Cenni sull’estetica postcrociana*
Sebbene Croce sia universalmente considerato il maggior filosofo italiano del Novecento e fra i maggiori in assoluto, sarebbe non dire il vero negare che la sua influenza nella seconda metà del secolo scorso sia andata sempre più affievolendosi, sempre più scemando. Così, e forse a maggior ragione, per la sua estetica, momento centrale e più popolare del suo intero pensiero.
Così come per la prima metà del secolo ricostruire l’itinerario culturale di Croce significa in gran parte ricostruire la storia stessa dell’Italia e dell’Europa, per la seconda metà rappresentare la decadenza crociana significherebbe ricostruire le intricate vicende della politica oltre che della cultura del nostro paese. Basterebbe sfogliare i manuali di storia della letteratura più diffusi negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, per rendersi conto di ciò che affermiamo. Da Mario Sansone a Giuseppe Petronio, passando per Natalino Sapegno, troveremo giudizi sintetici, ma chiari, sull’andamento della “fortuna” crociana in ambito estetico e, soprattutto, in quello della critica letteraria, strettamente connesso al primo.
Esemplare il caso di Natalino Sapegno, fra i nostri più grandi critici, teoreticamente tributario dell’estetica crociana ma formatosi anche alla scuola gobettiana e perciò, sul piano politico, rappresentante di un liberalismo radicale, o azionistico, per tanti aspetti lontano, se non avverso, a quello crociano. Scrive lo studioso piemontese nel suo Compendio si storia della letteratura del 1972: “Oggi contro l’eredità ammirevole, ma per certi versi sterile e perfino pericolosa, di Croce, e più contro il banale formulismo dei crociani osservanti, si tende a riprendere il filo piuttosto della nostra tradizione critico-letteraria romantica, richiamandosi soprattutto all’esempio desanctisiano.”
Questo giudizio apodittico può apparire, e certamente è, stridente rispetto a quello comunemente accertato e da noi stessi ribadito con qualche prova filologica, del Croce tributario di De Sanctis, suo costante difensore e divulgatore se non, per certi aspetti, scopritore.
A cosa dunque si può riferire l’affermazione di Sapegno? Non certo ad un ragionamento di tipo filosofico, perché sarebbe fin troppo facile, e perfino irriguardoso, dimostrare come, sul piano del legame filosofico, ossia sul terreno dei concetti rigorosi, dei ragionamenti, delle argomentazioni, opporre Croce a De Sanctis e viceversa risulta assurdo. La verità è che , e così entriamo nel pieno della nostra questione, l’utilizzazione di De Sanctis versus Croce fu un’utilizzazione etico-politica, poiché si volle vedere, negli anni del dopoguerra, nel critico irpino il propugnatore di una critica militante progressista, piena di storia politica e civile, e in Croce, al contrario, il sostenitore di una critica puramente stilistica o estetizzante.
Vero o falso che sia questo giudizio storico, a noi interessa qui collocarlo come spartiacque di una condizione generale dei nostri studi che indica, a sua volta, una precisa temperie politica, ossia l’egemonia, in quegli anni, dell’ideologia marxista o vicina al marxismo di cui Sapegno, non casualmente, fu esimio rappresentante.
Prendendo dunque come punto di riferimento questa constatazione, potremmo azzardare una duplice ipotesi di periodizzazione: la prima secondo criteri tutto sommato fattuali o testuali, la seconda incentrata sulla considerazione della maggiore o minore fortuna dell’estetica crociana.
