Quanta destra c’è nella sinistra

E’ un gran bene che, nella discussione aperta sull’identità della sinistra, intervenga un giovane democratico, il segretario Marco Sarracino. Fra i drammi della sinistra, infatti, c’è la mancanza di appeal, di attrazione nel mondo giovanile il quale si rivolge alle estreme o, anche, come nelle ultime elezioni, a formazioni di Centro che appaiono nuove, come nel caso della lista Monti.

Un dato allarmante per il Pd, che dovrebbe dedicare più di un congresso alla questione. Sarracino difende con dignità l’operato dei giovani democratici e non risparmia critiche al partito e alla cultura dei democratici in senso lato. Ma un passaggio mi sembra fondamentale e degno di un meditato approfondimento: quello nel quale il giovane segretario si rammarica che il Pd, forse per motivi elettorali, ha tranciato le radici ritenendo che il nuovo consisterebbe nel dire cose di destra da sinistra.

C’è del vero in questa constatazione, ma non è tutta la verità. La mia può essere una testimonianza preziosa: provengo, come forse qualcuno sa, dalla cultura politica liberale e scelsi, nell’Italia bipolare, di stare a sinistra (con qualche sacrificio personale, mi sia consentito di ricordarlo) mentre la maggior parte dei liberali inseguivano il sogno della rivoluzione liberale della nuova destra.

Perché la sinistra? Perché la destra mostrava tratti populistici, rispolverava tic fascisti, si alleava con l’incivile e pericolosa Lega del Nord. La sinistra, invece, prometteva una svolta riformista, social-liberale per così dire, guardando veramente al futuro. Un riformismo radicale nel senso di radicalmente, fortemente, rivoluzionariamente riformista.

Ebbene ricordo anch’io come, in quegli anni, la conversione di molti ex comunisti sfociò in una esaltazione del cosiddetto liberismo economico che, si sarebbe detto un tempo, scavalcava a destra gli attoniti liberali di formazione crociana, pannunziana, scalfariana e così via.

Dunque, potrebbe dire Sarracino, perché non votare l’originale, perché non cercare direttamente nella destra i liberali liberisti? La nascita del Pd sembrò a molti il grande, storico tentativo di sciogliere questo nodo, l’opportunità di costruire una nuova formazione politica con radici forti, immerse nel terreno delle grandi tradizioni socialiste, cattoliche e liberali riformiste.

Scrissi un libretto che ebbe una certa diffusione nel quale sostenevo che non si doveva commettere l’errore di sovrapporre i contenuti programmatici di socialisti, liberali, cattolici ma si doveva proporre un metodo di interpretazione della realtà, il metodo della complessità, per sua natura radicalmente riformista, fondato sulle sensibilità riformatrici di socialisti, cattolici, liberali.

Non è andata così. Non abbiamo sintetizzato, ci siamo confusi. Ho molto apprezzato lo sforzo compiuto da Veltroni nel rinnovare, anche sul terreno comunicativo e gestionale, la sinistra italiana. Ma ricordo bene che, quando al suo esordio come segretario pose sullo stesso piano Bobbio e Don Milani, mi resi conto che non di fusione di culture si trattava, ma di una sorta di frullatore ideologico. I giovani forse non conoscono né Bobbio né Don Milani, personaggi in fondo minori che non sono Croce, Gramsci o Don Sturzo. Ma, se cercano su Internet, si renderanno conto che appartengono a mondi troppo distanti.

E allora, giusto per provare a ragionare di nuovo tutti assieme: provare a modificare la cassa integrazione affinché quel nobile e utile strumento non si tramuti nella difesa di alcuni a discapito di altri, soprattutto i più giovani, è dire cose di destra da sinistra?

Oppure, per cambiare totalmente argomento rimanendo nel nostro ragionamento, se i giovani si informassero sulle vicende di Valpreda e di Enzo Tortora si renderebbero conto che, nella storia della sinistra, liberale e marxista assieme, la politica ha sempre avuto il primato sulla cosiddetta legalità e non lascerebbero a una destra opportunista e insincera la battaglia radicale sui referendum. Dimenticare Berlusconi, innanzitutto, per riconquistare le proprie radici e guardare avanti con spregiudicatezza e creatività.

È uno sforzo culturale prima ancora che politico, enorme, dall’esito incerto anche sul terreno elettorale. Ma è uno sforzo da compiere se non ci si vuole arrendere all’idea che basta un nuovo leader, Renzi o Letta o, un po’ tartufescamente, un Cuperlo-Renzi, per salvare il salvabile in questa difficile contingenza. Per carità, il leader è necessario perché oggi (ma anche altre volte nella storia) il leader impersona, simbolicamente e chiaramente, una politica. Ma, appunto, una politica.

Tocca ai giovani interrogarsi e tormentarsi nella ricerca di una nuova identità. Non dire da sinistra cose di destra, penso io, ma trovare il modo di coniugare libertà e socialità lasciando alla destra e alla sinistra conservatrici la difesa di corporazioni e segmenti sociali improduttivi, la visione, in fondo comune a entrambe, di una società chiusa, torva, ingenerosa, moralista e non morale.

Ernesto Paolozzi

Da la Repubblica 2 settembre 2013 6 sez. NAPOLI http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/09/12/quanta-destra-ce-nella-sinistra.html?ref=search