Ricordo perfettamente lo sgomento di mia zia Olimpia Di Maio quando apprese la morte di Massimo Troisi scomparso a soli 40 anni. Era stata la mamma di Troisi nel film “Scusate il ritardo”, e “ spalla” di Massimo in una della scene che ritengo fra le più argute del cinema italiano, quella della Madonna che piange e che, invece, avrebbe dovuto ridere affinchè si potesse mostrare chiaramente il compimento di un miracolo!

Una scena che da sola basterebbe a mostrare l’arguzia di Massimo Troisi e, assieme, il garbo e la sobrietà tipici del suo stile, della sua cifra. Come già ai tempi della “Smorfia”, degli sketch su San Gennaro, sull’Annunciazione, l’ironia di Troisi non tracimava in volgare o presuntuosa blasfemia. Come se quel tono confidenziale e canzonatorio esprimesse scetticismo e rimpianto assieme, dubbio ma affetto, affetto come si può avere per una nonna di cui non si comprendono tutti gli atteggiamenti ma, sostanzialmente si rispetta e si vuole bene. La misura giusta.

Ricordo ancora gli anni degli esordi della Smorfia ( De caro era mio compagno universitario) quando a casa mia il grande commediografo Gaetano di Maio e altri componenti di questa antica famiglia del teatro italiano, si cercava di valutare e decifrare il nuovo comico che saliva alla ribalta. Ebbene, ricordo che sin da allora si comprese la grandezza e la novità del linguaggio artistico di Troisi. Ciò che poi si sarebbe rivelato negli anni della maturità appena iniziata e così tragicamente spezzata.

I vecchi attori guardano, come è naturale e comprensibile, sempre con sospetto e, perché no, con una qualche invidia e preoccupazione, il nuovo che avanza. E spesso hanno ragione. Quanta falsa avanguardia, quanta supponente quanto vuota retorica del teatro impegnato è passata sotto i ponti del teatro pubblico finanziato e sorretto da lobby politiche ed intellettuali. Teatro falso e vuoto quanto più moralisticamente impegnato.

Troisi no. Era nuovo per davvero, originale, non assimilabile a nessun altro attore o regista del passato. Napoletano fino in fondo, ma nuovo napoletano. Il suo dialetto autentico, privo di esasperati neologismi o di richiami ad un mitico dialetto antico. Né Viviani né Eduardo, né Di Giacomo né Totò. Troisi e basta.

Così come la sua ispirazione di fondo , la sua ironia leggera ma profonda, la sua capacità di tenere insieme la comicità più semplice e tradizionale con intuizioni e aforismi di assoluta originalità. Di Maio l’aveva compreso e cercava di spiegarlo agli scettici, la sorella Olimpia l’avrebbe sperimentato qualche anno dopo.

Noi, oggi, dobbiamo ricordare Troise ,come propone Antonio Volpe, attraverso una ricostruzione anche della sua personalità ( sarà di grande aiuto il libro scritto dalla sorella, Rosaria Troisi, Oltre il respiro che Volpe presenterà il 10 luglio a Sorrento) E’ stato, infatti, un fine interprete delle inquietudini della nostra generazione. La sua timidezza, quella imbranatezza che ha così acutamente rappresentato in tante sue opere, erano la timidezza e l’imbranatezza, di una generazione che perdeva certezze ma conservava la speranza non solo del futuro ma, non sembri paradossale, di un passato nel quale avevamo ben salde le fondamenta. Unica condizione per costruire un futuro. Questa condizione esistenziale Troisi ha rappresentato con grande forza espressiva, con poesia come i veri,rari artisti.

Ernesto Paolozzi