Nei primi anni del dopoguerra, quelli che vanno dagli anni Cinquanta al Sessantotto, potremmo affermare con una certa sicurezza, che ciò che Sapegno definisce tendenza al ritorno a De Sanctis, si connota, in positivo, piuttosto come ritorno al marxismo, alla storiografia tendenzialmente economicistica e alla critica tendenzialmente contenutistica tipica di quella tradizione ideologica. Da un lato la scoperta di Gramsci, dei suoi Quaderni , dall’altro la scoperta, o riscoperta, della sociologia. Negli anni successivi (ma già evidentemente negli anni Sessanta), al marxismo e al sociologismo entrati lentamente in crisi, si andavano sostituendo nuove o vecchie “filosofie” le quali, sul piano dell’estetica, si connotavano, essenzialmente, per il loro comune antistoricismo ed anti-idealismo. Da un lato apparivano estetiche fondate sulla psicanalisi, fondamentalmente quella freudiana e in minima parte junghiana; dall’altro estetiche che erano, piuttosto, linguistiche di lontana ispirazione saussurriana e poi, com’era naturale dato il successo riscosso nella Parigi allora capitale della cultura o della moda culturale europea, l’esistenzialismo e la fenomenologia producevano anch’essi le loro filosofie dell’arte. In verità nessuno di questi modelli, se si fa eccezione per lo strutturalismo, comparso e scomparso rapidamente sulla scia della linguistica, era nuovo, nel senso che i riferimenti teorici di fondo sono tutti rintracciabili nella prima metà del Novecento ed anche negli anni precedenti l’estetica di Croce. Ma solo in quegli anni ebbero quella diffusione, quel favore di pubblico, che possono avvalorare una periodizzazione, per quanto è possibile procedere con simili astrazioni.
Per quanto riguarda invece la fortuna della filosofia crociana dell’arte, potremmo dire che fino agli anni Settanta l’intero pensiero di Croce, e soprattutto l’estetica e la critica letteraria, furono tenacemente avversate da gran parte della cultura italiana ma, proprio per questa intensa avversione, rimanevano al centro del dibattito, sia pure come punto di riferimento polemico.
In un secondo momento, fino agli inizi degli anni Novanta, alla polemica è andata sostituendosi una sorta di indifferenza, tanto da poter parlare di un passaggio dall’anticrocianesimo ad una sorta di a-crocianesimo. Fenomeno di ampia portata, perché ha investito l’intera tradizione culturale e la natura stessa del dibattito giacché non si è assistito ad un alternarsi più o meno congruo di sistemi filosofici o anche solo di mode e atteggiamenti ma al nascere di un sostanziale eclettismo filosofico. Così, negli anni ancora successivi fino ai nostri giorni, è nato un nuovo atteggiamento nei confronti della filosofia crociana: una maggiore attenzione, e certamente una generale considerazione favorevole ma parziale e settoriale, giusto, come prima si diceva, l’eclettismo dominante.
Ora sarebbe difficilissimo, oltre che probabilmente inutile, passare ad una mera elencazione di autori e titoli rappresentativi delle diverse tendenze, anche perché, se si fa eccezione di Antonio Gramsci, non è possibile individuare personalità di particolare rilevanza, nel senso della paradigmaticità della loro opera. Non servirebbe comunque a cogliere il senso delle critiche mosse a Croce e non si potrebbero cogliere, per converso, gli aspetti rilevanti delle nuove estetiche. E’ certamente più interessante cogliere i motivi di fondo che attraversano quelle critiche le quali, per altro, individuano così un punto preciso di attacco cogliendo il nucleo centrale dell’estetica crociana. E questo nucleo è rappresentato sicuramente dal concetto di autonomia dell’arte, attorno al quale ruota l’intera estetica crociana e, per tanti aspetti, l’intero pensiero del filosofo, fondato sulla logica dei distinti e sulla dialettica dell’opposizione, entrambe necessarie, secondo Croce, a spiegare la realtà.
Non è un caso che Luciano Anceschi, già fra il 1930 e il 1936, scriveva un volume dal titolo emblematico: Autonomia ed eteronomia dell’arte, ristampato del 1976. La provenienza banfiana e fondamentalmente fenomenologica dello studioso conduceva a concepire la critica e l’estetica come una sorta di descrizione del fenomeno estetico e dell’intrecciarsi continuo dei concetti di autonomia e di eteronomia. Ma non vi è dubbio che la riproposizione della posizione fenomenologica non ebbe immediato successo e solo in seguito si diffuse, soprattutto fra gli specialisti.
