Nella spartizione dei collegi elettorali il desolante declino della classe politica.

Con due lunghe e meditate interviste, i Presidenti dell’Unione industriali della Campania e della Puglia hanno ampiamente criticato l’operato del ceto politico. Del ceto politico nella sua complessità, perché non sembra si siano rivolti in particolare ad uno degli schieramenti in campo.

Ora, che vi sia polemica fra industriali, uomini politici, sindacati, associazioni e così via, non è, come credono alcuni, un male. Mi preoccuperebbe e mi preoccupa, semmai, il contrario. Solo nei regimi poco democratici, o decisamente totalitari, sono tutti felici e contenti: tutti, ossia i pochi che, comandando, hanno anche il potere di far credere di essere tutti.

Ciò che deve preoccupare, invece, è la dura requisitoria pronunciata da Nicola Mancino per la vergognosa spartizione dei collegi elettorali operata in questi giorni di mesto tramonto della nostra democrazia. Nicola Mancino non è soltanto una persona intelligente e responsabile. E’ la seconda carica istituzionale del paese. E, a conoscerlo, c’è da dubitare che il suo sia stato soltanto uno sfogo. L’indignazione e la preoccupazione del presidente del Senato sono sentite e meditate, e non possono occupare un solo giorno della cronaca giornalistica.

I lettori campani e i lettori pugliesi, se solo facessero un po’ di attenzione, potrebbero sin da ora indicare gli eletti dei vari schieramenti in campo con piccolissimo margine di errore.

Ora, questa situazione ve ben oltre i soliti moralismi circa la qualità morale di questo o quel candidato eletto per volere del Principe (per dirla con Mancino) e, francamente, non mi preoccupa troppo la questione del legame territoriale del candidato, giacché i nostri parlamentari devono rappresentare l’Italia, non il quartiere Vomero o il Comune di Angri.

Ciò che preoccupa è che si spegne così la più intima ragione della lotta politica che è, appunto, la lotta stessa, la competizione fra idee, passioni, sensibilità, incarnate da uomini e donne in carne ed ossa.

Si spegne la democrazia perché la lotta non si sviluppa più tra candidati che si contendono fette di elettorato (nella quale lotta più qualche volta accadere che vinca anche il più povero o il rappresentante legato ad un piccolo partito) ma si sviluppa fra candidati che cercano di ingraziarsi il Principe. E’ il trionfo di Tigellino, il trionfo di Nerone.

Come ovviare a questo desolante declino? Mi auguro e ritengo che possa nascere un nuovo movimento politico e sociale capace di aggredire la questione senza infingimenti e ipocrite retoriche. Un’élite politica e sociale che riproponga con forza il problema delle riforme istituzionali. Un sistema maggioritario, infatti, può funzionare soltanto se inserito in un quadro politico e istituzionale coerente: sono necessarie, ad esempio, le primarie, regolamentate per legge; è auspicabile che si affianchi ad esso un federalismo dai contorni più chiari di quello da poco approvato, l’elezione diretta del capo del governo e, probabilmente, l’incompatibilità fra incarichi di governo e attività parlamentare, la regolamentazione dei mandati parlamentari e, naturalmente, tanti altri, sostanziali accorgimenti da discutere e dibattere.

Perciò credo che, come è necessario ipotizzare una Camera delle Regioni per non vanificare il federalismo, a maggior ragione c’è bisogno di un’Assemblea Costituente eletta, ovviamente, con il più puro sistema proporzionale, al fine di rappresentare tutte le culture politiche del paese.

In mancanza di ciò, si profilano tre deludenti possibilità: la lenta deriva che porta ad una sorta di anarchia democratica, il populismo tipico delle democrazie totalitarie o, com’è più probabile, un rinnovato compromesso fondato su personalismi, piccoli interessi, e quietismo delle coscienze.

Ernesto Paolozzi

Da “Corriere economia” del 9 aprile 2001