Napoletani vil razza dannata.

Raffaele La Capria ha trovato l’aggettivo giusto per qualificare lo stato d’animo della nostra città in questo momento: “Napoli è una città risentita”, ha scritto.

E forse potremmo riferirci al giovane Dostojevskj per rubargli un titolo famoso: Napoli si sente umiliata e offesa, dove l’offesa riscatta, in termini di dignità, l’umiliazione.

In un primo momento, infatti, il caso dell’immondizia era stato accolto dai napoletani con rabbia e ira e, nella maggior parte dei casi, i napoletani avevano manifestato il loro stato d’animo nei confronti della classe politica e dei suoi esponenti più in vista. Accanto a tale risentimento politico, un po’ qualunquista e un po’ giustificato, si è andato lentamente diffondendo un sentimento antropologico, di condanna, anch’essa un po’ qualunquista e un po’ giustificata, del napoletano come tipo umano, come responsabile dei suoi mali per antica ed esercitata tradizione. Insomma, è riapparso ed è stato accolto il vecchio stereotipo del paradiso abitato da diavoli. E i diavoli erano un po’ gli abitanti della città plebea, un po’ la classe dirigente che essi stessi avevano scelto e premiato negli anni.

Ma, poco alla volta, anche questi sentimenti, iniziali ed istintivi, sono andati mutando ed è subentrato quel sentimento più largo e diffuso di chi si sente colpito molto oltre i suoi peccati e le sue responsabilità, per motivi e congiunzioni storiche troppo più grandi della volontà dei singoli e perfino della responsabilità dei governanti.

La città si sente sotto schiaffo, come abbiamo detto umiliata e offesa appunto, dall’Italia tutta, dal mondo intero.

Soprattutto si sente indifesa o, meglio, impossibilitata a difendersi, come se fosse attaccata da un nemico troppo più forte, meglio armato, in una parola invincibile.

Perché è accaduto questo, e che motivi si possono rintracciare per approdare ad una ragionevole spiegazione della nuova, amara, condizione psicologica? E si può, da tale condizione, ripartire per costruire prospettive migliori?

Si è avuta la netta sensazione che il pur grave fenomeno dell’invasione dell’immondizia sia stato profondamente esagerato, fino a raggiungere momenti di vero e proprio parossismo mediatico, di ossessione collettiva. E questo è accaduto per motivi precisi, non casuali. E’ accaduto perché l’opposizione politica ha ritenuto di utilizzare la vicenda ben oltre i limiti della normale lotta politica, portando addirittura la questione a livello nazionale e mondiale, facendone, per un certo momento, il centro stesso della campagna elettorale. Perché larghi settori della maggioranza di governo hanno sentito il dovere di prendere le distanze dal loro stesso governo, e di tirarsi fuori dalla tragedia della città. Perché i mass media non hanno risparmiato nulla alla nostra città ed hanno tenuto, e ancora tengono, in primo piano la questione immondizia come non è accaduto per nessun altro avvenimento o fenomeno sia pure gravissimo accaduto altrove.

Ad un certo punto, dall’attacco ad una classe politica o ad una classe dirigente si è, surrettiziamente o di fatto, passati alla scientifica e vorace demolizione di un’intera economia regionale, della cultura e dell’antropologia stessa della città di Napoli e della regione Campania.

Ciò senza che si potesse reagire, un po’ perché tanto fumo traeva origine dalla presenza innegabile di un fuoco, ma anche perché non si possiedono strumenti politici e propagandistici per potere, in qualche modo, reagire, chiarire la questione, ridimensionarla riconducendola alla sua vera, pur grave, natura.

Si è avvertito, perché non dirlo, un’assenza quasi totale di solidarietà.

Anzi, diciamo la verità, si è avvertita una sorta di compiacimento da parte di chi poteva finalmente esibire la prova empirica del vecchio stereotipo del paradiso abitato da diavoli: “I napoletani hanno quel che si meritano e si tengano la loro immonda spazzatura”.

D’altro canto, e qualche volta abbiamo provato a dirlo, tutto quanto accade a Napoli è rappresentato con esagerazione e più che generosa ridondanza. Lo scippo di un Rolex a Napoli vale la prima pagina di quotidiani e telegiornali, mentre l’oggettiva invivibilità di tante metropoli italiane ed europee al calar del sole è relegata nei documentari notturni, nelle riflessioni sociologiche che nessuno legge e pochi commentano.

Lo sottolineiamo naturalmente, non perché mal comune è mezzo gaudio, ma perché il dato più crudo e sconcertante dell’intera vicenda è l’aver amaramente dovuto constatare quasi un’euforia di fronte alle nostre disgrazie, sulle quali in troppi hanno goduto a pontificare senza che mai sia affiorato un sentimento di solidarietà, di vera amicizia.
Sono questi i motivi che si direbbero prossimi. Ciò che è difficile stabilire è quali siano le ragioni remote e profonde che da tanti anni relegano la nostra città in questo immaginario collettivo che sembra, come tutti i grandi pregiudizi, invincibile, indistruttibile.

Ciò conduce, alla lunga, anche alla totale inazione, perché ognuno avverte che qualsiasi cosa venga fatta per migliorare le condizioni della vita civile di Napoli, non produrrà nessun effetto, perché nessuno è disposto a riconoscerne il valore, grande o piccolo che sia. Di più. Sembra quasi che il resto del mondo si indispettisca di fronte ad ogni tentativo volto in tal senso, come se si volesse che la nostra città e i suoi abitanti non osino ribellarsi al loro verghiano destino di vinti.

E’ una condizione forse unica, almeno in Europa, e sarebbe molto interessante se studiosi e uomini di cultura si interrogassero su tale singolarità.

I cittadini napoletani, per chiudere rispondendo al secondo interrogativo che ci siamo posti, ossia sul “che fare?”, potrebbero forse ritrovare un orgoglio perduto da sostituire alla risentita e comprensibile rassegnazione. A cominciare dalla vita quotidiana. Ma senza rinunciare alla difesa, non retorica e non campanilistica, della nostra città, della sua tradizione, delle sue capacità creative e innovative. Senza offendere nessuno, ma reagendo, con dignità, alle superficiali, o volgari, offese altrui, con la consapevolezza che un nostro vizio capitale, quello di lamentarci spesso e volentieri, in alcuni momenti si tramuta nella nostra definitiva, inappellabile, condanna.

Ernesto Paolozzi

da “La Repubblica – Napoli” del 10 aprile 2008                                                                                                                                      Repubblica archivio