Maggiore fortuna ebbe, come è evidente, l’estetica marxista la quale ripropose ancora con forza la questione del contenuto, ossia del rapporto fra arte e società e della dipendenza della prima dalla seconda. L’arte, con le sue forme, vestiva, o travestiva il contenuto sociale, morale, etico-politico costituito dagli umori sociali di una data epoca.
Veniva così rimesso in discussione non solo il concetto di autonomia dell’arte, ma anche l’universalità dell’arte perché, come è ovvio, ciò che dipende da qualcosa di altro da sé non è né autonomo né universale, giacché, per converso, se un’attività è universale, essa è distinta e, dunque, autonoma.
Nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, portati all’attenzione del pubblico italiano non senza suscitare qualche perplessità di accertamento filologico, si rinveniva l’esigenza, chiara ed evidente, di ripristinare un’estetica del contenuto, e in questo caso del contenuto socio-economico, ma non meno l’esigenza forte e sentita di non gettare alle ortiche l’intuizione crociana, dal pensatore sardo considerata momento alto, punto culminante dell’intera tradizione filosofica europea. Se bisognava “calare” il più possibile l’arte nella storia (da qui il richiamo di Sapegno al De Sanctis storico della letteratura) era anche necessario preservare l’autonomia dell’esperienza artistica. Scrive chiaramente Gramsci riproponendo una questione che aveva già travagliato gli stessi Marx ed Engels nella Prefazione a Per una critica dell’economia politica: “Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l’altro un semplice untorello. Esaurire la questione limitandosi a descrivere ciò che i due rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumendo più o meno bene, le caratteristiche di un determinato momento storico sociale, significa non sfiorare neppure il problema artistico. Tutto ciò può essere utile e necessario anzi lo è certamente ma è in un altro campo: in quello della critica politica, della critica del costume, nella lotta per distruggere e superare certe correnti di sentimenti e credenze, certi atteggiamenti verso la vita e il mondo; non è critica e storia dell’arte e non può essere presentata come tale pena il conformismo e l’arretramento ola stagnazione dei concetti scientifici, cioè appunto il non conseguimento dei fini inerenti alla lotta culturale.” (1)
L’impostazione del fondatore del partito comunista, pur se discutibile sul terreno squisitamente teoretico (la contraddizione infatti, era soltanto palesata ma non risolta), non fu seguita con lo stesso travaglio speculativo nel dibattito successivo. Eppure, come si è detto, già Marx ed Engels avevano piena consapevolezza del problema dell’autonomia dell’arte, fino al punto da ricorrere all’affermazione secondo la quale la struttura economica (il contenuto) influenzerebbe le sovrastrutture ideologiche, tra cui la stessa arte, non immediatamente ma solo in ultima istanza. D’altro canto, è ancora Gramsci a tornare sulla questione capitale con acume, a proposito della lettura del X canto dell’Inferno, il canto di Farinata, argomentando che non sarebbe possibile intendere la poesia di quel canto se non si tenesse presente la struttura interna al canto stesso, che è quella costituita dal contrasto evidente fra l’altera figura di Farinata e quella, affranta ed avvilita, di Cavalcante. In questa constatazione gramsciana, che sembra presagire i posteriori studi stilistici e perfino strutturalistici, avviene un evidente spostamento di senso rispetto alla concezione marxista perché non è più la struttura economico-sociale a fornire il contenuto della forma artistica, ma una struttura che, a ben vedere, è la stessa rappresentazione dell’arte, perché è evidente che Croce, come De Sanctis o altri filosofi di quella tradizione, non pensavano ad una forma intesa come puro ed elementare espressionismo, bensì come quella coerenza interna al sentimento, in questo caso drammatico, che rende viva e forte la rappresentazione artistica.
