Insegnanti e alunni non sono robot: misurazioni e prove Invalsi

Sono completamente d’accordo con Guido Trombetti, che ha difeso la qualità e il valore degli insegnanti e degli alunni meridionali a proposito delle prove INVALSI perché ha giustamente sottolineato la necessità di contestualizzare e storicizzare la condizione del sistema dell’istruzione in connessione con il sistema sociale dell’intero paese. In poche parole ha messo in dubbio, giustamente, la possibilità di applicare astrattamente dei criteri di valutazione, come se insegnanti e alunni fossero dei robot.

Ma, a mio modo di vedere, la situazione è ancora più grave, perché è il ragionamento stesso che sta alla base di indagini di questo tipo, che è in gran parte sbagliato ed è, infatti, messo in discussione anche nei paesi dove è nato ed è stato idolatrato. Pensiamo innanzitutto agli Stati Uniti d’America.

Ma scendiamo sul terreno concreto. A giovani di terza media, ossia di tredici anni, si “somministrano” (e, finché si userà questo termine nessuna scuola potrà mai ricostruirsi) prove che prevedono l’analisi testuale. Un brano di poche righe di un autore contemporaneo, ad esempio, nel quale si narra di un’amicizia infantile consumata nel tempo, durante la villeggiatura. Non si chiede agli alunni nessun giudizio, per così dire, interpretativo circa il valore estetico del testo, la sua dimensione storica, il suo eventuale impatto sociale o politico. Si chiede, ad esempio, con quale parola fra: concreta, robusta, stabile, reale, non è possibile sostituire l’aggettivo “solida” della riga 16 del testo.

Detto così può persino sembrare ridicolo, quasi una sorta di gioco enigmistico, questa volta in funzione della tortura dell’alunno e non di un piacevole passatempo.

In effetti una ratio c’è. Si tenta di testare la capacità dei ragazzi di orientarsi nella lingua e si vuole focalizzare l’attenzione di alunni e professori attorno ad un universo linguistico ormai troppo ristretto. Si saggia, anche, la prontezza, per dir così, del discente, un po’ come si fa con i marines per vedere se sono capaci di cavarsela in una situazione che, all’improvviso, si complica.

Ma quali sono i rischi gravissimi di una tale indagine?

Il primo è che, in realtà, con poche domande di questo tipo, con meno di un’ora di tempo, non è possibile valutare alcunché. Si dà il caso anzi che il ragazzo più intelligente, più complesso, forse anche più timido (la timidezza è il primo sintomo dello spirito critico e autocritico), venga sistematicamente penalizzato da questo tipo di prova, che misura i riflessi più che la maturità culturale.
In secondo luogo sarà più facile, in prospettiva, contrariamente a quanto si crede, “imbrogliare”, se vogliamo esprimerci così. Non è complicato suggerire dove mettere una crocetta, difficile invece dettare un intero tema, per di più corretto sul piano ortografico.

Ma ancor più grave è che i dirigenti scolastici e i docenti, che verranno indirettamente controllati attraverso le prove dei loro discenti, si adegueranno anch’essi allo spirito meramente quantitativo. In poche parole, anziché cercare di educare una classe a leggere Foscolo per la bellezza della sua poesia, l’espressività del linguaggio, la passione civile e politica che anima i suoi scritti, si preferirà assicurarsi l’esito positivo dell’esame con un apposito, meccanico, addestramento. Avremo scimmie delle muse altrui, per parafrasare Giordano Bruno, e se ci andrà bene.
Eppure, in Italia sembrava stesse cominciando ad avere successo la pedagogia di Edgar Morin. La pedagogia della complessità rispetto al riduzionismo o alla linearità di una presunta pedagogia scientifica. Che ne è di quella testa ben fatta che dovrebbe essere migliore di una testa ben piena, come sosteneva Montaigne ricordato da Morin?

Ovviamente non si vuol negare che l’aspetto riduzionista abbia la sua utilità. Ma solo se rimane uno degli aspetti, ossia se la prova quantitativa si affianca come una fra il grosso delle prove qualitative.

Si dirà che questo è lo spirito dell’iniziativa. Ma noi siamo sicuri, conoscendo il mondo della scuola e quello della società reale, che le prove INVALSI finiranno invece col diventare l’unica misurazione. Misurazione della più mortificante mediocrità, alla quale finirà col tendere tutto il sistema dell’istruzione.
Un’ultima questione, fra le tante altre di cui si dovrà discutere. Fra le domande compare anche quella, per così dire, interpretativa. Nel senso che vengono offerte alla scelta dell’alunno varie possibilità di identificare l’argomento di fondo del brano proposto. E chiunque sa bene che non c’è una sola possibilità interpretativa. Non esiste risposta esatta. E nemmeno la scelta fra un certo numero di opzioni perché, in sostanza, le scelte possibili sono infinite. Questo procedimento, se ben si riflette, lascia credere ad un giovane, soprattutto ad un giovane, che la possibilità di scegliere sia confinata una sorta di gabbia. Che, involontariamente, forse, si voglia suggerire che la libertà non esiste e che, se esiste, è tutto sommato un fastidio?
Ernesto Paolozzi

Da La Repubblica, 26 giugno 2010

Archivio Repubblica