Liberismo compassionevole. Lo scippo dell’Ansaldo, una questione di falsi ideali.

Non c’è nulla di più potente delle etichette: si può essere il più grande scrittore del Novecento ma, se il biglietto da visita non è zeppo di qualifiche di vario tipo, si può sperare solo in un riconoscimento postumo. L’abito fa il monaco, e lo fa anche in filosofia, in economia, in politologia. E’ difficilissimo, se non impossibile, distaccarsi dalle etichette di liberale, liberista, statalista, interventista, e così via. E’ un male necessario, comprensibile sul piano psicologico ed anche sul piano utilitario, serve a sentirsi in una squadra, in una famiglia, in un gruppo, a collocarsi nella storia. Serve a scrivere articoli, libri, tenere conferenze, e così via.

Com’è naturale, però, le etichette sono destinate ad infrangersi al cospetto della realtà e a disturbare, fino a renderla drammaticamente travagliata, la nostra coscienza.

In questi soli pochi giorni stiamo assistendo, attoniti, ad una rincorsa verso il solidarismo da parte dei più diversi soggetti politici ed economici, fatta eccezione per la Confindustria italiana. Il tavolo ha girato, ed anche vorticosamente.

Il conservatore e liberista Bush ha introdotto nella sua campagna elettorale il concetto di conservatorismo e liberismo compassionevoli. Cosìcché il suo contendente, il liberaldemocratico Al Gore, il cui partito in otto anni non è riuscito a modificare l’atroce e ingiusto sistema sanitario privato, ha dovuto affannarsi a ripescare la tradizione ultrademocratica, sconfinante nel socialismo, del suo gruppo.

In Italia un arguto e documentato fondo del “Corriere della sera” ha mostrato come, nelle concrete azioni politiche, l’ultraliberista Forza Italia ha quasi sempre osteggiato, nei fatti, le riforme liberali proposte in Parlamento. Alla debole replica dell’economista forzista, Marzano, ha fatto seguito, quasi ad involontaria conferma delle critiche ricevute, un intervento di Berlusconi in prima persona, il quale, proponendo sì una maggiore libertà di licenziamento, ha altresì proposto che i licenziati debbano continuare a percepire lo stesso lo stipendio per almeno tre anni.

Una misura di assistenzialismo pura, la quale potrebbe provocare, tra l’altro, catene di falsi licenziamenti e di false assunzioni. Nel miglior stile dell’Italia spendacciona. Non solo. Ma l’intero Polo si affanna a dimostrare che ai più poveri, che al Sud, che agli svantaggiati, penserà la destra molto meglio della sinistra.

Gli amici della rivista “Liberal” annunciano un numero speciale dedicato al liberalismo solidaristico, al ritorno, essi dicono, al liberalismo degli anni Cinquanta, quello di De Gasperi, per intenderci, che non era arrambante e yuppista come quello degli anni Ottanta.

All’Internazionale liberale di Pisa sentii io stesso dire, nella convivialità di un pranzo, a Giovanni Malagodi, che si era sempre opposto all’entrata dei conservatori nell’Internazionale, che la signora Tatcher conosceva il prezzo di tutto, ma il valore di niente e avrebbe desertificato la civiltà inglese.

Oggi, invece, l’amico Umberto Ranieri difende la dislocazione dell’Ansaldo in nome della globalizzazione e della liberalizzazione dei mercati. A contrastare questo disegno interviene Giuseppe Ossorio che, a differenza di Ranieri, non proviene dalla tradizione socialista ma da quella democratica e liberale di Francesco Compagna. E’ il governo di sinistra dell’Ulivo che ha avviato una riforma antistatalista della scuola di portata gigantesca, se mai fosse attuata come non sarà.

Sono dunque saltate tutte le etichette? E’ probabile, perché anche nell’economia si giudica in base a fatti concreti e non ad astrazioni politologiche. Si giudica secondo sensibilità morali e propensioni ideali, non secondo formule geometriche.

Difendere l’Ansaldo, a mio avviso, è anche dovere politico e culturale.

Cosa direbbero i torinesi se, per convenienza, la FIAT si dislocasse a Parma, e cosa diremmo noi italiani se, in nome delle leggi del mercato le televisioni di Berlusconi fossero vendute a uno straniero? Berlusconiani ed antiberlusconiani, ce ne preoccuperemmo tutti. Perché solo per Napoli questo sentimento non deve valere? Tanto più che non esistono scuole economiche.

Un giorno chiesero ad Einaudi a quale scuola di economia appartenesse. E lui rispose che esistono solo due tipi di economisti, quelli che conoscono l’economia e quelli che non la conoscono.

Ernesto Paolozzi

Dal “Corriere economia” del 9 ottobre 2000