Ma, quasi che Gramsci avesse sentore che sul terreno della pura filosofia dell’arte non ci si potesse distaccare troppo da quel Croce che egli sicuramente criticava e intendeva superare ma che profondamente stimava ed ammirava, come in tante occasioni ebbe a ribadire, in molte sue pagine la tematica si sposta e il ragionamento trapassa da questione puramente filosofica a questione, potremmo dire, sociologica. Accanto ad una critica estetica si può comporre una storia politica dell’arte, se non una Kulturgeschichte dal punto di vista della “fruizione” da parte del pubblico. A questo punto il valore estetico di un’opera non ha più interesse, perché la domanda che gli studiosi devono porsi è quella del perché una data opera, bella o brutta che sia, riuscita o meno riuscita, in un dato momento storico abbia riscosso un certo successo, e come quell’opera abbia influenzato il gusto di un’epoca e, per tanti aspetti, anche la vita etico-politica di un popolo.
E’ forse l’origine, questa, dell’altra grande corrente di pensiero nata in opposizione a Croce, la cosiddetta sociologia dell’arte e della letteratura. In verità, oggi che possiamo affrontare la problematica con maggiore distacco, una vera e propria opposizione di fondo tra l’estetica crociana e la sociologia non è così drammatica, forse nemmeno rilevante. Si tratta di due metodologie parallele le quali, anzi, possono e devono confluire perché l’una può servire all’altra e viceversa. Lo stesso Croce ha tante volte, inconsapevolmente, scritto pagine di alta sociologia dell’arte o di storia etico-politica incentrata attorno a questioni estetiche. Basterebbe rileggere le note pagine sul Romanticismo della Storia d’Europa o anche quelle della Storia d’Italia sulle condizioni di crisi dello Stato liberale. L’opposizione al dannunzianesimo, al decadentismo e allo stesso futurismo fu senz’altro dettata da motivi di gusto, di critica estetica, ma anche da una sostanziale avversione morale e politica e non è da escludere che alcuni motivi di quei movimenti e proprio del futurismo (si pensi all’attacco alla retorica, all’accademismo, al passatismo) che avrebbero potuto vedere Croce consenziente sul piano estetico, incontrarono invece la sua più tenace opposizione proprio sul terreno politico. Un Croce, insomma, scivolato insensibilmente in una forma di contenutismo estetico. E’ probabile, naturalmente, che l’opposizione crociana invece fosse comunque ben radicata nella sua teoria generale e, forse, ciò che veramente caratterizzò la polemica aspra di quegli anni furono i toni eccessivamente aspri, quelli sì certamente dettati da preoccupazioni etico-politiche.
Ma, tornando al nostro problema, non vi è dubbio che le tante sociologie dell’arte apparse in quegli anni nascevano invece in polemica con la filosofia crociana. Si diffondevano indagini di varia natura, talvolta empiriche, talvolta puramente letterarie, sull’influenza delle opere d’arte sulla struttura sociale di un’epoca e così, di conseguenza, trovavano nuovo diritto di cittadinanza le teorie dei generi (2), della divisione delle arti e tutto il vecchio armamentario retorico che De Sanctis e Croce avevano collocato in soffitta. Il genere, che non ha valore estetico, proprio perché è una generalizzazione ha valore sociologico: il successo o l’abbandono di un certo genere letterario può dirla lunga sulla formazione ideologica di un popolo, di una classe, di un gruppo sociale, ma non ha valore estetico in senso proprio. Sarebbe una profonda ingiustizia, nei confronti di un artista, giudicare la sua opera secondo la minore o maggiore aderenza ai criteri astratti di un genere.
Le sociologie si presentarono in varie forme, talvolta molto distanti tra loro. A pretese di utilizzare lo studio della letteratura per determinare giudizi etici e politici, talvolta anche molto severi, si opposero pretese di descrivere in maniera imparziale, scientifica, oggettiva, l’andamento storico-sociale del gusto estetico. Ad una sociologia fortemente radicata nell’ideologia, dunque, si opponeva quella che i marxisti ortodossi denominavano sociologia borghese.
