Recensione a “L’Estetica di Benedetto Croce” di Ernesto Paolozzi per la rivista Diacritica

di Maria Panetta

Estetica di Benedetto Croce

Con la nuova edizione dell’Estetica di Benedetto Croce Paolozzi ritorna su uno dei campi d’indagine dei quali è più esperto, ripubblicando un saggio del 2002 «senza particolari cambiamenti»1 tranne che nell’aggiunta di un importante saggio introduttivo che funge da Prefazione e attualizza le riflessioni del critico e filosofo napoletano, sottolineando l’inscindibile nesso fra la dimensione estetica e quella etico-politica del vivere.

Già nel volume del 2002 era, infatti, presente una divisione della materia in due parti: la prima, dedicata all’evoluzione del complesso pensiero estetico crociano dall’Estetica del 1902 alla Poesia del 1936, con cenni ai precedenti e a interventi successivi; la seconda, suddivisa in tredici capitoli che affrontano questioni particolari e sempre attuali, di non semplice comprensione, collegate al tema generale, quali l’autonomia e l’universalità dell’arte, il rapporto fra intuizione ed espressione, arte e moralità; la questione dei generi letterari e il problema delle traduzioni, la distinzione fra Classicismo e Romanticismo, la relazione fra estetica e linguistica etc.

Come sottolinea Paolozzi nel citato saggio introduttivo, valore aggiunto di un testo assai noto e già apprezzato perché coniuga — al solito — rigore e limpidezza, ribadire, come ha fatto Croce, che fondamento della conoscenza razionale, ovvero del giudizio, è la conoscenza intuitiva e che l’arte possiede una propria autonomia comporta una serie di implicazioni che investono l’intera attività umana, in quanto la dimensione estetica «abbraccia per intero l’orizzonte della vita»2. Infatti, lungi dall’essere identificabile solo con il bello, il gusto o il buon gusto, quella estetica, in quanto dimensione teoretica, viene a invadere anche la sfera pratica dell’attività dell’uomo, regolando «il nostro primo rapporto con le cose del mondo»3, perché in ognuno dei nostri pensieri è «presente un’immagine (estetica)»4.

Ciò comporta che la dimensione estetica condiziona anche scelte etiche, politiche, e persino economiche. A tale proposito molto lucidamente Paolozzi rileva come la malattia del nostro tempo, della nostra «società unidimensionale»5, sia generata dal «non tener conto della dimensione estetica della scelta politica»6, razionalizzando ogni comportamento e ogni decisione. Come sottolinea il filosofo, oggigiorno, come in un ritorno a modelli positivistici (oserei dire), si tende a opporre a una «ragione complessa», che terrebbe conto anche delle argomentazioni dell’intuizione, della sensibilità e del sentimento, una «ragione calcolante, esatta ma non vera, che ignora la realtà umana»7.

Come tiene a ribadire Paolozzi, sottovalutando la dimensione estetica dell’agire politico, si rischia di non riuscire a cogliere «gli umori»8 che determinano e condizionano l’inesauribile e imprevedibile ricchezza e vitalità della vita associata; anzi, il fastidio per l’astrattezza di analisi minuziose ma vacue può pericolosamente indurre a opporre a tali «geometrie politiche»9 quell’«irrazionalismo vitalistico, drammaticamente inquietante»10 che spesso dà luogo ai cosiddetti populismi, movimenti di opinione che possono mettere a repentaglio, nella loro veemenza, le fondamenta del vivere civile.

Quello che in queste dense pagine lancia Paolozzi è un monito assai serio per la società dell’oggi e per gli sviluppi futuri del nostro vivere in comune: un richiamo interessante è anche quello alla funzione della cosiddetta «comunicazione politica», che – sottolinea – molto ha a che spartire con l’espressione estetica, in quanto “comunicazione”.

Nella situazione odierna, la comunicazione politica, invece che «simbolo della moderna libertà e indipendenza della stampa»11, può mettere a rischio quella libertà, fa notare Paolozzi. Essa dovrebbe avere la funzione di abbattere, almeno in parte, le barriere fra la cosiddetta classe dirigente e le masse popolari, mettendo a parte le seconde di idee, progetti e passioni coltivati dalla prima: se quella forza espressiva può rappresentare, in tal senso, un utile strumento anche di divulgazione, in certi casi può, però, essere utilizzata al fine di manipolare l’opinione pubblica, come è chiaro. A tale proposito Paolozzi parla giustamente di «nuova sofistica»12, ovvero dell’abile uso delle capacità dialettiche al fine di persuadere le masse e per l’unico scopo di aggregare consensi.

