà.
* Nicolai Hartmann, Ethik, 1926, p. 524 e segg.
[1] Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1992 pp. 257-259
[2] Alexis de Tocqueville, Op. cit., p. 731
[3] Alexis de Tocqueville, Op. cit., p. 732
[4] Alexis de Tocqueville, Op. cit., p. 734
[5] Alexis de Tocqueville, Op. cit., p. 735
[6] Benedetto Croce, La mia filosofia, Adelphi, Milano, 1993, p. 171
[7] Benedetto Croce, Op. cit., p. 178
[8] José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna, 1962, p.13
[9] Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Bompiani, Milano, 1977, p. V
[10] Hannah Arendt, Op. cit., p. 464
[11] Hannah Arendt, Op. cit., p. 611