Più rilevante, sul piano della teoria filosofica, fu l’ingresso in Italia dell’estetica di Gyorgy Lukacs. Bisogna dire, per il lettore contemporaneo, che il pensiero del grande filosofo ungherese, ma di tradizione e cultura tedesca, era molto più ampio e complesso di quanto non sembrò negli anni della sua diffusione italiana. Basterebbe pensare, ad esempio, che i suoi scritti giovanili, La filosofia dell’arte e L’estetica di Heidelberg, non fecero, se così possiamo esprimerci, moda o tendenza, e così pure i suoi ultimi volumi di filosofia e di filosofia dell’arte (3). Il Lukacs che circolò ed influenzò la cultura letteraria italiana fu essenzialmente quello della fase marxista, sostenitore del realismo estetico, certamente non rozzo come il realismo socialista della cultura ufficiale sovietica. Realismo, in questa accezione, non stava a significare né il verismo di tipo verghiano né il realismo propagandistico ed ottimista del regime comunista, bensì il tentativo, da parte dell’artista, di cogliere il tipico, il particolare di una data epoca, ossia la tendenza fondamentale degli umori, delle opinioni, delle idee, dei comportamenti, in ultima analisi dello sviluppo economico e politico di un dato momento storico. La prospettiva che cercava di fondere un residuo hegeliano con una prospettiva marxista degna di attenzione ma certamente arretrata rispetto al pensiero italiano e, per certi aspetti, rispetto allo stesso Gramsci, anche se quella di Lukacs si inseriva in un progetto sistematico più ampio e, come si è detto, di stampo hegeliano.
Se non cronologicamente, sicuramente sul piano ideale è possibile collocare l’avvento del cosiddetto strutturalismo linguistico e delle estetiche, o meglio critiche, neostilistiche che ebbero un certo successo fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. E’ difficile discernere con chiarezza i confini che delimitano queste esperienze culturali da quella neomarxista o anche, perfino, da quelle di origine psicanalitica che, pure, sembrano essere tanto lontane fra loro. Da un punto di vista squisitamente teoretico, le distanze potrebbero apparire perfino siderali, se non per qualche giustapposizione operata non senza molte forzature e arbitrii. La difficoltà di individuare limiti e confini nasce per un motivo storico preciso, non facilmente comprensibile se non si cerca di comprendere il senso profondo di quella particolare connessione o congiuntura di avvenimenti politici, economici, sociali, che attraversarono l’intero mondo dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta. Il decennio che ruota attorno alla fatidica e ormai simbolica data del Sessantotto e, in Europa, del maggio parigino di quello stesso anno, è esso stesso il limite, il confine fra epoche diverse, per cui ciò che all’interno di quella temperie era sicuramente vario e diverso, appariva, e sostanzialmente era, unificato da un’ideologia complessiva, che era quella tendente a sbarazzarsi completamente, definitivamente, del recente passato. Gli anni che furono felicemente definiti della contestazione globale o della rivolta generazionale, in cui venivano messi in discussione i capisaldi e le fondamenta stesse della nostra civiltà, che veniva sprezzantemente definita borghese. Questa stessa definizione mostra come fosse in realtà l’ideologia marxista a dettare contenuti e toni di quel movimento contestatario. Ma è anche evidente che in quella particolare condizione di rivolta contro il passato, tutto ciò che poteva apparire nuovo, originale, veniva in qualche modo assunto, ma anche snaturato, sotto l’egida della comune parola d’ordine rivoluzionaria. Cosicché non fu solo Croce il bersaglio polemico di quella generazione. Certamente il filosofo napoletano finiva col diventare, in ambito strettamente filosofico e per quanto riguarda la critica letteraria allora ancora molto esercitata e appassionata, simbolicamente quasi la vittima designata, anche perché, per la chiarezza e coerenza delle sue posizioni, poco si prestava ad essere riletto o reinterpretato secondo i nuovi canoni ermeneutica, vorremmo dire la nuova psicologia di massa. (Pirandello, Nietzsche, etc furono accolti, Croce no) Ma sul banco degli imputati salivano anche i Dante e i Manzoni, il cui romanzo fu definito da un noto critico dell’epoca un “romanzetto borghese”.