Citando la nota distinzione di Hannah Arendt fra totalitarismo e dittature, il saggio sottolinea, infatti, come oggi siano i capi ad aver bisogno delle masse per essere legittimati: pertanto, i gruppi dirigenti preferiscono rinunciare alla loro storica funzione di guida e indirizzo per adeguarsi alle pulsioni delle masse ed esaudire i loro desideri. In tale dinamica, si rivela difficile arginare la pressione di movimenti populisti che, approfittando della debolezza delle classi dirigenti, puntando allo svuotamento del senso del loro ruolo e mettendo da parte le idealità dei grandi movimenti politici e le storiche contrapposizioni fra destra e sinistra, finiscono per minare alla radice la sopravvivenza dei regimi democratici. Se, in un simile contesto, l’informazione finisce per seguire e adeguarsi all’opinione pubblica, inevitabilmente contribuisce anche alla «degenerazione culturale ed eticopolitica»13 della società, indebolendo lo spirito critico dei fruitori e rinunciando alla sua fondamentale funzione di controllo sui poteri consolidati. Il che implica – come ribadisce Paolozzi – un vero e proprio «“tradimento” della verità estetica, della conoscenza dell’individualità»14.

L’industria dell’informazione, se (come la maggior parte di quella odierna) persegue fini economici, può impoverire «sia la credibilità della denuncia sia la forza della protesta»15: pertanto, per controbattere «il pericolo neo sofista, relativistico o scettico sul quale si fonda la cosiddetta comunicazione»16 oggi, non resta, a giudizio di Paolozzi, che «recuperare la “dimensione estetica del giudizio politico in contrapposizione con la strumentale manipolazione delle tecniche comunicative”»17. Infatti, per preservare la libertà d’informazione, la sua autonomia da qualsiasi tipologia di potere politico, religioso o economico, è necessario rammentare la lezione crociana che l’arte, quale forma di conoscenza, è una categoria autonoma e riconoscere, dunque, l’autonomia dell’espressione. Solo la conoscenza di «individuali condizioni esistenziali e sociali»18 (solo la commozione, ad esempio, che in noi provoca la visione della disperazione di un bambino di quattro anni uscito lievemente ferito, ma sanguinante e terrorizzato, da un bombardamento che ha ucciso suo padre) può porre un argine alla perdita del contenuto di verità che ogni astrazione e ogni generalizzazione comporta (ad esempio, ogni volta che il telegiornale ci informa di cataclismi naturali a causa dei quali hanno perso la vita migliaia di persone senza nome e senza volto).

Rievocando una lettera di Max Horkheimer alla vedova di Croce in occasione della morte del filosofo, Paolozzi ricorda che anche uno dei fondatori della Scuola di Francoforte riconobbe che a Croce si deve la liberazione e «l’emancipazione dell’estetica dal pensiero classificatorio»19, quel pensiero «astrattamente misurante»20 che, se diviene pensiero dominante, può minare alle fondamenta la Civiltà.

Anche alla luce delle recenti e disastrose derive innescate dalle ultime riforme in materia, come non essere d’accordo con Paolozzi quando afferma che «il mito della valutazione oggettiva mortifica la creatività come il pensiero divergente»21? Il nostro sistema della formazione e dell’istruzione attraversa una crisi profonda proprio a causa della concezione pedagogica fallimentare, della miope «ideologia oggettivista, quantitativa, classificatoria»22 sulla base della quale sono state elaborate le recenti normative in materia.

La chiusa di Paolozzi esplicita, forse, la più importante delle ragioni per cui oggigiorno si rivela necessario e utile leggere un libro snello e denso come questo, che illustra chiaramente, ma senza mai banalizzare — con un lessico tecnico preciso ma sempre “tradotto” in esempi funzionali e immagini icastiche (per non smentire il potere delle immagini nella trasmissione della conoscenza) — , l’estetica di un gigante del Pensiero quale Benedetto Croce: la convinzione che lottare contro il ritorno del filologismo nozionistico e del pensiero classificatorio, che combattere contro la morte dell’arte e della critica storica ed estetica è una battaglia di libertà che coinvolge ogni sfera del vivere civile, non soltanto quella estetica.

Dando ancora voce a Paolozzi, infatti, appare opportuno ribadire che, oggi più che mai, la «liberazione dell’arte si accompagna ad una più generale lotta per la libertà»23.

  1. E. Paolozzi, L’Estetica di Benedetto Croce, Napoli, Guida editori, 2016, p. 6. ↩
  2. Ivi, p. 7. ↩
  3. Ivi, p. 8. ↩
  4. Ibidem. ↩
  5. Ivi, p. 10. ↩
  6. Ibidem. ↩
  7. Ibidem. ↩
  8. Ivi, p. 11. ↩
  9. Ibidem. ↩
  10. Ibidem. ↩
  11. Ivi, p. 12. ↩
  12. Ivi, p. 13. ↩
  13. Ivi, p. 15. ↩
  14. Ibidem. ↩
  15. Ibidem. ↩
  16. Ivi, p. 16. ↩
  17. Ibidem. ↩
  18. Ibidem. ↩
  19. Ivi, p. 17. ↩
  20. Ibidem. ↩
  21. Ibidem. ↩
  22. Ivi, p. 18. ↩
  23. Ibidem.
 Diacritica (fasc. 14, 25 aprile 2017)