Come che sia, di questa vicenda che meriterebbe naturalmente un’interpretazione molto più ampia, rimane il fatto che si creò una cesura netta con la nostra tradizione culturale quale nemmeno i futuristi a destra o i gramsciani a sinistra avrebbero mai pensato si potesse realizzare.
A noi tocca, però, in questa sede, e in una prospettiva che privilegia gli aspetti teoretici delle questioni senza mai dimenticare la viva e operante passione politica, cercare di cogliere il punto di vista squisitamente estetico della vicenda. E così, accanto alle analisi sociologiche, contenutistiche o neorealistiche, si affiancarono quelle linguistiche, tendenti ad individuare, nell’opera d’arte, una struttura interna che ne giustificasse la coerenza o, quantomeno, ne descrivesse “scientificamente” la struttura. Il concetto di struttura si distingueva, naturalmente, da quello di significato marxista che, come è noto, rimandava alla base economica della società. Ma di esso voleva conservare, in una forma di neoeclettismo mai logicamente superato, il significato “materiale”, anti-idealista, anticreativo, antiromantico, come si diceva all’epoca.
Sul piano linguistico, le fonti dei neostrutturalisti furono i formalisti russi, per certi aspetti i gestalisti e, soprattutto, il De Saussure, autore dell’incompiuto Corso di linguistica generale che sembrò fornire la base teorica fondamentale di quel movimento culturale. Anche autori di origine crociana, come Vossler e lo stesso Spitzer, che con Croce aveva avuto rapporti contrastati ma di reciproca stima, entrarono, in qualche modo, a far parte di quel mondo culturale, che si definì anche critica stilistica. E qui, con l’ausilio di questi autori, possiamo avvicinarci al problema teorico fondamentale, che sarà poi alla base della decadenza dell’intero movimento. Quali sono i rapporti fra analisi linguistica e analisi estetica? Le due posizioni si elidono o si compenetrano? Nel 1926 Leo Spitzer scriveva: ” Contro il separatismo fra l’attività naturalistica dei linguisti e umanistica degli studiosi di letteratura, già da molto tempo si combatte; il più efficace in questo senso fra i romanisti tedeschi è Vossler, il quale, intendendo con Croce il linguaggio più come espressione che come comunicazione, e ravvicinando il linguaggio all’estetica, ha sempre propugnato la spiegazione di un poeta attraverso il suo ambiente linguistico, almeno altrettanto importante quanto l’ambiente biografico. Egli accentua quindi, in teoria, il lato della parola e dell’arte della parola, cioè della stilistica, della filologia.” (4)
Negli anni Sessanta, che sono gli anni oggetto dei nostri studi, si affermò definitivamente la corrente linguistica, favorita in ciò da un più generale clima di ritorno allo scientifismo o al positivismo che, come si è detto, andava affiancandosi al neomarxismo in crisi e alla stagione, euforica ma destinata a inaridirsi presto, dell’esistenzialismo francese. Si combatté un’aspra battaglia contro il cosiddetto giudizio di valore che, nei termini crociani, si sarebbe definito il giudizio estetico o storico-estetico. L’opera d’arte, fosse essa un romanzo o una poesia, e con l’avvento di semiotica e semiologia anche le opere d’arte figurative e musicali, venivano trattate con oggettività, o presunta oggettività, ed analizzate secondo schemi e formule più o meno brillanti. Ciò che interessava era l’analisi del segno. Si riaprì, addirittura, una lunga discussione attorno al rapporto fra significato e significante, come a dire attorno all’antica questione del rapporto fra contenuto e forma che la filosofia moderna e contemporanea aveva affrontato e risolto.
Come uno studioso acuto e onesto dello strutturalismo, il Lepschy, ammise (5) il problema di fondo che determinò una crisi forse radicale dello strutturalismo e della linguistica in generale fu proprio quello del tentativo di eliminare il cosiddetto giudizio di valore. Un tale giudizio, infatti, è quello che identifica un’opera d’arte in quanto tale, ossia la distingue da ciò che non è arte. Una volta eliminatolo, non essendo più possibile identificare l’oggetto della propria indagine, l’indagine stessa viene a mancare. In parole più chiare e semplici, perché indagare una poesia di Montale o di Foscolo e non una qualunque espressione, politica, scientifica, retorica, di un loro contemporaneo? In base a quale criterio il critico linguista sceglie un’opera per la sua ricerca? Una volta abolito il giudizio di valore, bisognava ammettere che l’unico criterio era quello di affidarsi alla tradizione, alla storia, al giudizio di valore che quella tradizione ci aveva tramandato, per cui una poesia di Montale era da preferire alla Vispa Teresa o ad un calcolo matematico. Inoltre, quand’anche avessimo accolto il criterio, abbastanza povero e deludente, certamente poco rivoluzionario, dell’affidarsi alla tradizione, a cosa sarebbe servita una sia pure acuta e faticosa analisi di un testo, se non per dare un giudizio critico? E il giudizio critico è sempre un giudizio di valore.
Lo strutturalismo dunque, con gli anni, sembrò ritirarsi di nuovo sul suo terreno specifico che è quello, appunto, dell’analisi strutturale, che sembrava potersi sostituire alla vecchia analisi filologica la quale, di per sé, non era né bene né male, ma serviva da strumento a quell’ulteriore giudizio, che è il giudizio estetico, di cui solo il critico, e il pubblico, si interessano.
Senza poterci soffermare ancora su casi specifici ed intrattenerci troppo a lungo su autori ed opere ormai escluse dall’attuale dibattito, possiamo però con sicurezza affermare che, mano a mano che ci si allontanava dalla scomparsa di Croce, la sua fortuna incontrava una nuova fase. Dalla critica, anche aspra e forte, si passava ad una sostanziale estraneità, ad una sostanziale indifferenza. Tutto ciò che si è sommariamente descritto, sembrava congiurare all’accantonamento delle teorie crociane, per cui potremmo coniare la formula secondo la quale dall’anticrocianesimo militante degli anni Cinquanta e Sessanta, si passò ad un a-crocianesimo negli anni Settanta e Ottanta. Ci sembrerebbe addirittura ovvio precisare che, naturalmente, sempre in quegli anni, in Italia come nel resto del mondo, la filosofia di Croce e l’estetica in particolare furono studiate ed anche criticamente vagliate e approfondite da numerosi studiosi di diversa formazione. L’estetica di Croce fu al centro di serrati e acuti dibattiti anche in ambiti specialistici. Francesco Flora, Mario Fubini e tanti altri letterati approfondirono tematiche particolari e Alfredo Parente e Carlo Ludovico Ragghianti, per non ricordare che i più illustri, misero alla prova i concetti fondamentali di Croce con le più urgenti tematiche della critica musicale e della critica d’arte (6). Attirò l’attenzione soprattutto l’ultimo Croce, le sue pagine sulla dialettica piacere-dolore come fondamento della vita tutta e dell’arte in particolare in quanto essa rappresenterebbe in infiniti modi sempre quella dialettica fondamentale che può dividersi, naturalmente, in innumerevoli coppie psicologiche di stati d’animo (7).
Ma dal nostro punto di vista bisognava mettere in luce come l’andamento generale della cultura italiana ed europea si orientasse verso direzioni sostanzialmente diverse, secondo la periodizzazioni appena abbozzata ma fondamentalmente vera.
Nell’ultimo decennio è difficile poter segnare un punto di vista dominante o anche un dibattito di particolare rilevo che abbia segnato questi anni. Sopravvivono, in qualche modo, le vecchie scuole e, a fianco ad esse, si collocano, come è naturale che sia, le grandi tradizioni del pensiero novecentesco. La stessa estetica crociana non è più oggetto, come si è detto, di critiche particolarmente polemiche ma è tornata ad essere studiata e, sia pure raramente, utilizzata dalla critica. Scuola fenomenologica, estetiche esistenzialiste, sociologiche o anche, ancora, psicologistiche, s’incontrano e talvolta si fondono essenzialmente in ambito accademico. Diversa è la sorte della critica, letteraria, artistica, cinematografica, musicale,la quale sconta, ed anche questo è naturale, la mancanza di riferimenti filosofici. In un’epoca nella quale anche sul piano politico i punti di riferimento che hanno ispirato, nel bene come nel male, il Novecento sono venuti a mancare, l’assenza di un dibattito filosofico teso a discutere e a fondare valori forti non può che non produrre un generale eclettismo. Eclettismo che attraversa le scuole e le correnti e gli stessi studiosi che, con difficoltà, riescono ad esprimere un punto di vista chiaramente identificabile. La sostanziale scomparsa della critica militante, di quell’esercizio fondamentale che è in certo qual modo anche un esercizio politico in senso alto, un elemento essenziale di quella che potremmo definire la democrazia delle lettere, segna quest’epoca lasciando spazio ad una certa nostalgia dei dibattiti e delle discussioni vere.
Ma noi non amiamo identificare le epoche secondo il facile criterio della decadenza o del progresso. E, d’altro canto, è troppo presto per dare un giudizio così sicuro e definito sulla nostra epoca. A voler trovare, ad esempio, come si deve, del positivo, bisogna senz’altro affermare che se mancano la profondità e la passione, certamente la quantità dei lettori (anche se ciò può apparire strano) è largamente superiore a quella di soli trent’anni fa. La stessa produzione artistica è ricchissima ed è anzi questo uno dei motivi non secondari di crisi della critica, che non riesce ad identificare, in una così vasta produzione, quelli che un tempo si sarebbero denominati capolavori o, almeno, opere di tale importanza da lasciare il segno nella tradizione culturale di un paese. Sembra che tutto si consumi in poco tempo, che nessun autore possa veramente affermarsi se non per pochi anni o pochi mesi, come accade ad attori o a grandi sportivi. Certamente tutto ciò provoca smarrimento e sconcerto. L’eclettismo, in sé e per sé, non è mai elemento positivo perché non va confuso con il pluralismo, che è altra cosa. Il primo è una sorta di confusa e talvolta opportunistica giustapposizione di idee, concetti, gusti; il secondo rappresenta, al contrario, la forte, vivace, gara, creativa, polemica, sentita, che ogni società deve esprimere.
Note
1) A.Gramsci, Quaderni del carcere, , Einaudi, Torino 1975, pag 2187
2) Per quanto riguarda la questione in termini strettamente crociati, l’interpretazione più congrua del pensiero del filosofo è quella di Mario Fubini in Critica e poesia, Laterza, Bari, 1966 (1956).
3) Si confronti Janos Kelemen, Croce e Lukacs tra il 1900 e il 1920 in Atti del IV convegno interuniversitario dei docenti di lingua e letteratura ungherese, convegno tenutosi a Torino nell’ottobre del 1979.
4) Leo Spitzer, Critica stilistica e semantica storica, Laterza, Bari, 1975, p.26.
5) Si confrontino di G.C. Lepschy, La linguistica strutturale, Einaudi, Torino, 1979 e Mutamenti di prospettiva nella linguistica, Il Mulino, Bologna, 1981.
6) Si confrontino almeno A. Parente, La musica e le arti, EDA, Torino, 1982 (1936) e Croce per lumi sparsi, La Nuova Italia, Firenze, 1975 e C.L.Raggianti, Arti della visione, Einaudi, Torino, 1979.
7) Si confronti A.Parente, La terza scoperta dell’estetica crociana, in Croce per lumi…, cit
Ernesto Paolozzi
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